Lebanon graffiti – 2

di

2 Giugno 2021

Memorie di conflitto, dolore e resistenza

 

 

leggi la prima puntata

 

 

Il terrore è imprescindibile in tempi di guerra e indipendentemente da quale parte della frontiera ti trovi ne vieni pervaso. È il motore che accresce l’odio, fondamentale per perpetuare il conflitto. Il terrore permette di commettere atti atroci con la discolpa di doversi difendere da un terribile nemico. Il terrore trasforma semplici uomini terrorizzati in acerrimi nemici.

Sentivo che anche loro erano terrorizzati. In generale gli israeliani, nonostante fossero una potenza armata, erano dei fifoni. Spesso capitava che cominciassero a sparare a raffica in mezzo al nulla temendo un’imboscata per la semplice presenza di cespugli. Tanto è vero che iniziarono a tosare tutti gli alberi dei frutteti nelle zone in cui mettevano piede. Hanno distrutto il Paese, non hanno combinato nulla di buono. Di solito gli invasori, come era avvenuto in passato con i francesi, lasciavano qualcosa di positivo non solo distruzione. Gli israeliani invece hanno portato solo distruzione”.

Quando questi si ritirarono, i loro alleati della destra libanese tornarono e presero il loro posto e cominciarono stragi ancora più estenuanti: un conto è battersi contro un nemico esterno, un conto è quando a puntarti la pistola in faccia e costringerti a fuggire è un tuo compaesano.

Nell’85 quando gli israeliani si ritirarono da Sidone e la zona venne invasa dai falangisti, noi fummo costretti a trasferirci al Rmayleh. Lì, conobbi e diventai amica delle figlie del prete che mi introdussero agli Scout del partito dell’Unione democratica. Ne feci parte per un po’ finché con alcuni amici e mio fratello non decidemmo di fondare gli scout del partito socialista progressista. Come fondatori organizzavamo parecchie attività. Quelle per i bambini erano di tipo sociale e educativo, non discutevamo mai di politica. Tra di noi ragazzi invece ne discutevamo e scambiavamo opinioni e fu in quel periodo che mi avvicinai di più alle ideologie del partito socialista di Kamal Joumblat e cominciai a leggere i suoi libri e le sue poesie. Prima di arrivare in Italia avevo anche intrapreso una carriera come inviata per un giornale regionale. Quelle attività, scout e giornalismo, erano le uniche attività che mi avvicinavano ai miei coetanei e mi permettevano di conoscere il mio Paese. Quando abitavo a Rmayleh, ero nella piena adolescenza e avevo scelto di portare qualcosa di positivo al Libano con dell’attivismo sociale e educativo più che politico o militare”.

Ed è proprio in quel del Rmayleh, cittadina affacciata sul mare subito a nord di Sidone,  che Fatina conobbe quello che sarebbe diventato suo marito: Mohamad.

All’epoca la guerra era tra cristiani e musulmani, ma in quegli anni, a causa dei partiti politici che volevano accrescere il loro potere, iniziavano le prime inimicizie all’interno dei musulmani stessi divisi tra sunniti e sciiti e tra quelli più religiosi e quelli più liberali: alcune persone iniziarono a distaccarsi perché ero troppo ‘liberale’ secondo i loro canoni religiosi. Ma all’epoca sembravano casi isolati, nulla di più. Anche quando conobbi Mohamad, lui è sciita e io sunnita, alcune persone iniziarono a giudicare, come se stessi commettendo un peccato a volere sposare uno sciita”.

Mohamad era scappato dal Sud del Libano tra l’85 e l’86, a causa di uno scontro con alcuni ragazzi del partito islamico sciita Amal che dopo la ritirata israeliana avevano preso il comando di quelle zone e volevano dettare legge. Per evitare uno spargimento di sangue si vide fuggire, assieme all’amico Ali e rifugiarsi proprio al Rmayleh.

Rimasi lì fino all’88. Quelli forse furono gli anni più tranquilli della mia vita. Prima di quel momento ero vissuto sempre sotto alle bombe e in mezzo alla guerra”.

La presenza degli israeliani nel Sud del Paese risale infatti e molti anni prima rispetto alla guerra civile del ‘75 e Mohamad si ricorda di quando, ancora non aveva 5 anni, che gli veniva insegnato come proteggersi dalle bombe: “Siamo cresciuti purtroppo in una guerra tremenda senza fine contro l’entità israeliana sionista. Abbiamo vissuto in mezzo ai bombardamenti. Ricordo che fin da subito ci insegnarono che appena sentivamo il suono di una bomba dovevamo buttarci per terra con le mani sulle orecchie”.

Nel ‘73 ci fu la vera e propria invasione nel sud del Paese. “Noi la guerra la conoscevamo da sempre: ci trovavamo a 30 km dal confine palestinese, quello che molti purtroppo chiamano israeliano, e per questo ci trovavamo schierati con l’OLP contro gli israeliani. Ne abbiamo risentito parecchio: spesso iniziavano i bombardamenti quando eravamo a scuola e ci trovavamo a dover scappare e tornare a casa di corsa. Ricordo bene la guerra del ’73, avevo 9 anni. Noi bambini, come gioco, spesso uscivamo nei campi a guardare e contare gli aerei israeliani che cadevano. Un giorno addirittura 93 aerei abbiam contato. C’erano dei nuovi missili russi mandati ai palestinesi, libanesi e siriani. Erano missili che seguivano gli aerei sulla base del calore. Un’innovazione tecnologica tremenda”.

Nel ’75 ad aprile ci fu l’attentato di Ein el Roummani che diede iniziò alla guerra civile che vedeva gli schieramenti di sinistra fiancheggiati dall’OLP contro quelli di destra alleati con gli israeliani e appoggiati dagli israeliani.

Da noi a Sud, non sentimmo quasi per niente gli effetti della guerra civile. Al massimo quando eravamo a scuola al massimo ci portavano a fare manifestazioni contro la destra libanese. Ma non ho mai puntato un’arma contro un mio compaesano. Non ho mai preso parte alla guerra civile io, ho solo manifestato. Da lì poi ci fu la seconda invasione israeliana nel Sud del Libano del ’78, li ero già più grande e decisi di partecipare attivamente”.

Durante la guerra tutti vengono coinvolti e travolti che ne abbiano colpa o meno, indipendentemente da razza, religione, etnia, sesso ed età.

Forse le vittime più innocenti sono i bambini che pur non avendo visto nulla del mondo devono prendere decisioni da adulti obbligati dalle circostanze e dal senso di dovere: “Come tutti i ragazzini anche io sentii il bisogno di proteggere casa mia e il mio Paese. Così chiesi a mio padre di insegnarmi a tenere un’arma in mano. Per evitare che scappassi e mi arruolassi da qualche parte senza che avessero più notizie di me come era accaduto ad altri, mio padre accettò. A 13 anni quindi ho fatto il primo addestramento con  il partito comunista. Ho imparato cose semplici: come proteggersi dalle bombe, come si fa ad attaccare, come usare le armi, come lanciare le bombe, come ritirarsi”.

La guerra cambiò il corso delle vite di parecchie persone: famiglie distrutte, separate, figli scomparsi ma anche amicizie nate e rafforzate da esperienze comuni di distruzione. “La prima volta che ho usato le armi fu a 18 anni, durante l’invasione dell’82, ho combattuto contro gli israeliani. Ho provato ad arruolarmi con il fronte popolare per la liberazione della Palestina (OLP). Io e un mio amico ci siamo messi in contatto con loro. La stessa settimana un ragazzo che conoscevo bene ha fatto arrivare voci ai miei parenti che subito hanno avvisato un responsabile del mio partito che mi stavo accordando con l’OLP per fare la guerra come partigiano. Mi hanno cercato e convocato, così sono andato al quartiere generale del partito socialista a Beirut. Hanno cercato di convincermi a entrare nella loro organizzazione dicendomi che mi avrebbero addestrato bene, ma io ho rifiutato la proposta”.

