La città e il contadino

Alle Città del futuro di Bruno Giorgini risponde la Chengzhenhua cinese: la nuova urbanizzazione che la leadership vorrebbe sostenibile e a beneficio di tutti. È l’occasione per aprire un dibattito a più voci sul futuro della metropoli e sul rapporto con i luoghi che abitiamo

di Gabriele Battaglia,
da Pechino

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Venezia e Marsiglia come modello di città del futuro? Dalla Cina, la lettura di Bruno Giorgini risulta doppiamente interessante per un semplice motivo: qui, “urbanizzazione” è la parola d’ordine che il nuovo premier Li Keqiang ripete un giorno sì e l’altro pure; la formula magica che dovrà cambiare il volto del Dragone e che ci sentiremo ripetere per i prossimi dieci-vent’anni.

In questo caso, se la Cina di solito fa da specchio all’Occidente, è vero anche il contrario: cosa dicono Venezia e Marsiglia – e più in generale le città “a misura d’uomo” d’Europa – a chi sta oltre Muraglia? È un modello estendibile, valido?

[blockquote align=”right”]Gradualmente, con la crescita economica a doppia cifra e l’accumulo di liquidità, i terreni sono sempre più stati espropriati non per ragioni produttive, ma per speculazione pura: quella immobiliare. E la bolla è cresciuta fino a diventare incontrollabile.[/blockquote]Si dice Chengzhenhua, “urbanizzazione delle città di media grandezza”. Fino a ieri avevamo la Chengshihua, urbanizzazione delle metropoli, il processo durato trent’anni che ha creato megalopoli alla Blade Runner: Pechino, Shanghai, Chongqing, Shenzhen, Guangzhou.
La seconda si può sintetizzare così: all’avvio delle “riforme e aperture” di Deng Xiaoping, per creare la “fabbrica del mondo”, le terre sono state destinate alle industrie e sottratte ai contadini, i quali sono via via diventati lavoratori migranti (mingong, che viene da nonming, contadino, e gongren, operaio), quell’esercito industriale di riserva che si è riversato nei maggiori centri urbani e che, con il proprio lavoro vivo, ha consentito alla Cina di invadere il mondo con le sue merci a basso costo. Gradualmente, con la crescita economica a doppia cifra e l’accumulo di liquidità, i terreni sono sempre più stati espropriati non per ragioni produttive, ma per speculazione pura: quella immobiliare. E la bolla è cresciuta fino a diventare incontrollabile.

Ora, il modello non funziona più. Tutti hanno più o meno beneficiato della crescita economica, ma c’è chi ci ha guadagnato (immensamente) di più e chi (drammaticamente) di meno e così la diseguaglianza relativa sbattuta davanti agli occhi di tutti crea instabilità sociale. Oltre centomila “incidenti” all’anno (leggi “rivolte”) sono lì a testimoniarlo. Ma il fatto nuovo è che a ribellarsi non sono più solo i contadini che si battono contro le requisizioni di terre, bensì anche il ceto medio urbano che del “modello Deng” ha beneficiato. Anzi, si può dire che il nuovo ceto medio è nato propro grazie al modello Deng. È il nuovo fenomeno dei “nimby secondo caratteristiche cinesi”: gente benestante che non vuole la fabbrica chimica dietro casa o il figlio avvelenato da latte alla melamina, piuttosto che andarsene in giro perennemente con la mascherina antismog. Nel 2012, per la prima volta, gli “incidenti” per ragioni ambientali hanno superato di numero quelli dovuti alle requisizioni di terre (dati ufficiali).

Pensate a che grattacapo per il potere cinese: i contadini espropriati dei terreni non ne possono più, i nuovi ceti urbani – su cui fonda il proprio consenso – si infuriano facilmente, le città sono dei mostri in costante emergenza ambientale, l’economia speculativa sta divorando quella reale, che è in calo perché gli ordini dall’estero latitano (vedi alla voce “crisi globale”).

Come se ne esce? Chengzhenhua, urbanizzazione “sostenibile” dei centri di media grandezza, è la risposta. Posto che in Cina “solo” il 52 per cento della popolazione vive in città (nella plurimillenaria storia cinese, la data storica del sorpasso urbanizzati-rurali è il 2011) mentre nelle economia evolute la percentuale è dell’80-90 per cento, il governo di Pechino pensa che inurbare altri 400milioni di cinesi risolverebbe diversi problemi: trasformerebbe gli ex contadini/produttori in borghesi/consumatori, che darebbero quindi nuovo slancio all’economia reale; farebbe incontrare le genti e darebbe loro istruzione, così, grazie alla loro massa critica, il Paese produrrebbe finalmente merci ad alto valore aggiunto e non solo prodotti di bassa qualità e a buon mercato; lascerebbe le campagne libere per un’agricoltura di grandi aziende agricole più scientifiche, produttive, capaci di sfamare le crescenti masse urbane molto meglio del vecchio appezzamento gestito con metodi tradizionali da una singola famiglia; farebbe sì che le case di nuova costruzione non restino vuote ma vengano finalmente occupate da qualcuno; decongestionerebbe le megalopoli per distribuire la popolazione più armoniosamente nei centri minori.

