di Sara Marchesi
Questa è una storia che inizia (tristemente) come tante altre: un settore della periferia urbana di una grande città – in questo caso parliamo del capoluogo piemontese – che diviene oggetto di una progettazione ex novo finanziata da fondi pubblici in occasione di un “grande evento” – le Olimpiadi invernali del 2006.
Il Villaggio Olimpico di Torino, progettato e realizzato nell’area degli ex Mercati generali ortofrutticoli e che nella sua totalità occupa ben 90.000 mq, era stato originariamente definito – anche qui come di norma in questi casi – dallo studio dell’architetto Benedetto Camerana e dal Comune di Torino come, una volta terminati i giochi, “un quartiere destinato a essere assorbito nel tessuto cittadino”. In particolare, la componente residenziale realizzata lungo via Giordano Bruno, inizialmente ideata per ospitare gli atleti e costituita di trentanove unità disposte su tre lotti, avrebbe dovuto essere riconvertita ad abitazioni sociali, uffici dell’Arpa (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), studentato universitario, uffici del Torino Olympic Park. Nella realtà, il destino dell’area è stato quello di passare in affidamento al fondo Città di Torino.
Inutile dirlo, la riconversione non è mai avvenuta e il Villaggio Olimpico, che per inciso ha rappresentato l’appalto più costoso tra quelli commissionati per le Olimpiadi del 2006 (19 milioni, ai quali si sono sommati altri 1,7 a distanza di meno di un anno per “problemi di manutenzione”), ha finito per rappresentare l’ennesimo caso di mal celata speculazione edilizia e di enorme spreco di denaro pubblico.
A fine marzo 2013, a seguito della così definita emergenza Nord Africa – vale a dire con l’arrivo in Italia dell’ondata migratoria di persone provenienti principalmente dalla Tunisia e dalla Libia – circa duecento profughi hanno occupato prima due, poi tre degli edifici, da tempo vuoti e in pessimo stato di conservazione, dell’ex Villaggio Olimpico (ex-MOI) con l’appoggio di volontari e militanti dei centri sociali Gabrio e Askatasuna. Oggi, in queste palazzine vivono più di mille migranti provenienti da diversi Paesi soprattutto dell’Africa.
In tali circostanze è nato Con MOI, un gruppo informale composto da alcuni migranti e cittadini italiani in gran parte residenti nel quartiere Lingotto che, spinto innanzitutto dalla volontà di praticare solidarietà concreta, ma anche e contemporaneamente da quella di rafforzare il legame tra i vecchi e i nuovi membri della comunità che nel quartiere, in un modo o nell’altro, ci vive, attraverso pratiche di recupero e ridistribuzione di prodotti (soprattutto alimentari) in eccedenza senza prevedere alcuno scambio monetario, tenta di sopperire all’incapacità – se d’incapacità davvero si tratta – dello Stato di affrontare la cosiddetta “crisi dei migranti”.
Una crisi che tale è diventata davvero nel momento in cui, a due anni dall’ondata migratoria, il Governo ha dichiarato conclusa l’emergenza, destinando a ciascuno dei rifugiati una somma pari a 500 euro e mettendo poi discretamente la retromarcia, ritenendo di non dover prestare alcun ulteriore supporto come, per esempio, la garanzia di un alloggio; e non parliamo neanche di una qualche forma di assistenza o mediazione culturale.
Nella stessa via Giordano Bruno – per la precisione nell’area industriale ex Framtek – dal 2008 è ubicato il Parco Arte Vivente (PAV), fondato dall’artista Piero Gilardi (classe 1942, originariamente esponente dell’Arte povera ma conosciuto oggi soprattutto per il suo teatro politico di strada in sostegno delle lotte sociali, una tra tutte quella dei NO TAV) come centro sperimentale d’arte contemporanea.
Obiettivo del centro è promuovere un’arte che si collochi politicamente a favore dell’inclusione e dei diritti sociali e umani, con un’attenzione particolare rivolta al ruolo dell’ecologia, ai temi della sostenibilità ambientale e all’alleanza tra arte e natura all’interno del contesto urbano. Al programma espositivo si accompagna poi una serie di attività formative, educative e di aggregazione organizzate e sviluppate per, ma soprattutto con gli abitanti del quartiere.