Non c’era tempo per addestrarsi, Mohamad voleva entrare subito in guerra e difendere il suo Paese e i suoi amici che erano già stati catturati e rinchiusi in campi di concentramento: “Penso che sia uno dei campi più grandi, quello nel Sud del Libano. Erano posti di tortura e morte. Naturalmente la maggior parte dei giovani libanesi che avevano la mia età erano lì e nella prigione di Khiam, una città a 5 km dalla Palestina occupata, che era terribile. Alcuni furono portati nei territori palestinesi occupati (che chiamano Israele). Molti dei miei amici che vennero rinchiusi non avevano nemmeno preso parte ai combattimenti, erano stati prelevati dalle loro case.”

Quell’anno, nell’82, c’era stato uno degli avvenimenti più cruenti della guerra: le milizie falangiste e le forze libanesi, guidate dal comandante Elie Hobeika, orchestrarono assieme all’esercito israeliano il massacro di Sabra e Shatila a Beirut.

La notte del 16 settembre 1982 entrarono nell’area di Sabra e nel campo profughi di Shatila torturando, violentando e uccidendo chiunque.

Quando il 18 settembre se ne andarono e la notizia si sparse, lasciarono un campo fantasma dove vennero contati centinaia, forse migliaia, di cadaveri. Intanto durate la stessa notte dalla fazione opposta, dopo un incontro tra il leader del partito comunista e il nuovo leader del partito socialista,  venne annunciata la nascita resistenza armata. Parecchi giovani accorsero alle armi pronti a difendere il Paese contro il nemico comune: Israele.

Io e Ali non volevamo perdere tempo con l’addestramento e così data la nostra insistenza il partito ci mise in contatto con alcuni dei loro combattenti della resistenza armata che stava nella regione dello Shuf, a nord di Sidone. Da qual giorno cominciai la vita da partigiano: vivevo nelle montagne, in nascondigli assieme ad Ali e altri due ragazzi uno di questi era Mahmoud, un ex soldato dell’esercito che poi aveva combattuto in altri partiti e che era rimasto ferito a una gamba. Assieme abbiamo scampato più volte la cattura e la morte  certa”.

Gli aneddoti di certo non mancano: “Ricordo di un giorno in cui abbiamo deciso di attraversare le montagne e andare a Beirut: volevamo fare riposo e farci una doccia. Perché passavano parecchi giorni, settimane, e addirittura mesi in cui l’unico modo per lavarci erano fiumi, fonti e sorgenti gelate nelle montagne. Siamo rimasti lì per qualche giorno e poi abbiamo deciso di partire di nuovo per il Sud. Tutta la costa era occupata dalle milizie di destra cristiane, e se catturati era morte certa. Alla fine, abbiamo deciso di andare in auto spediti senza fermarci. Non eravamo armati, solo Mahmoud aveva una pistola piccola, meno del palmo della sua mano, infilata sotto la camicia. Abbiamo attraversato 30 km fino al Jiyeh. Lì c’è una curva oltre la quale non si poteva vedere nulla. All’epoca l’esercito stesso era diviso tra cristiani e musulmani. Ci siamo trovati davanti al blocco dell’esercito di destra. C’erano una trentina di soldati e a sinistra c’era un panificio dove stavano una ventina di uomini con le mani alzate al muro, che avevano catturato prima di noi. Oltre la morte, non c’erano alternative. Si avvicinò verso la nostra macchina l’ufficiale del blocco. Ci ha detto di uscire mani in alto. Il ragazzo armato ha alzato le mani tentando, inutilmente, di tenere nascosta la pistola nel palmo della mano. Poi è stato tutto molto veloce: qualcuno ha urlato per avvisare che fosse armato e il mio amico, non so come abbia fatto, forse Dio era lì tra le sue mani, in due secondi ha puntato la pistola sotto al mento dell’ufficiale, infilzandola di qualche centimetro. Il cuore faceva 500 battiti al minuto, abbiamo sentito una trentina di armi che si caricavano una dopo l’altra. Tutti i soldati ci avevano puntato addosso i fucili. A quel punto era o la va o la spacca. Il nostro amico armato ha iniziato ad urlare insultando tutti  dicendogli di allontanarsi. Ci eravamo già dati per morti, quindi poco importava (il linguaggio e i modi di fare). L’ufficiale (nel frattempo) era diventato giallo e iniziò ad urlare a tutti di non sparare. Mahmoud chiese di contattare tramite la radio un generale dell’esercito appartenente alla fazione schierata con la sinistra libanese. Gli ha spiegato la situazione, dove eravamo, da chi eravamo tenuti fermi. Il generale gli ha detto di non mollare neanche per un attimo l’ufficiale che aveva sotto tiro o saremmo morti all’istante. Ci avrebbe mandato i rinforzi. Da quel momento sono passati 45 minuti ma che sono sembrati 45 anni. 45 minuti fermi in mezzo alla strada coi fucili puntati addosso e dalla nostra parte solo una pistola puntata contro la testa dell’ufficiale. A un certo punto abbiamo sentito i carri armati in lontananza. Più si avvicinava il rumore dei carri armati più rallentava il nostro battito. Stavano arrivando a salvarci. Appena abbiamo visto i carri armati in lontananza il battito iniziò a tornare regolare. A quel punto le nostre speranze di riuscire a cavarcela erano alte. Quando sono arrivati vicino a noi il generale ci avvisò di non mollare neanche per un attimo la presa dall’ufficiale finché non liberava tutti i ragazzi e li metteva nei carri armati, uno alla volta. Lasciammo per ultimo per ultimo l’ufficiale che avevamo in ostaggio. Ci eravamo salvati tutto grazie a una pistola e alla lucidità miracolosa di Mahmoud. Quello è stato il momento forse più terribile perché ero davvero convinto che era morte certa.  Non so come ci siamo salvati. Questa situazione è impossibile dimenticarla”.

