L’importanza di chiamarsi smart

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10 Febbraio 2020

O della narrativa delle città intelligenti

Smart City (SC), ovvero Città Intelligente, è diventata una delle parole chiave più di moda nelle politiche di pianificazione sostenibile delle comunità urbane.

Già nel 2013 erano attivi più di 140 progetti [1] di SC. Il termine stesso smart city assume connotazioni diverse a seconda del contesto concettuale delle rispettive comunità di studiosi [2-12], ma un elemento sembra essere condiviso da tutti gli svariati approcci alla smartness di una città, e cioè l’applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT) ai servizi infrastrutturali di base [13].

La stessa Unione Europea (EU), che molto attiva nel campo delle SC [9], fornisce una definizione di SC come di “un posto dove le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’utilizzo di tecnologie digitali e di telecomunicazione a beneficio dei suoi abitanti e del business(1), dove ci si aspetta che le SC “usino le ICT per accrescere la loro vivibilità, operosità e sostenibilità”, permettendo così ai cittadini di condurre una “vita felice e culturalmente vibrante” (sic).

La Smart City narrata

Le narrative correnti sulle SC condividono una serie di concetti o parole-chiave, raccolti in espressioni iconografiche sul tipo di quella mostrata in figura, che è possibile suddividere in due gruppi, al primo dei quali appartengono: interconnessione, e-gov, ICT, accesso ai dati, competitività, innovazione, business creativo, imprenditoria, mobilità smart, mentre al secondo: sicurezza, salute, smart living, fermento culturale, sostenibilità ambientale, felicità.

Di fatto, il primo gruppo racconta di strumenti tecnologici e socio-economici, mentre il secondo è perlopiù costituito da obiettivi riferiti ai cittadini.

Ma mentre vi è un generale consenso sulla presenza di entrambi i gruppi di parole chiave in qualsiasi narrativa moderna di SC, non viene praticamente mai fatta menzione del perché e come gli strumenti operativi di cui al primo gruppo dovrebbero aprire la strada agli obiettivi delineati dal secondo.

Di contro, nella narrativa delle SC, i due gruppi vengono tacitamente assimilati, come se una smartness basata sulle ICT fosse automaticamente necessaria e sufficiente per la felicità dei cittadini.

La narrativa sulle SC in realtà costituisce un classico esempio della cosiddetta “dissonanza cognitiva”, in quanto parla di una realtà che non esiste né è in procinto di esistere. Prendiamo l’esempio di Londra, la città più smart secondo le classifiche delle maggiori agenzie e istituzioni che si occupano di SC, come ad esempio l’Eden Strategy Institute(2) o la IESE Business School(3).

In queste classifiche, la valutazione della smartness di una città è fortemente ancorata al suo grado di interconnessione, implicitamente assunta a rappresentare il percorso verso lo smart living e quindi la felicità della gente.

In effetti, è senz’altro plausibile che Londra possa essere al top mondiale in termini di infrastrutture smart di connessione digitale, o nel numero di business-makers creativi o nel fermento culturale.

NOTE

(1)http://ec.europa.eu/energy/technology/initiatives/doc/2012_4701_smart_cities_en.pdf
(2)https://www.smartcitiesworld.net/news/news/report-ranks-top-50-smart-cities-on-leadership-and-governance-3100
(3)https://www.smartcity.press/top-10-smart-cities-of-2019/

Ma i dati governativi ufficiali del London Datastore(4) ci raccontano una storia diversa. Il numero di londinesi che vivono nella povertà continua a crescere, attestandosi ad oggi attorno ai 2,4 milioni di persone, incluso il 37% (circa 700mila) dei bambini che vivono nell’area urbana.

Secondo il CHAIN Multi Agency Database(5), commissionato e finanziato direttamente dalla municipalità, quasi 9mila persone hanno dormito per strada nel 2018, con uno sbalorditivo incremento di 15 nuovi senzatetto al giorno. Sempre nel 2018, il Sunday Times(6) riporta inoltre come Londra abbia superato New York nel tasso di omicidi.

Ora, è veramente difficile scorgere in questi numeri lo smart living invocato dalla narrativa delle SC. A meno che naturalmente non si consideri il sottoinsieme di londinesi ricchi come il solo reale fruitore di questa rivoluzione smart.

Consideriamo la parte a destra nella veduta aerea fotografata da Tuca Vieira del quartiere di Paraisopolis, a San Paolo in Brasile, e riportata in figura. E’ amaramente evidente come la rappresentazione iconica di una SC fatta da mobilità sostenibile, parchi e smart shopping non sia applicabile a entrambi i mondi separati dal muro fotografato in figura.

