TOKYO

SIDNEY, TOKYO, DETROIT: IL RACCONTO DI TRE CITTÀ

di Valeria Nicoletti, foto di Paolo Mazzo 

“Viaggiando ci si accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti”, così raccontava Marco Polo delle città invisibili che aveva esplorato, nel libro di Italo Calvino. Tra analogie e divergenze, tre città si raccontano, in immagini e parole, attraverso le traiettorie degli abitanti, il profilo degli edifici, le orbite dei microsistemi che si costituiscono intorno ai quartieri, ai teatri, alle icone cittadine, gli spostamenti che seguono inevitabilmente l’ascesa e il declino delle economie. Dopo Sidney, la prossima fermata è Tokyo dove, in assenza di landmark, è la folla stessa a disegnare il profilo urbano della città, a definirne i quartieri, le dinamiche, i centri d’interesse.

“Tokyo la distrutta e la ricostruita è una piovra dagli elastici tentacoli”, scriveva Jean Cocteau. Seconda capitale al mondo per densità e popolazione, dopo Pechino, oggi Tokyo conta circa 15 milioni di abitanti, il 12% dell’intera popolazione giapponese. Era il 1943 quando avvenne la fusione tra la prefettura della città e il territorio del capoluogo, con la nascita di un’ampia area metropolitana, che si estende per più di duemila chilometri quadrati, dove si delineano contorni urbani differenti, eppure tutti fusi insieme in un’unica grande conurbazione.

Una città che contiene moltitudini, rivelando un volto diverso a ogni fermata della metropolitana, ma non solo. Tokyo si presenta come il più effimero e cangiante degli spazi urbani, quasi un gioco di luci e ombre, di pieni e vuoti, dove alle aree intasate di corpi, di parole, di destinazioni, di occasioni perdute, si alterna un infinito nulla, una fame di vento, una tela bianca.

Non ci sono landmark, non esistono punti di riferimento, i quartieri sembrano assomigliarsi e divergere allo stesso tempo, le strade si allineano e si dividono, costituendo una scenografia multiforme che sfugge a qualsiasi tentativo di orientamento. Qui è il flusso della folla a disegnare la città, a darle una morfologia in continuo movimento. Un oceano di persone che spesso sembra muoversi all’unisono, quasi inconsapevole della scenografia alle spalle. Potrebbero essere ovunque e, in effetti, forse un po’ lo sono, in ogni luogo, sfuggenti, catturate nelle spire della città solo per il tempo di un’attesa al semaforo, riflesse nello schermo dei telefoni, schiacciate nella corsa della metropolitana, in piedi a un crocevia, in un marciapiede affollato.

Capitale dello sviluppo tecnologico, in sfida costante con il presente, Tokyo sembra incarnare il futuro ancora prima del suo essere, una sfilata di trasformazioni elastiche e permanenti, uno stato liquido in costante tensione.

L’elevato rischio sismico dell’area geografica ne ha fatto una delle città più cangianti al mondo. Il profilo dei palazzi, le geometrie dei quartieri, le configurazioni delle periferie, cambiano circa ogni vent’anni: per prevenire eventuali terremoti, molti edifici sono ricostruiti periodicamente, cercando di sfuggire alla possibilità del crollo. I grattacieli di Tokyo poggiano su molle elastiche che attutiscono l’energia delle scosse e, in ogni armadietto, c’è una borsa di sopravvivenza, per portare con sé l’indispensabile in caso di evacuazione. Questo fa della capitale giapponese uno spazio assediato dalla precarietà, dal qui e ora, ma anche una città in preda ad una metamorfosi continua, all’avanguardia per necessità e istinto di sopravvivenza.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Lo spazio è configurato da linee rette, traiettorie individuali, diventa il campo privilegiato per l’azione, coniugato esclusivamente al tempo presente ma declinato in una dimensione spaziale plurima, attraverso l’incessante connessione, e ossessione, per la realtà virtuale.

