Lebanon Graffiti – 3

di

8 Giugno 2021

Memorie di conflitto, dolore e resistenza

 

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Piano piano però, battaglia dopo battaglia, la resistenza armata riusciva a respingere e terrorizzare gli eserciti israeliani riconquistando terreno.

Più c’era spazio per muoverci, più era semplice attaccare. Nell’85, eravamo di nuovo a combattere in un paese di fianco a Deir el Zahrani che era ancora occupata. Un giorno all’alba alle 4 e mezza di mattina avevamo attaccato il blocco che c’era all’inizio del paese, una piccola caserma dei soldati israeliani. E dopo due/tre ore abbiamo sentito le voci che urlavano che gli israeliani si erano ritirati e sentimmo l’urlo di vittoria ‘Allahu Akbar!’. Entrammo in paese in condizioni assurde… quello che non puzza di noi si sentiva la sua puzza da un chilometro di distanza, eravamo in condizioni terribili. La gente in strada festeggiava e aspettava i propri figlie e cari che rientravano. Sentivo una donna urlare a  mia mamma di avermi visto, chiamando mia mamma. Abbiamo fatto il giro del paese e stavamo arrivando. Mi ricordo che appena mio zio mi vide che giravo con i miei amici in macchina per il paese a festeggiare la ritirata degli israeliani mi chiese di scendere dalla macchina e mi ordinò di sbattere i piedi a terra. Io confuso obbedii e quando vide che non avevo alcun problema mi chiese della ferita. Solo in quel momento venni a sapere che era giunta una falsa voce che ero stato gravemente ferito alla gamba”.

Qualche mese dopo l’esercito israeliano si ritirò dal resto del Libano. “Non è stata una cosa di un giorno, ci volle un po’ di tempo. Ricordo bene però che durante la ritirata da Beirut, l’esercito israeliano passava con gli altoparlanti supplicando la gente di non sparare e non fare nulla che se ne stavano andando. Sono sempre stati terrorizzati dalla resistenza armata, per tutta la loro permanenza. Hanno visto l’inferno in Libano non è stata una passeggiata. È vero, non era una passeggiata. Il Libano è l’unico paese che è stato liberato con la resistenza armata, con i partigiani e non tramite un accordo di pace. In poco tempo abbiamo liberato il Sud. Io ho fatto un goccio nel mare degli altri ma la mia parte l’ho fatta ed sono felice e soddisfatto di aver contribuito alla difesa del mio paese”.

A quel punto però il Libano era diviso in mille parti come tessere di un puzzle che non sapevano più come incastrarsi e rimangano lì scompigliate lottando gli uni con gli altri per trovare il proprio posto.

Una volta che si sono ritirati gli israeliani è scoppiata la guerra del Governato del Monte Libano, nella zona dello Shuf, ha partecipato tutta la sinistra libanese affiancata dall’unico movimento islamista: Amal”.

Lo scontro avvenne tra le falangi libanesi di Samir Geagea e l’esercito guidato dal generale Michel Aoun, attuale presidente della repubblica. Ci furono parecchi massacri a scapito degli avversari socialisti e comunisti guidati da Joumblat e sostenuti dai palestinesi. Risposero ai massacri con massacri per liberare la zona.

“L’odio è cominciato da lì. Il partito socialista era guidato dal figlio di Kamal Joumblat, Walid, che cercò l’appoggio di tutti i drusi per aumentare la sua forza. Ha riunito così tutta la sua religione intorno a lui ed è riuscito così a liberare le zone e tutte le coste libanesi, a Est di Sidone. È stata liberata in questa maniera. Si è trovato in questa situazione tragica e ha trovato una soluzione tragica. Una cosa sbagliata ma è successo”.

“Dopo la ritirata, ho avuto dei problemi con alcuni teppisiti del paese son dovuto scappare fuori dal mio paese verso un paesino sulle coste del Libano, el Rmayleh. Lì erano per la maggior parte comunisti. Anche il mio amico Ali ha avuto problemi al blocco, quindi è venuto da me e abbiamo deciso di partire assieme lo stesso giorno. Ci siamo trovato al Rmayleh. Nell’85 abbiamo deciso di non combatter più, erano rimasti pochi territori sul confine sotto occupazione di Israele, e ci volevano pochi partigiani per farli andare fuori. Per un po’ di anni sono rimasto a Rmayleh con il mio amico, poi lui ha avuto un incidente ed è morto e in quel periodo ho deciso di andare via dal Libano. Ci son rimasto male, volevo cambiare aria. Ho provato ad andare in Arabia Saudita, rimasi per otto mesi, ma non son riuscito a ottenere il visto perché sulla carta di identità ero musulmano sciita, nonostante io non abbia nulla a che fare con la religione era così purtroppo. Così me ne andai in Italia. La situazione ora, dopo 30 anni dalla mia partenza è peggiorata, soprattutto internamente. Prima non esisteva la storia sunniti e sciiti. Io mi sono sposato con una sunnita e non siamo gli unici delle nostre famiglie e tra i nostri amici a esserci sposati tra sunniti e sciiti”.