Dal 7 luglio fino al 23 ottobre, il PAV ospita la mostra Wild Energies. Persone in movimento curata da Marco Scotini, ormai al suo secondo anno come responsabile del programma curatoriale del Parco Arte Vivente. Si tratta del risultato di una doppia collaborazione: quella tra l’artista e architetto slovena Marjetica Potrč e la collega americana, da anni residente in provincia di Ivrea, Marguerite Kahrl e quella di quest’ultima con il gruppo Con MOI.
Il lavoro di Marjetica Potrč si basa sull’idea che qualsiasi collettività voglia essere riconosciuta all’interno di una società necessita di uno spazio fisico e, ci dice Marjetica, i giardini comunitari sono un perfetto modello di auto-costruzione di spazio. Essi rappresentano una sorta di piattaforma politica sulla quale è possibile costruire nuovi rapporti sociali, diventando dei laboratori di co-esistenza umana. Un esempio della sua modalità di azione artistica è Ubuntu Park – progetto realizzato nel 2014 a Soweto, in Sudafrica, nell’ambito del workshop Design for the Living World da lei tenuto per gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Amburgo – il quale prevedeva, in un periodo di residenza di due mesi e mezzo, la riqualifica e la riprogettazione insieme agli abitanti del villaggio di una porzione di terreno utilizzata come discarica a cielo aperto da più di quarant’anni. Oggi, il parco è affidato alla gestione della comunità e in mostra si possono trovare i disegni dell’artista che ne raccontano il processo di realizzazione, descrivendo gli strumenti e le pratiche collaborative utilizzate dal gruppo e andando a definire la costruzione di uno spazio comune più come “accordo sociale” che come progetto architettonico.
Marjetica Potrč chiarisce così il ruolo del progettista e dell’artista come mediatore e compagno di lavoro che mette in campo le proprie capacità e la propria immaginazione allo scopo di compensare o, nel migliore dei casi, di porsi come alternativa alle mancanze istituzionali. La pratica partecipativa non è qui intesa come un procedimento di simulazione, dall’alto verso il basso, di una dimensione fittizia di libera espressione – come spesso accade nei casi di abbellimento strategico dei processi di gentrificazione massiccia delle nostre città (come quando il Comune di Milano ha letteralmente nascosto i cantieri delle torri del nuovo quartiere Isola-Garbaldi con gigantografie dei disegni realizzati dai bambini delle scuole di quartiere, cui era stato chiesto di rappresentare la città dei loro sogni). La costruzione di uno spazio condiviso diviene materializzazione di un ambito semi-utopico in cui è possibile non solo pensare, ma anche agire altrimenti, con tutte le difficoltà e i limiti di una realtà locale e interstiziale.
Marguerite Kahrl si concentra invece sui concetti di “identità” e di “rifiuto”, temi che si pongono come questioni urgenti nel momento in cui le leggi sull’immigrazione si dimostrano essere nient’altro che atti criminali di palese violazione dei più basilari diritti umani, trattando le persone come corpi da sfruttare nella maniera più proficua (in termini di mercato del lavoro, s’intende) o da smaltire, alla stregua di un prodotto di scarto.
A partire dalla riflessione sulla negazione dell’identità individuale e sulla ridefinizione, spesso forzata, della comunità è nata per esempio la serie di sculture-autoritratto Mini MOI, realizzate con tessuti di recupero cuciti a mano da Pino (Salerno), Sarda (Senegal), Amadou (Gambia), Moustapha (Niger), Samuel (Camerun), Ceedy (Costa d’Avorio) e Mohammed (Sudan), tutti membri di Con MOI. L’artista ha inoltre lavorato al rafforzamento dell’identità collettiva del gruppo, affidando a Sarda (lui stesso artista autodidatta) la realizzazione del logo di Con MOI (un baobab, un albero africano tanto grande da creare, sotto le proprie fronde, un luogo protetto che favorisce l’incontro) e aiutando a sviluppare la strategia del food-sharing attraverso la raccolta e la ridistribuzione gratuita del cibo invenduto dai mercati rionali e da altri rivenditori locali.
Il tema del “rifiuto” rappresenta allora, potremmo dire, il filo conduttore della mostra che unisce le pratiche delle due artiste: concentrare l’attenzione sulle wild energies significa trasformare i “rifiuti” della società capitalista – siano essi terreni abbandonati, cibi sprecati o persone dimenticate – inserendosi nei vuoti da essa lasciati e sviluppando attività creative che incoraggino la cooperazione e guardino all’autorganizzazione.