A inseguire le strade di Tokyo, ci si perde in un caleidoscopio di impressioni fuggevoli, un gioco di opposti, di silenzi e caos. La rabbia di vivere travolge nei corsi iperattivi, nelle grandi arterie e poi è sufficiente sbagliare indirizzo o lasciarsi volutamente disorientare per ritrovarsi al cospetto di viuzze silenti, di una calma apparente, di umili magioni di legno addossate a brillanti palazzi di vetro. Allo scorrere dei torrenti d’asfalto si alternano piazze vuote, il lento spegnersi di un mercato alla fine del giorno, il brusio sotterraneo della metropolitana del ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, cortine silenziose di lanterne che rischiarano strade secondarie, brandelli di conversazione aggrappati a un telefono. A volte sembra quasi che sia lo spazio vuoto a fare da punto di fuga, involontario protagonista, con gli spettatori assiepati ai lati della strada.

L’elemento umano è perfettamente inglobato in tale architettura urbana semovente, parte integrante e protagonista attivo di un decoro in movimento, quasi modulando la voce, le azioni, in funzione dell’orizzonte. Negli scatti, la folla sembra quasi precipitarsi nell’obiettivo, un frenetico senso di marcia che non può non essere finalizzato a un dove, una cosa, un perché reali, esistenti.

Strade inebriate di frenesia, e tuttavia percorse a ritmi differenti, dove non è difficile scorgere anche un’andatura lenta, una nota discorde, una bicicletta tranquilla, una normalità inaspettata. Le immagini catturano profili, ombre veloci, fuggevoli fotogrammi di un flusso ipnotico di movimenti, un pulsare continuo e intermittente. Come scrive l’autrice giapponese Banana Yoshimoto, “Non riuscivo a distinguere bene quelle cose che di solito l’occhio registra senza difficoltà: i pali della corrente, le luci, le automobili in sosta, il cielo nero. C’era una strana bellezza nelle loro distorsioni surreali. Sembravano assalire gli occhi da ogni parte. Non potevo trattenere l’energia che abbandonava il mio corpo a una velocità incredibile. Si perdeva nell’oscurità con un sibilo”.

Tokyo si lascia solo intravedere, come un vortice di universi in divenire, travolgente, sempre nuovo. E sembra quasi che lo stesso scatto, fotogramma immobile per natura, a guardarlo una seconda volta cambi volto, sfumatura, abbia continuato a muoversi in un tempo altro, in una velocità sconosciuta.

 

Foto tratte da https://www.behance.net/gallery/21027327/Liquid-Room

 

Valeria Nicoletti (1987), dopo quattro anni, e dodici case diverse, a Parigi, torna in Italia, e da Milano racconta di viaggi, fauna metropolitana e letteratura contemporanea. Ha un blog: auventmauvais.wordpress.com.

Paolo Mazzo è nato a Padova, vive e lavora a Milano. Fotografo professionista dal 1993, è socio di F38F – Famiglia Trentotto Fotografi (con Francesco Di Loreto e Mimo Visconti), che produce fotografie pubblicitarie, editoriali e di architettura. Autore di progetti fotografici a sfondo sociale o urbano, ha prodotto lavori sulla rigenerazione culturale di una dimenticata città mineraria  (Arsia, Croatia, work in progress); sul popolo profugo Sahrawi  in Algeria (“Voci distanti dal Mare”, Napoli 1998; “Il Coraggio di essere un popolo”, Reggio Emilia 2002); oltre all’analisi urbanistica della città in cui vive (in F. Oliva, L’urbanistica di Milano, Hoepli editore, Milano 2002; e  A. Arcidiacono, L. Pogliani (a cura di), Milano al futuro, et al./edizioni, Milano 2011); fino al progetto Company Town, di recente esposto a Londra, dove analizza lo sviluppo e la genesi di città cresciute attorno a importanti insediamenti produttivi (p.e. Zlin in Repubblica Ceca, Batovany in Slovaccchia o Nowa Huta in Polonia). Dal 2002 collabora con gli atelier del primo e del sesto anno all’Accademia di Architettura di Mendrisio ed è dal 2007 coordinatore della ISSI, l’international summer school di Ivrea, che si occupa dei temi della città di Olivetti in trasformazione. Ha tenuto lezioni e workshop allo IUAV, al politecnico di Milano e di Torino e alla scuola umanitaria di fotografia di Milano C.F.P. Bauer. Ha vinto il  “Marco Bastianelli- Opera Prima“ premio nel 2010 con il lavoro “Radici di ferro”, un progetto sul primo insediamento delle acciaierie Falck a Dongo (Como)

 

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