La realtà è che nella narrativa delle SC i problemi reali che sono alle radici della mancata smartness delle città, quali povertà, disuguaglianze, disoccupazione, analfabetismo, corruzione, assenza di strutture sanitarie e di istruzione, semplicemente non sono contemplati.

Nella maggior parte delle metropoli mondiali, gli abitanti delle baraccopoli (valutati in circa un miliardo di persone e in costante aumento) sono di fatto esclusi da ogni forma partecipativa alla vita della città. Per molti di loro, parlare di “interconnessione” dove non esiste rete elettrica o di accesso internet ai dati sanitari dove non esiste servizio sanitario è semplicemente privo di senso.

Un “vivere smart” che sia culturalmente vibrante è un problema secondario, se il problema primario è quello di vivere. Il Sistema Informativo sulle Smart Cities dell’Unione Europea ha di recente pubblicato un report intitolato “La realizzazione di una smart city: buone pratiche attraverso l’Europa(7)“.

Nelle sue 256 pagine, le parole “mobilità” e “business” compaiono rispettivamente 114 e 67 volte, mentre nessuna delle parole “bambini”, “povertà”, “violenza”, “disabilità”, “disuguaglianza”, “welfare”, “senzatetto” viene mai menzionata.

Questo chiarisce ulteriormente quale sia il significato di smartness nell’ambito delle politiche europee, mostrandoci inoltre come i policy-makers considerino il loro mandato a risolvere i reali gravi problemi delle città come qualcosa che può essere trattato separatamente, come se le due realtà di una città interamente ICT-interconnessa e quella di una città socialmente devastata si riferissero a due mondi paralleli e separati.

NOTE

(4)https://data.london.gov.uk
(5)https://www.mungos.org/combined-homelessness-and-information-network/
(6)https://www.thetimes.co.uk/article/london-murder-rate-beats-new-york-as-stabbings-surge-f59w0xqs0

Anche il ruolo delle persone risulta, nella narrativa delle SC, piuttosto oscuro. Da una parte, i cittadini sono chiamati a diventare smart, creativi, sani, culturalmente vibranti e felici [14-18], anche se non viene fornita alcuna argomentazione logica per capire perché e come le infrastrutture ICT urbane dovrebbero rendere le persone felici.

Dall’altra parte, i cittadini smart e iperconnessi sono chiamati a creare smart business (qualsiasi cosa significhi) e – seguendo l’Unione Europea(8)– un ambiente di piccole e medie imprese che, grazie all’energia smart, i trasporti smart e le ICT, assicurino la competitività della città.

Così come descritto dall’Industrial Internet of Things (IIoT) association(9), “i modelli di gestione della smart city devono integrare un nuovo ecosistema di creatori di valore e di innovatori”, comprendendo “spazi innovativi” dove le persone sono supportate nel “monetizzare nuovi modelli di business”.

L’idea di una città digitalizzata dove i cittadini agiscano come clienti è riassunta nel website della World Economic Forum Agenda(10) da T.A. Puutio, che termina il suo articolo sul futuro delle nostre città affermando che: “Il momento in cui i governi ci vedranno come clienti anziché come cittadini potrebbe essere più vicino di quello che immaginiamo. E quando questo momento arriverà, possiamo star sicuri che dovremo ringraziare la digitalizzazione”.

Inutile dire che c’è più di una buona ragione per prendere sul serio questa conclusione. Il punto è la pericolosa inconsapevolezza con la quale Puutio assume implicitamente che questa sia la cosa desiderabile e da perseguire, laddove la stessa frase costituisce, in realtà, l’espressione di una minaccia socio-culturale nella quale la narrativa delle SC trova la sua collocazione naturale.

Le critiche contro l’idea corrente delle SC stanno comunque diventando sempre più diffuse, anche grazie alla preoccupazione globale veicolata dal cambiamento climatico e dalla necessità di una sostenibilità integrata a tutti i livelli [19].

L’attenzione di diversi analisti urbani è infatti attirata da come l’uso del termine “smart city” si riferisca a piattaforme di sviluppo urbano strategico che puntano solamente alla crescita economica [20-21].

Il concetto di SC è visto in questo contesto come pesantemente polarizzato, nella misura in cui descrive città concepite su una progettualità legata al profitto privato, la cui smartness consiste essenzialmente nell’essere ricchi [22].

