La fumata bianconera dai boschi di Chernobyl’

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26 Aprile 2020

Gli incendi hanno un’origine legata alle vecchie abitudini contadine, ma sono il segnale che l’opinione pubblica ucraina chiede conto

Negli ultimi giorni il toponimo “Chernobyl’” è tornato nel campo mediatico non per la annuale commemorazione del peggior incidente nucleare della storia, avvenuto a fine di Aprile nel 1986, ma per gli incendi feroci che devastano la zona di alienazione della centrale e le aree adiacenti: “Chernobyl Wildfires Reignite, Stirring Up Radiation”, scrive The New York Times, “Chernobyl, radiazioni fuori norma per un incendio nella foresta intorno alla centrale”, riporta la Repubblica, “Wildfires blanket Kyiv in thick smog”, segnala la BBC.

Sembra che con il fumo nell’aria tornano dal passato le vecchie memorie tossiche della tragedia, custodite e gestite male all’epoca.

Questa volta però è diverso. Degli incendi nell’immediato, non dieci giorni dopo, secondo le dinamiche sovietiche applicate durante la gestione del disastro nella centrale nucleare di Chernobyl’, parlano in Ucraina e in tutto il mondo.

Riportano i livelli della radiazione fuori norma. Gli abitanti di Kiev nelle loro stories segnalano la polvere sui davanzali. I medici danno consigli sulle loro pagine Facebook ai malati cronici con malattie polmonari e cardiache.

Al posto di fare obbligatoriamente la manifestazione al centro della capitale per il primo maggio, consigliano non uscire di casa la mattina, uscire solo se è necessario preferibilmente il pomeriggio, quando cambiano i flussi d’aria, dotandosi sempre di un respiratore, perché la mascherina contro le polvere sottili, presenti nell’aria per via degli incendi, non è sufficiente, e alla fine passare più volte al giorno le superfici di casa con gli stracci umidificati.

La polizia cerca i colpevoli, arrestando tre persone in tre aree diverse con l’accusa di incendio colposo. Alle domande sul perché abbiano dato fuoco all’erba rispondono: “Perché si fa così”.

Infatti, trovare il colpevole negli incendi primaverili nelle periferie ucraine è come giocare a mosca cieca: quando tutti i giocatori sono coinvolti, cambia poco, se prendere uno o prendere l’altro.

Il fatto è che dare fuoco all’erba secca dei campi in primavera o in autunno è una vecchia consuetudine. Nonostante le multe previste dallo stato e la campagna informativa, lanciata ogni primavera nei media, sui danni ecologici, agrari, rischi dell’incendi devastanti come quelli nell’area di alienazione, il paesano rimane fedele alle sue credenze: dare alle fiamme i campi in primavera aiuta a far crescere l’erba nuova, perché le ceneri delle piante dell’anno precedente fertilizzano la terra, perché accendere un fiammifero porta a risparmiare tempo e forze che servono per pulire e preparare i campi per la semina.

Sono le vecchie memorie di “come si faceva una volta”, difficilmente plasmabili, anche se questa volta la battaglia sembrerebbe non del tutto persa.

Gli incendi nel loro male, paradossalmente, stanno facendo anche bene. Non si rivelano letteralmente favorevoli alla crescita dell’erba nuova, ma fanno emergere, intravvedere tra il nero delle terre bruciate, i vecchi traumi non elaborati e non curati.

I traumi che fino a ora si fanno sentire con il silenzio e l’incapacità di essere articolati ad alta voce.

Nella gestione dei grandi disastri, come anche quella di oggi del Covid-19, il popolo ucraino non rimane de facto all’insaputa della situazione e comincia a chiedere e a pretendere l’attenzione verso il problema, verso sé stessi e verso l’altro che sta accanto.

Ci saranno ancora quelli che come i paesani continueranno a seguire i vecchi schemi, ma ci sono ormai anche quelli che continuano a modificare il pattern e a lavorare sul cambio delle vecchie consuetudini e di conseguenza delle future memorie.