Perché è importante parlare di questo tipo di esperimenti che possiamo chiamare, se vogliamo, artistici nel senso più esteso possibile? Il nodo centrale sta nel rapporto esistente fra trasformazione sociale e creazione culturale. Infatti, prendendo in prestito una riflessione di Cornelius Castoriadis, “La questione della “cultura” è qui prospettata in quanto dimensione del problema politico ed è altrettanto lecito affermare che il problema politico è una componente della questione culturale nel senso più ampio del termine”. Se è vero che la cosiddetta “cultura occidentale” appare oggi agonizzante, come dicono alcuni, in termini di insieme di norme e valori etici, di forme di socializzazione e di vita culturale – e il mortale silenzio delle migliaia di metri cubi di cemento delle varie fiere e opere di architettura della messa in scena che spuntano come funghi nelle periferie (e non solo) delle nostre città, per poi divenire in tempi record delle rovine urbane nelle quali nemmeno il più poetico e ispirato Piranesi potrebbe intravedere nulla di “parlante”, ne rappresenta la metafora perfetta –, è anche vero che è proprio quest’idea di cultura che bisognerebbe dichiarare morta.
Sì, perché quello che sta nascendo, seppur purtroppo nel modo più difficile e drammatico possibile per quanto riguarda le modalità con cui gli eventi si stanno svolgendo e ancora in maniera frammentaria, è la nascita di un nuovo tipo di cultura che si costruisce nell’incontro tra tradizioni, storie, vite differenti che a un certo punto si trovano a convivere; una cultura che è portatrice di nuovi stili di comportamento ed espressione di una nuova società in potenza, nella quale si rivela l’intimo legame tra la questione culturale e la problematica sociale e politica.
Il motore di questa trasformazione sono proprio le energie selvagge, che per la loro forza sono percepite come un pericolo per la continuità dello stato attuale delle cose.
La questione della produzione di cultura così intesa – della quale la creazione artistica è insieme stimolo ed espressione – supera infatti la dimensione insiemistico-identitaria così come essa ci viene presentata dalla narrazione dominante (per la quale il diverso è sempre una minaccia per la struttura della nostra identità nazionale, tanto da necessitare e giustificare la fabbricazione di un nemico che è sempre un “altro culturale”) e trova invece il suo fulcro in valori che non provengono dall’esterno, ma sono creati di volta in volta dai gruppi sociali stessi. Insomma, l’azione creativa porta in seno il seme dell’autodeterminazione e del rifiuto a prestare ulteriore ascolto alla retorica di sistema. E sono proprio le persone che arrivano in Europa con niente di più che i loro corpi, i loro sogni e le loro speranze che, nonostante o a causa della quasi totale assenza di un sostegno da parte delle istituzioni pubbliche, più di tutti si dimostrano pronte, quando appena se ne presenti l’occasione, a impiegare le proprie forze per costruire da zero qualcosa di nuovo e a riempire i vuoti – fisici ed emozionali – lasciati dal capitalismo occidentale. Sono persone in movimento che portano con sé l’aspirazione a una vita diversa, la quale, se trova un terreno fertile in cui mettere radici, può far fiorire quella nuova idea di cultura che si fonda sull’autonomia dell’azione creativa e creatrice collettiva.
Allora, il valore del lavoro di artisti come Marjetica Potrč e Marguerite Kahrl e di una mostra come Wild energies non è quello di plasmare dal nulla, ma piuttosto di “aprire creativamente” uno spazio per favorire l’incontro e incanalare queste energie selvagge, dando espressione alla loro voglia di costruire cultura e di creare comunità, insieme impedendo che vengano schiacciate, assorbite o rigettate attraverso lo sfruttamento e il degrado.
L’abilità che l’azione artistica porta originariamente dentro di sé e riesce ancora, ogni tanto e nonostante tutto, a conservare è quella di immaginare e proporre una strategia per integrare l’individuo e l’opera nell’esistenza collettiva.
WILD ENERGIES
Persone in movimento
Marguerite Kahrl, Marjetica Potrč
8 luglio – 23 ottobre 2016
PAV Parco Arte Vivente
Via Giordano Bruno 31, Torino
http://www.parcoartevivente.it/