Luanda Leaks

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5 Febbraio 2020

Un hacker portoghese, un team di giornalisti investigativi, il sistema di potere e corruzione che lega Angola e Portogallo, sotto gli occhi della troika

È un pirata o un signore? Bandito informatico o Robin Hood digitale, che toglie ai ricchi per dare ai poveri (di informazione)?

È una delle questioni che attraversano l’opinione pubblica portoghese da quando il Portogallo non è più solo un paese di antichi navigatori e giovani calciatori famosi nel mondo, ma ha ormai uno dei whistleblower più noti e controversi, che da circa un anno è in carcere preventivo a Lisbona.

Rui Pinto, trent’anni, originario di Vila Nova de Gaia, la città dirimpettaia di Oporto sulla foce del Douro, viso da ragazzino, studi universitari in Storia, poi un Erasmus in Ungheria, dove ha deciso di stabilirsi finché i magistrati portoghesi non sono riusciti a farlo arrestare ed estradare.

Le autorità giudiziarie francesi volevano concedergli lo statuto di testimone protetto per poter continuare a indagare sulle sue rivelazioni, lui avrebbe esitato e i portoghesi sono stati più veloci ad agguantarlo. Perché dietro le rivelazioni di Football Leaks c’è lui, con un passato da hacker estortore, il classico ragazzo abile con la tastiera e tanta voglia di far soldi. Ma chi in questi anni lo ha conosciuto lo descrive come uno che, lavorando a stretto contatto con i giornalisti di Der Spiegel (in particolare Rafael Buschmann), si è formato non solo una coscienza politica ma anche un’educazione al mestiere della verifica delle fonti.

Tra i non numerosissimi notabili portoghesi che oggi lo difendono in pubblico c’è Ana Gomes, ex eurodeputata socialista, la quale ha ribadito la sua posizione in un recente incontro, a Lisbona, con i giornalisti della stampa estera. Perché Rui Pinto, che in galera aspetta il processo per le notizie rubate al mondo del calcio, ha rilanciato la palla con il recentissimo Luanda Leaks.

È di questi ultimi giorni, infatti, la scoperta che c’è ancora la mano (e il mouse) del pirata del Douro dietro le rivelazioni che hanno riportato sotto i riflettori di mezzo mondo la donna più ricca d’Africa, ma finora anche la più discreta, quasi occulta: Isabel dos Santos.

Figlia dell’ex presidente dell’Angola José Eduardo dos Santos (leader africano fra i più longevi, con una presidenza che si è estesa dal 1979 al 2017), Isabel è giunta a capo di una fortuna gigantesca fatta di imprese spesso utilizzate per travasi poco chiari di danaro. Ana Gomes dice che nelle proprie ricerche e denunce personali, prima di questi leaks, ne aveva contate una quarantina. Oggi ne sono spuntate oltre 400.

“Quelli del consorzio di giornalismo d’inchiesta ICIJ – ricorda ancora l’ex eurodeputata – stanno lavorando su un hard disk che, per quanto ne so io, Rui Pinto avrebbe consegnato al suo avvocato prima dell’arresto. Contiene 700mila documenti, quindi c’è ancora tantissimo da scoprire. La prima cosa che hanno fatto i giornalisti è stata concentrarsi su questo bonifico che dalla Sonangol ha spedito danaro a un’altra impresa con sede a Dubai”.

Per capire di cosa parliamo dobbiamo ricordare che la Sonangol è il colosso statale che gestisce il petrolio angolano, di cui la figlia del presidente è stata amministratrice.

Dopo l’abbandono della politica attiva da parte di José Eduardo dos Santos, il successore, João Lourenço, ha avviato un nuovo corso su cui ancora molti esitano a pronunciarsi, ma che chiaramente punta ad allontanare la famiglia del predecessore dai gangli del potere.

Non solo questo ormai famoso bonifico è avvenuto due ore prima che Isabel dos Santos si dimettesse, l’attuale amministrazione della Sonangol denuncia anche altri versamenti per un totale di 135 milioni dollari in poco meno di un anno, tra il maggio del 2016 e il novembre 2017. Le nuove rivelazioni mostrano che i pochi azionisti di queste imprese, come la Matter Business Solutions di Dubai, sono amici dell’imprenditrice angolana, a volte colleghi in consigli di amministrazione di altre grosse imprese portoghesi.

Il dettaglio in più di desolazione che vien fuori dalle denunce della portoghese Ana Gomes, ma anche dall’evidenza di certi fatti a prescindere dagli eventuali sviluppi giudiziari, è quello di un Portogallo connivente che, proprio quando altri stati bollavano come sospetta e limitavano l’attività della milionaria angolana, non esitava a farsi lavanderia europea di certe operazioni finanziarie.

In Portogallo Isabel dos Santos si serviva, fra l’altro, della banca Eurobic, di cui è socia di maggioranza uscente (ha messo in vendita la sua quota subito dopo lo scandalo). Una second life turbolenta per una banca che vanta una prima vita di certo non più serena. Nasce infatti dal tracollo del BPN (Banco Português de Negócios), uno dei tanti fallimenti bancari che condussero il Portogallo sull’orlo del default, fino all’intervento della troika.

E oggi l’Eurobic ex BPN è diretto proprio da quel Fernando Teixeira dos Santos che, in quanto ministro delle Finanze al tempo della crisi, ristrutturò la banca fallita e poi, nel 2011, dovette firmare il memorandum con la troika per salvare, con una politica di austerità recessiva, il paese dall’abisso.

Ma cosa facevano in quel periodo tutti quegli ispettori della troika e la Banca del Portogallo e gli altri organi di controllo?

Nel caso della BdP, accusa ancora Ana Gomes, “fu omissione consapevole, perché oggi sappiamo che i report c’erano, ma non producevano nessun tipo di conseguenza. Neanche la Bce ha mai risposto alle mie denunce”.

E a conferma della sua fama di cane sciolto della politica portoghese non risparmia dure critiche all’attuale governo socialista, a cominciare da Mário Centeno, attuale ministro delle Finanze nonché presidente dell’Eurogruppo, il quale non si pronuncia, come se niente di tutto ciò lo riguardasse. Unica attenuante per il primo ministro in carica: “Quando António Costa assunse l’incarico nel 2015 il sistema bancario portoghese era nelle mani di una ladra, che attraverso le sue partecipazioni dirette e indirette praticamente controllava il nostro sistema bancario”.

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