Circostanze come quella erano molto comuni. Ogni volta che si scendeva in strada si correvano rischi simili, non solo sul campo di battaglia.

La situazione era drastica e proprio per questo molti giovani sentivano il bisogno e la necessità di fare qualcosa per il Paese. L’invasione aveva aggravato la guerra civile. Le forze di destra si erano sentite più forti perché affiancate dai loro alleati israeliani. “Hanno sempre provato di creare una guerra religiosa, ma non lo era”, racconta riferendosi agli stati esteri che avevano interessi nella zona.

La prova che non lo era è che la maggior parte dei segretari dei partiti di sinistra erano cristiani e anche i membri erano misti tra musulmani e cristiani. Non c’erano partiti su base religiosa prima dello sviluppo della guerra civile. L’astio fu generato e accresciuto dall’intervento di forze e stati estere. Io sono nato in una casa laica di sinistra. In un paese di musulmani sciiti, Deir el Zahrani, dove all’epoca erano tutti comunisti e socialisti, non c’erano movimenti religiosi. La maggior parte del sud era comandato da socialisti comunisti e partiti di sinistra. Il sud era un mix tra sunniti, sciiti e cattolici maroniti. Noi eravamo schierati con i palestinesi e ci battevamo per il loro diritto di tornare a casa. I partiti di destra erano sempre contrari alla presenza dei palestinesi in  Libano e quando videro il potere che aveva acquisito la sinistra con il movimento unico creato da Kamal Joumblat chiamarono subito l’intervento dei paesi arabi e dell’occidente che hanno mandato forze armate arabe in Libano per fermarla. A loro non conveniva che la sinistra prendeva potere creando uno stato laico dove le religioni convivevano pacificamente”.

La situazione poi si aggravò durante l’invasione israeliana. La sinistra da sola doveva combattere contro due nemici: da una parte contro i propri concittadini e avversari e dall’altra contro il nemico sionista.

FINE SECONDA PUNTATA

Lavoro realizzato per il secondo corso di “Citizen Journalism: Laboratorio di Autonarrazioni” organizzato da Traparentesi Onlus in collaborazione con l’Associazione Kosmopolis, nell’ambito del progetto Impact Campania, con la partecipazione di Q Code Magazine e della Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma.