Riprendiamo la città. Il nostro primo potlach

La socialità del dono

di Marta Meroni

«La cosa donata frutta una ricompensa in questa vita e nell’altra.
Qui produce automaticamente per il donatore una cosa identica a se stessa: non è perduta,
si riproduce; là, è la stessa cosa accresciuta che viene ritrovata.»

Marcel Mauss, Saggio sul dono

Finalmente abbiamo inscenato un potlach e ora vi raccontiamo perché. Partiamo dalle basi. Il termine potlach, potlàc o anche potlatch, indica un insieme di cerimonie che venivano attuate da diverse popolazioni della costa nord-occidentale del continente americano. Il nome deriva dalla lingua chinook, una lingua franca utilizzata per gli scambi commerciali tra nativi e colonizzatori, e significa dare, donare.

Settembre 2016. Riceviamo una mail in cui veniamo gentilmente invitati al Mercato Lorenteggio – nostro punto di riferimento nella fitta trama metropolitana – portando con noi un oggetto a noi caro, attraverso cui raccontare una parte di noi stessi, ancora sconosciuta al gruppo.

Finalmente ci rincontriamo: siamo belli, abbronzati e rilassati. Durante la pausa estiva ognuno di noi ha accumulato… che cosa? Riposo per la mente o per il corpo, avventure, desideri per il nuovo anno (ci ritroviamo ancora a pensare per anni accademici – quelli che hanno scandito la maggior parte delle nostre vite), alcuni hanno accumulato una conoscenza meticolosa riguardo tutti i risultati sportivi delle olimpiadi.
Quale momento più propizio per mettere in atto il rituale che da mesi nominiamo e tentiamo di snocciolare davanti agli sguardi perplessi dei nostri interlocutori?
Messe da parte le pacche sulle spalle, gli abbracci e i sorrisi, ci sediamo attorno a una grande tavola rotonda.

La maggior parte dei membri del gruppo è presente, qualcuno lo abbiamo perso per strada in questi lunghi mesi. C’è chi ha percorso pochi chilometri, chi invece giunge da lontani villaggi (Saronno – Milano è una bella sfida). Che la cerimonia abbia inizio! Oggetti alla mano, iniziamo a raccontarci. Finisce il giro, e tutti hanno posato al centro del tavolo il proprio oggetto, raccontando la storia ad esso legata. Al termine, ciascuno di noi può prendere un oggetto, che non sia il suo. E poi via, tutti insieme a mangiare carne di cavallo da Vito.

Eh già, sembra semplice, ma cosa ci rimane, che cosa ha significato per noi quest’ultima ora, cosa significa che il fenomeno del dono è un “fatto sociale totale”?

La ritualità del dono
Un “fatto sociale totale” è – secondo alcuni noti strutturalisti francesi – un fatto capace di coinvolgere gran parte delle dinamiche della comunità oggetto di osservazione (nel nostro caso di auto-riflessione). Secondo questa prospettiva, attraverso un singolo fenomeno, è possibile spiegare la struttura e la forma dei rapporti sociali nel suo complesso. Tre sono le caratteristiche fondamentali del dono, secondo il più grande esperto di doni – no, non stiamo parlando di Babbo Natale, ma di Marcell Mauss, esimio antropologo il cui testo più noto è per l’appunto il Saggio sul dono – dare, ricevere, ricambiare (1923). Mauss fa luce sull’obbligatorietà del dono all’interno delle comunità primitive: si deve dare per mostrare la propria potenza, ma non ci si può esimere dall’obbligo di ricevere – non si può rifiutare il dono, si deve restituire alla pari o accrescendo ciò che si è ricevuto.

Il dono non è quindi pratica libera, è un obbligo sociale e un vincolo comunitario. Pena: l’espulsione dal gruppo. Il singolo non può affermarsi senza la collettività e viceversa. Questa interpretazione del fenomeno del dono come sistema di regolazione socio-economica scardina la visione della gratuita, basata sulla liberalità del singolo e caritatevole del dono a cui siamo soliti pensare, e ci porta a riflettere sulle dinamiche di costruzione del nostro gruppo di lavoro, di scambio tra noi e fuori da noi, con le persone che stiamo per coinvolgere nella seconda parte del nostro lavoro.

Ognuno ha portato un’offerta al gruppo, donando un racconto racchiuso in un oggetto, assemblando al centro del tavolo una buffa composizione che parla di tutti noi. E’ semplice, ma profondo. Inizia il primo, si alza e dona. Nel momento in cui i membri del gruppo accettano i doni, confermano il suo status – inteso come esperienza all’interno di uno specifico gruppo sociale.