Ecco che il pensiero corre alle Venezia e Marsiglia descritte da Giorgini, anche se in Cina, presumibilmente, potrebbero avere tra i 3 e i 5 milioni di abitanti (in un altra parte di questo sito potete leggere invece di come in una lontana provincia del nordest si cerchi di rifare Firenze): una Cina di centri sostenibili, dove il contadino ha potuto accedere agli stessi beni e servizi del cittadino ed è quindi diventato ceto medio, dando il suo contributo alla riconversione dell’economia.

Sarà così? No, probabilmente.

I critici alla Chengzhenhua già proliferano e sono di due tipi.
Primo. Alcuni economisti (di provenienza trasversale). Secondo costoro, in sintesi, non si vede perché un fenomeno indotto dall’alto di urbanizzazione dovrebbe creare automaticamente lavoro, innovazione, ceto medio benestante. Non è la città che “crea” il lavoro, ma piuttosto il contrario: gli abitanti dei villaggi vanno in città perché lì c’è già lavoro. Oppure il contadino, che si fa mercante grazie al surplus del proprio lavoro, va a venderlo al mercato più vicino. E quello diventa una città. Se si forza il fenomeno contrario, si rischia invece di produrre sacche di emarginazione, slums, disordine: l’esatto opposto della città sostenibile.

Secondo. Gli intellettuali di sinistra. Secondo costoro, non bisogna imitare il modello occidentale di urbanizzazione all’80-90 per cento, ma rispettare la tradizione contadina cinese e preservare la biodiversità costituita da quel quasi-50 per cento di contadini. Solo così, dicono, possiamo trovare soluzioni diverse, più complesse e dinamiche, alle crisi economiche; possiamo dare da mangiare a tutti; possiamo preservare il territorio, il patrimonio architettonico delle mille culture che popolano la Cina e la natura già così sofferente. Quello che va fatto è piuttosto restituire un po’ di quanto i contadini hanno dato senza che ne avessero benefici in cambio: i servizi, gli investimenti, i beni comuni.

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Ed ecco perché in Cina non ci saranno né Venezia né Marsiglia, città nate spontaneamente dalle genti che le hanno popolate, spesso fuggendo.
Qui il modello di governo è paradossalmente sia estremamente centralizzato (l’imperatore e poi il Partito), sia incredibilmente decentralizzato: 31 province, 333 prefetture, 2858 contee, 40.858 città, un numero incalcolabile di villaggi. Ogni unità amministrativa, a sua volta è governata da una doppia struttura parallela: Partito-Stato.
Da quando, trent’anni fa, il “modello Deng” ha sostituito il successo economico alla fedeltà politica come parametro di successo, il funzionario locale (nominato dall’alto) deve dimostrare dati alla mano che ha fatto crescere il Pil locale, se vuole fare carriera. E quindi, utilizza tutto il suo potere discrezionale (datogli dalla decentralizzazione delle risorse) per “fare cassa”. Ecco la colata di cemento, ecco le città “insostenibili” che sorgono come funghi dal nulla, ecco la speculazione edilizia, ecco il lago inquinato dalla fabbrica – che produce Pil – poi ripulito dall’azienda ecologica – che riproduce Pil – e poi inquinato di nuovo dalla fabbrica, che ri-riproduce Pil: perché il Pil funziona così, tutto fa brodo.

Il governo di Pechino decide le grandi politiche, le fa piovere dall’alto sotto forma di parola d’ordine, ma poi sul territorio arrivano mediate, deviate, snaturate dalla miriade di interessi locali.
“Il rapporto è come tra l’imperatore e i suoi principi”, ci ha detto Ou Ning, un intellettuale che è ritornato alla campagna per tentare un esperimento dal basso di moderna comune rurale.
Del resto, se la Cina ha sempre funzionato così, come può cambiare nello spazio di un mattino?

Il problema non è la dimensione della città. Il problema è storico e politico. Materiale. E i modelli, così come i valori, non sono esportabili ovunque.
Io intanto ne ho approfittato per raccontarvi un po’ di Cina.

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