In questo contesto, le SC sono perciò viste come parte integrante di uno scenario tecnosciovinistico [23], nel quale la narrativa (per usare le parole dell’architetto Kevin Rogan) diventa funzionale a “far sembrare che stiano facendo qualcosa che non fanno, tipo costruire una comunità di buon vicinato anziché creare un’enorme fattoria di dati comportamentali”(11).

Di fatto, la sensazione di molti scienziati di fronte alla narrativa SC è che essa trasmetta un solo fondamentale messaggio: qui c’è da fare un bel po’ di soldi.

La Smart City sistemica

La concettualizzazione sopra descritta attesta il distacco dalla realtà della narrativa SC, ma allo stesso tempo ne configura la coerenza con una economia tecnologica basata su un contesto di green growth, la cosiddetta crescita verde.

Cionondimeno, esiste un difetto tecnico in questa narrativa, tale da rendere la sua presunta efficacia altamente discutibile a priori: una città è un sistema altamente complesso, in grado di reagire a forzanti esterne di natura ambientale, sociale o economica auto-strutturandosi secondo la complessa rete di feedback che regola la dinamica dei flussi di risorse [24-26].

Soltanto uno studio sistemico delle configurazioni a cui il sistema ha accesso può portare all’individuazione delle strategie verso una reale smartness. Come acutamente suggerito da David Orr [27], l’organizzazione della complessità è il collo di bottiglia per arrivare a qualsivoglia smartness.

In presenza di molte quantità in grado di variare simultaneamente e in “modi sottilmente interconnessi” la descrizione e la comprensione delle configurazioni dei comportamenti di una città richiedono approcci complessi, in grado inoltre di connettere i flussi di risorse all’ambiente di supporto.

Come sottolineato da Kanter e Litow [28] nel loro Manifesto per Città più Smart, rendere smart ad uno ad uno ciascun sottosistema di una città non crea una smart city, poiché di fatto la città costituisce un tutto organico legato ad un’area di supporto [29-30].

Da un punto di vista sistemico, la risoluzione delle istanze ambientali, sociali o economiche di una SC può facilmente significare lo spostamento del carico di problemi a qualcun altro, magari nell’immediato intorno della città.

In un recente e illuminante articolo, Robert Herendeen [31] ci racconta della sua città, Burlington, nel Vermont, la prima negli Stati Uniti a utilizzare il 100% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. E’ smart tutto ciò?

Certo, secondo le narrative correnti. Ma l’idroelettricità di Burlington arriva dal Québec, a 700 Km di distanza. Anche l’energia eolica arriva da sorgenti esterne, così come la biomassa da residui di legname usata negli impianti termici. Quanto costano all’ambiente le infrastrutture necessarie a portare l’elettricità a Burlington? “Tanto”? “Poco”?

Molti approcci utilizzano ad esempio la variabile energia per quantificare tutti i flussi di risorse che concorrono alla sostenibilità urbana, inclusi i flussi di informazione e lavoro [19, 32-34].

In questo modo, opportuni simulatori possono essere sviluppati per descrivere le configurazioni complesse verso le quali la città si può auto-organizzare, nelle quali un cambiamento in ciascuna variabile rappresentativa del funzionamento urbano influenza virtualmente tutte le altre, con ritardi temporali che a loro volta giocano un ruolo nelle dinamiche sistemiche [35].

Questo tipo di approcci consente inoltre di legare l’analisi ad altri aspetti descrittivi della realtà urbana, ad esempio in termini di economia circolare o metabolismo urbano [11].

Coerentemente con il mainstream narrativo riguardante la sostenibilità, anche la narrativa corrente sulle SC definisce ed adotta quanti più possibili “indicatori” di smartness, definiti di volta in volta all’interno di concettualizzazioni riduzioniste che si suppone siano più fruibili dai manager cittadini e in generale dai policy-makers [3, 36].

I vari parametri usualmente utilizzati per definire la vita di una città possono essere raggruppati in quattro tipologie [19] a cui vengono quindi associati opportuni indicatori.

Il primo tipo raccoglie aspetti condivisibili a priori, ma che risultano allo stesso tempo troppo generici per indirizzare caratteristiche analitiche quantitativamente apprezzabili. A questa classe appartengono l’istruzione smart, il management sostenibile, il benessere, la felicità, il fermento culturale, lo spirito innovativo, il focus sul cittadino.

Questi parametri non contribuiscono direttamente ad un’analisi reale (come misuro il “focus sul cittadino”? Cos’è un’istruzione smart?), ma vengono spesso inseriti con la finalità retorica di inquadrare altre azioni (misurabili) del management cittadino all’interno di una visione condivisibile di felicità sostenibile.

Una seconda classe di indicatori è costituita da quelli chiaramente riferiti all’ICT, come ad esempio l’integrazione fra infrastrutture, la condivisione di conoscenza, gli open data, tutti più o meno facilmente misurabili e controllabili.
Peraltro, come già detto, il loro legame con la visione di cui sopra rimane comunque indefinito.

Un terzo gruppo di parametri ha a che fare con aspetti legati al buon senso, aspetti che non avrebbero bisogno di alcuna base concettuale per essere perseguiti da qualsiasi governo della città, come la presenza di aree verdi e aree pedonali, il controllo sulla produzione di inquinanti e di spazzatura, le strategie di riciclo e di efficientazione energetica, e così via.

Esiste infine una quarta categoria di indicatori, più elusivi, spesso appartenenti alla dimensione economica: la “performance dei modelli di business urbano”, la portata dei finanziamenti e del procurement, la flessibilità del mercato del lavoro, il livello di competitività e di imprenditorialità, l’uso smart dell’energia, ecc..

Superfluo dire che le quattro categorie in questione propongono indicatori che ci parlano di dimensioni logicamente separate. Il modo con cui questi indicatori vengono “impilati” riflette tipicamente l’incapacità di utilizzare approcci sistemici inter-disciplinari realmente integrati, e tutto si traduce nella definizione di una policy-making fatta di compromessi, destinata a non tener conto della realtà complessa data dai feedback incrociati con cui questi aspetti sono interconnessi.

Nel maggio 2016, la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite ha lanciato la United for Smart Sustainable Cities (U4SSC) initiative, pubblicando un report di 125 pagine intitolato “Metodologia di raccolta di indicatori chiave di performance per Smart Cities sostenibili”, redatto in collaborazione con 16 Agenzie e Istituzioni delle Nazioni Unite tra le quali la Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), l’Organizzazione per il Cibo e l’Agricoltura (FAO), il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), l’Organizzazione per l’Educazione le Scienze e la Cultura (UNESCO), nonché la Convenzione delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico Change (UNFCCC).

Il report propone una sbalorditiva lista di 91 “indicatori chiave di performance”, fornendo i dettagli su come calcolarli e su come ottenere i dati necessari per farlo.

Il report afferma poi esplicitamente che “Ogni indicatore costituisce una parte di una visione olistica della performance di una città in tre dimensioni: Economia, Ambiente e Società e Cultura. Ciascuna di queste dimensioni fornisce una visione separata di progresso e quando riportate assieme forniscono una visione olistica di una città smart e sostenibile”.

Sfortunatamente, questa idea di approccio olistico, fatto sommando pezzi quanto più piccoli possibile, è semplicemente sbagliata, da una prospettiva culturale ma anche da una prospettiva scientifica quantitativa. La capacità di intercettare la complessità di un sistema non viene dal numero di parametri di performance che possono essere individuati, ma dalla rete di interconnessioni tra le variabili che definiscono questi parametri.

La narrativa corrente sulle SC, così come presentata dai media ma anche dalle massime espressioni istituzionali (Nazioni Unite, Unione Europea), spesso parla di realtà urbane che semplicemente non esistono.

Alle tecnologie ICT viene attribuito un ruolo che non possono rivestire, quello di creare una città salubre e sicura ospitante cittadini creativi e felici.

Questa narrativa è coerente con mantra dominante della crescita economica, quando invece l’auto organizzazione di un sistema complesso tende piuttosto a realizzare stati dinamici stazionari.

Se per city smartness intendiamo semplicemente la capacità di una città di essere vivibile e di rendere tutti i suoi cittadini sani, benestanti e felici, la narrativa corrente non sembra avere alcuna reale attinenza con la realtà.

NOTE

(7)https://www.smartcitiesinfosystem.eu/sites/default/files/document/the_making_of_a_smart_city_best_practices_across_europe.pdf
(8)http://europa.eu/rapid/pressrelease_MEMO-13-1049_en.htm
(9)http://iiot-world.com
(10)https://www.weforum.org/agenda/2018/02/here-are-5-predictions-for-the-cities-of-the-future/
(11)https://www.citylab.com/design/2019/06/smart-city-photos-technology-marketing-branding-jibberjabber/592123/

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