Dimentichiamo le gerarchie e pensiamo ad un’organizzazione di tipo differente: la costruzione di un collettivo di ricerca e azione deve presupporre la tensione verso l’orizzontalità, per preservare il valore della collettività: gli sguardi multipli di cui andiamo molto fieri, l’ambiente ideale per l’apprendimento collettivo, dove la coralità è costruita passo per passo, stratificata sull’esperienza di ognuno, messa in comune e riformulato in una fitta trama di intrecci. Chi ha parlato è indissolubilmente legato al gruppo: in quel momento è riconosciuto per aver donato e perché è predisposto a ricevere. Gli altri membri del gruppo, a loro volta, tentano di eguagliare l’offerta – abbandoniamo anche la connotazione competitiva che questo rituale si porta dietro e concentriamoci sulla socialità del dono, che svolge una basilare funzione sociale, crea, rafforza e conserva i legami comunitari.

L’economia del dono, nell’obbligo a concorrere al continuo “dare e ricevere”, rinsalda e fortifica un fitto insieme di relazioni sociali e comunitarie all’interno delle tribù primitive. Va da sé che la messa in scena di un adattamento della cerimonia del potlach è un dispositivo diffuso in contesti di costruzione o consolidamento di un gruppo.

Donare storie: il valore della narrazione personale
La cerimonia permette lo scambio di risorse materiali (nel nostro caso simboliche: storie di vita, aneddoti, scorci delle nostre personalità multiple) all’interno della comunità. Inoltre i membri consolidano il proprio status attraverso il rifiuto della proprietà privata (della propria storia) in nome del dono e della condivisione del gruppo.
Ci portiamo a casa questa lezione da società più arcaiche: le cose possiedono un valore elevato, non tanto per il loro marchio di fabbrica o per il materiale di cui sono fatte, ma per un’accezione più vicina all’animismo, hanno una spirito, una volontà. Sugli oggetti riversiamo significati profondi, attraverso loro cerchiamo di soddisfare i nostri desideri e il nostro bisogno di appartenenza.

Le nostre cose, i nostri oggetti parlano di noi attraverso la loro storia, possiedono una personalità e virtù proprie. Un oggetto può essere un dispositivo di esplorazione di storie individuali, di percezioni, immaginari.

Non entrando nel merito di sproloqui sulla merce e sui suoi significati…alla fine della cerimonia – non meno radicali dei Kwakiutl che distruggevano i beni materiali come dimostrazione del disprezzo per la proprietà, ma più sobri – ci siamo limitati a scegliere l’oggetto che più ci aveva colpito e portacerlo a casa, concedendogli di assumere nuovi significati attraverso nuove personali esperienze. E così le nostre storie si intrecciano grazie a questo simbolico scambio materiale.

Così ora io (Marta) guardo appese alla bacheca le cime delle montagne disegnate da Cassandra; qualcuno impara le bandiere del mondo dal libricino verde tanto caro al bimbo Michele; ognuno di noi porta un sassolino in borsa, che viene da un posto visitato da Valentina; qualcuno esibisce l’alberello di Natale intagliato da Marta; forse qualcuno tenta persino di ottenere sconti universitari usando il tesserino dell’erasmus di Giada; qualcuno viaggia gratis da Saronno a Milano riciclando il biglietto del treno di Filippo; c’è chi scopre i mondi narrati da Philip Dick grazie a Tommi; chi strimpella uno scacciapensieri sognando il viaggio in India di Erika; forse la talea donata da Jacopo è fiorita su qualche davanzale; la cartolina del trenino del bernina è appesa alla stessa bacheca – per maggiori informazioni su orari e costi rivolgersi a Pietro –; la pallina da tennis di Tommi sarà tra i denti di qualche animale domestico; la canzone di Massimo è nella testa di tutti noi, così come i versi delle poesie di Elena, e se ho dimenticato qualcuno mi dispiace ma non si può andare troppo avanti così…

Antropologi, non vogliatemi male per le imprecisioni interpretative, si sa che le comunità si appropriano dei rituali e il mondo è bello perché è vario.

Sulla responsabilità di ricevere storie…
Il dono determina anche una forma di “rudimentale credito”, una aspettativa di ricambio al dono, “un potere” del donatore nei confronti del donatario. E così oltre a uno strumento e un dispositivo per rafforzare i legami sociali e comunitari e per mettere in circolo narrative personali di un gruppo di ricerca e di lavoro, ci interroga anche sul debito di cui siamo portatori quando una storia ci viene donata.

Ed è qui che si apre la riflessione per il nostro gruppo: l’attenzione, l’ascolto e la cura delle aspettative nel dare e ricevere storie e racconti. Quali aspettative si genereranno nelle persone di cui raccoglieremo la storia rispetto al come saremo in grado di riceverla e di restituirla ad un pubblico più ampio?

Se siete curiosi di sapere come abbiamo provato a rispondere a questa domanda, seguiteci, qui su Q Code Town!


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