La consapevolezza che il Paese per cui ha combattuto e che ha provato a liberare ancora non riesce a riprendersi è travolgente per Mohamad. Dall’Italia ha assistito alle influenze dei paesi esteri che hanno fomentato la divisione che già avevano creato i decenni precedenti.

“Vederlo da fuori, da lontano, è ancora più evidente che l’odio che c’è in Libano è il risultato di azioni straniere e non è nato dalle persone del posto. Tra i francesi che tentano di controllarlo supportando i cristiani maroniti e i Paesi Arabi che non possono sopportare di vedere un Paese Arabo laico all’interno del quale convivono pacificamente religioni diverse, il Libano non riesce più a rialzarsi. Dopo l’invasione e la ritirata degli israeliani dal Libano, ognuno ha seguito un partito e ogni partito ha seguito l’influenza di un paese estero. Io ne sono rimasto fuori. Sono rimasto di sinistra laico come prima della guerra. Non ho più seguito nessun partito. Ho ancora le mie ideologie. E rimarrò sempre di sinistra, non mi importa come mi chiamano, comunista, socialista, sono cose dentro di me. Come ho insegnato ai miei figli: non dovete trattare le persone per la loro religione né etnia né colore, non di come sono, ma come persone. Non mi interessa la religione, sono più per l’umanità che la religione. E sono d’accordo se chiudono anche tutte le moschee e le chiese. E che preghino a casa i fedeli. (le religioni) Sono diventate strumenti per diffondere odio”.

Il Paese è cambiato moltissimo: il sud del Libano ora è conteso tra Hezb Allah e Amal. La gente li segue ciecamente pensando che il proprio capo sia la salvezza. Non sono loro, tutte le altre zone hanno i loro partiti e lo stesso meccanismo.

“Il Libano è tutto per me, ero disposto a dare la vita per liberarlo dal nemico e dall’odio. Vederlo come è ridotto ora, fa male”.

Ormai l’idea di appartenenza religiosa è così radicata che non si può cambiare. Servirebbe una rivoluzione.

“L’unica che potrebbe essere in grado di farlo è la sinistra, che ormai è in secondo piano sulla scena politica. Perché serve qualcuno che non sia legato ad alcuna ideologia religiosa”. Qualcuno che non faccia differenza tra cristiani, musulmani, sunniti e sciiti. Ma l’odio fra la gente cresce e continua a essere fomentato da tutto ciò che accade fuori dai confini del Libano. “Per come è la situazione ora, non sembra proprio che le cose cambieranno mai”.

La speranza che il Libano ritorni ad essere quello di un tempo vive ancora in Halima, Fatina, e Mohamad. Ma tutti e tre sono ormai rassegnati all’idea che di qui a poco scoppierà una nuova guerra perché la situazione sembra essere più grave di quanto non lo fosse nel ’75.

Fatina e Halima stanno attualmente provando sulla loro pelle una crisi economica mai vista prima d’ora: i prezzi sono quadruplicati se non di più, molti prodotti o materie prime non si trovano. La situazione degenera giorno per giorno. Il Libano che conosciamo ora ormai non può far altro che lottare annaspando per accaparrarsi una boccata d’aria. E ad andarci di mezzo è per l’ennesima volta il suo popolo. Chissà se le future generazioni avranno mai la possibilità di vedere un Libano verde e rigoglioso, dove la guerra e l’odio tra vicini rimanga un lontano ricordo del passato.

FINE TERZA E ULTIMA PUNTATA

Lavoro realizzato per il secondo corso di “Citizen Journalism: Laboratorio di Autonarrazioni” organizzato da Traparentesi Onlus in collaborazione con l’Associazione Kosmopolis, nell’ambito del progetto Impact Campania, con la partecipazione di Q Code Magazine e della Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma.