Nagorno-Karabakh, un viaggio fra storie minori

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12 Ottobre 2020

Un territorio che esiste non in una saga epica, ma nell’universo reale, a volte incredibile, paradossale, spesso tragico della storia post-sovietica

E’ stato un sentimento condiviso lo sbigottimento che ci ha colti domenica 27 settembre, quando i TG del mattino, annunciando il divampare di una guerra, ci hanno messi di fronte a più interrogativi: da dove salta fuori questo Nagorno-Karabakh? Esiste davvero questo posto dal nome che evoca romanzi fantasy più che l’atlante geografico?

Ebbene sì, il Nagorno-Karabakh, come altre località dai nomi altrettanto evocativi -l’Abkhazia, l’Ossezia, la Transnistria – esiste non in una saga epica, ma nell’universo reale, a volte incredibile, paradossale, spesso tragico della storia post-sovietica.

Contemporaneamente, però, ci dicono anche che no, il Nagorno-Karabakh non c’è, perché il resto del mondo non ne riconosce l’esistenza.

Partiamo allora dai fondamentali: che cos’è il Nagorno-Karabakh? Dove si trova? E perché oggi è colpito da  una pioggia di bombardamenti?

Il Nagorno-Karabakh è una piccola repubblica de facto che si è dichiarata indipendente all’inizio degli anni Novante, anche se, per l’appunto, il resto del mondo non ne riconosce l’esistenza. E’ nascosta in fondo al Caucaso, sulle montagne alle quali deve parte del suo nome. “Nagorno” – che in ambito accademico spesso viene sostituito dal più appropriato “Alto” –  viene dal russo e vuol dire “montano”. La seconda parte del suo nome, Karabakh, invece, viene per metà dal turco – “kara”, vuol dire nero – per metà dal persiano “bakh” – vuol dire giardino.

Ricapitolando, abbiamo un nome mezzo russo, un quarto turco, un quarto persiano, però è abitato non da russi, turchi o persiani, ma da armeni, che lo chiamano Artsakh, ed è circondato per intero dall’Azerbaigian, turcofono, di cui ufficialmente fa parte ma che non ne riconosce l’esistenza. E già a questo punto cominciamo ad annusare odore di complicazioni e di bruciato, che ci riporta immediatamente alle bombe e al terzo interrogativo. Perché su un posto in mezzo alle montagne che la stragrande maggioranza del pianeta terra fa fatica anche solo a geolocalizzare, oggi piovono le bombe?

Perché il Nagorno Karabakh è il terreno dove si scontrano armeni e azeri, non dal 27 settembre, ma ormai da più di trent’anni: da una parte, il diritto all’autodeterminazione degli armeni del Karabakh che reclamano l’indipendenza dall’Azerbaigian, e non sono disposti a cedere un millimetro di quella  terra che nessuno riconosce, dall’altra l’Azerbaigian che invoca l’integrità territoriale e rivendica il suo pezzo di territorio, proponendo la guerra come unica soluzione.

La disputa fra armeni e azeri non è iniziata il 27 settembre, quindi. E a dire il vero non è iniziata neanche con il Karabakh. Anzi, se ci guardiamo alle spalle, la controversia per il Karabakh non sembra più tanto una causa, quanto una conseguenza di un conflitto costruito e innescato più di cento anni fa.

Ma perché? Perché gli armeni sono cristiani e gli azeri musulmani, potremmo rispondere cedendo al fascino rassicurante, ma perverso della semplificazione. Ma gli armeni vivono in comunità diasporiche accanto a maggioranze musulmane in paesi come l’Iran, la Siria, il Libano, quindi le ragioni dell’attrito, che rendono impraticabile l’idea di un convivenza all’interno dell’Azerbaigian, sono da ricercare altrove. Forse in un odio atavico, succhiato, come si suol dire per accentuare i toni del dramma, con il latte materno?

Il conflitto fra i due popoli non è di certo un antico retaggio; fin dal medioevo, infatti, armeni e azeri hanno condiviso lo stesso spazio e secoli di storia comune sotto il dominio persiano e sotto quello russo imperiale.

Il Caucaso del medioevo e dell’età moderna era una vasta frontiera dove i confini fra mondo cristiano, turco e persiano slittavano e sfumavano di continuo l’uno nell’altro. Con loro popoli, lingue, costumi. L’ibrido era il tratto distintivo: non a caso una delle figure più rappresentative della cultura caucasica è il trovatore armeno Sayat-Nova, che nel Settecento poetava in tre lingue, georgiano, armeno e azerì, ispirato dalla tradizione dell’Oriente islamico e cristiano.

Nell’Ottocento, sotto il dominio dell’impero russo, Tiflis, la Tbilisi di oggi, capitale della Georgia, era abitata per tre quarti da armeni, mentre nello stesso periodo quella che è oggi la capitale armena, Erevan, era ancora a maggioranza musulmana. La componente armena di Erevan ha iniziato a crescere solo alla fine del secolo, quando sono iniziati i massacri della popolazione armena in territorio turco-ottomano, culminati tragicamente nel 1915 nelle violenze del genocidio.

Lo stesso Karabakh, regione contesa, è stata per lungo tempo il luogo di convivenza fra la comunità armena cristiana e quella tatara musulmana che oggi si definisce come azera. Le chiese medievali innalzate dagli armeni nel Karabakh sono testimonianze incontrovertibili della loro antica presenza nell’area, come lo sono le tracce che raccontano il vissuto delle comunità musulmane sopraggiunte probabilmente nel XVI al seguito della dinastia persiana dei Safàvidi.

I primi segnali di tensione fra armeni e azeri si diffondono all’alba del XX secolo con il sorgere dei movimenti etno-nazionalisti, che, intrecciandosi con la mobilitazione operaia che scuote l’Impero Russo, sono destinati a imprimersi su quel crocevia di popoli come un solco sanguinolento.

Le divisioni su base etno-nazionalistica, largamente coltivate dalle élites per frammentare le classi lavoratrici, accendono la scintilla delle violenze fra armeni e azeri, che culmina nella guerra armeno-tatara del 1905. Ai tempi gli azeri sono ancora tatari, l’Azerbaigian non esiste ancora come progetto politico definito e  gli armeni sono invisi ai tatari dei ceti meno fortunati per l’appartenenza alla borghesia benestante, più che per l’appartenenza nazionale. Ma i disordini si intrecciano con le rivendicazioni dei movimenti nazionalisti e degenerano nella guerra interetnica che lascia a entrambe le parti  una pesante eredità: diverse migliaia di vittime e un astio che crescerà ancora fino a divampare di nuovo nel 1918, quando al crollo dell’Impero Russo sotto l’urto della Rivoluzione, Georgia, Armenia e Azerbaigian vivono una stagione di indipendenza, breve, ma significativa abbastanza da segnarne i destini. Con i colpi della Prima Guerra Mondiale ancora nell’aria, con la ferita del genocidio ancora sanguinante, gli armeni, attaccati da sud anche dai turchi, combattono contro gli azeri per definire i rispettivi confini.

Dopo una brutale guerra civile, uscito di scena l’Impero Ottomano, sia gli armeni, sia gli azeri si piegano ai bolscevichi.

Questi ultimi nel ’21 assegnano il Nagorno-Karabakh all’Azerbaigian puntando probabilmente a ingraziarsi la Turchia kemalista, vista come una possibile alleata in funzione antioccidentale e anticapitalista; due anni dopo creano all’interno dei confini dell’Azerbaigian, in modo da non toccare l’Armenia direttamente, la Regione Autonoma del Karabakh, abitata per la maggior parte da popolazione armena.

Sulla questione scenderà il silenzio, imposto dalla fitta rete del potere sovietico, ma all’aprirsi delle prime falle del sistema, le conseguenze di quell’atto sconsiderato riemergeranno con forza, raggiungendo Mosca da questa remota periferia arroccata sui monti.

Nel gennaio del 1988 la componente armena della popolazione del Nagorno-Karabakh, pari a circa il 70-80 percento, presenta alle autorità sovietiche la volontà di unirsi alla Repubblica Armena. Il Soviet Supremo tentenna, ma l’Azerbaigian non resta di certo immobile a guardare gli esiti di quella minaccia. In quel momento sono 350.000 gli armeni che vivono in Azerbaigian, mentre sono circa 200.000 gli azeri che vivono in Armenia.

Fra armeni e azeri, così fatalmente vicini, scoppiano i primi incidenti che poi si ripetono. Le aggressioni nei confronti degli armeni si susseguono, culminando nel febbraio di quell’anno nel pogrom di Sumgait, che i testimoni ancora oggi ricordano come uno scenario da film dell’orrore. Per sfuggire alle persecuzioni quasi 200 mila armeni lasciano l’Azerbaigian; agli azeri residenti in Armenia toccherà la stessa sorte, in direzione contraria.

Per gli armeni, quei ripetuti attacchi da parte degli azeri, turchi come erano turchi i persecutori ottomani, sono pericolosamente simili a quelli già subiti; per gli azeri, invece, l’atteggiamento degli armeni è una chiara minaccia all’unità territoriale della Repubblica. Gli scontri si moltiplicano e alla fine del 1991 la popolazione armena del Nagorno-Karabakh vota e approva con un referendum l’indipendenza della regione, denominata Repubblica dell’Artsakh. E’ guerra fra armeni e azeri.

La Turchia chiude la frontiera con l’Armenia, lasciandola isolata. La furia degli eserciti si abbatte anche sui civili, lasciando dietro di sé una scia di sangue e di orribili memorie, come quelle del massacro di Khojaly, in cui nel 1992 hanno perso la vita centinaia di civili azeri.

Quando le operazioni militari terminano con il cessate il fuoco nel 1994 l’Armenia, ha fatto in tempo a ottenere il controllo anche di aree al di fuori del Nagorno-Karabakh delineato in epoca sovietica. L’Armenia dunque, ha vinto, o almeno così si direbbe. Ma a ben guardare gli esiti del conflitto, la parola “vittoria” suona fuori posto. Dalla fine degli anni Ottanta sono state circa 20.000 le vittime del conflitto e centinaia di migliaia i rifugiati. A partire dal “cessate il fuoco” il conflitto entra in una fase di stallo. I negoziati condotti con la mediazione di Russia, Francia e USA non portano in direzione alcuna.

Il conflitto è “congelato”. La situazione è rimasta bloccata per decenni a causa contrapporsi insanabile e ostinato delle due parti, forte ognuna di una delle proprie ragioni. La parte armena non cede, per volontà di autodeterminazione e anche per il timore fondato di una pulizia etnica che potrebbe diventare realtà, se il Karabakh tornasse sotto la sovranità azera; l’Azerbaigian, di fronte all’impossibilità di negoziare, crede che la guerra sia l’unica via.  Così, mentre le parti sono impegnate a non trovare un accordo, impegno che dura con pervicacia ormai da trent’anni, il Karabakh è scivolato nell’ombra, nella quale si riaccendono di tanto i tanto i fuochi sinistri delle violazioni del “cessate il fuoco”.

Quelle dell’aprile 2016 e del luglio 2020 hanno oltrepassato le nebbie che ammantano quella zona remota, arrivando fino ai media europei, ma molte altre volte il “cessate il fuoco” è stato interrotto, come mi ha raccontato qualche anno fa un tassista, sulla strada che va da Erevan a Tbilisi passando accanto alla frontiera con l’Azerbaigian. “Qui sparano ancora”, ha detto, “però solo di notte”, come se questo rendesse il tutto più rassicurante.

Intanto, intorno a quello che viene descritto come lo scenario immobile di un conflitto “congelato” negli anni molto è cambiato. Sono cambiati gli attori. L’Armenia ha preso posizioni più estreme: il premier armeno muta il velluto della rivoluzione guidata nel 2018 in carta vetrata sulla questione Karabakh, dichiarando nel 2019 nel corso di una visita ufficiale che l’Artsakh è Armenia. L’Azerbaigian è diventato una potenza energetica, più forte, più ricca e più armata; è cambiato, significativamente, il ruolo della Turchia, che ha preso le parti dell’Azerbaigian già nel 1991, quando ha chiuso, allo scoppio del conflitto, le frontiere  con l’Armenia.

Oggi però si esprime a sostegno dei vicini azeri – unico paese insieme all’Afghanistan a farlo pubblicamente – da una nuova e più solida posizione di forza, che avanza nell’area così come avanzano i corridoi del gas, attraverso il suo territorio, dal Caucaso all’Europa mediterranea.

E’ cambiato anche il modo di fare la guerra e l’arrivo a Baku di mercenari partiti dalla Siria su richiamo di Ankara suggerisce una somiglianza con le altre “guerre ibride” in cui si scontrano, in Libia e Medio Oriente, gli interessi di Turchia e Russia.

A dispetto del suo status non riconosciuto, quindi, il Nagorno-Karabakh esiste come questione giuridica irrisolta, ma soprattutto come obiettivo strategico e snodo logistico negli interessi delle potenze coinvolte nella regione.

La ripresa delle ostilità, dunque, non è una sorpresa come non è una sorpresa la violenza, esplosa come un tappo vulcanico sotto la spinta di un sottosuolo in ebollizione perenne.

Ma soprattutto e più tristemente, non è una sorpresa perché un’esistenza non riconosciuta, sia essa quella di un paese o di un essere umano, è nuda, vulnerabile ed esposta di fronte alla violenza, fisica o immateriale che sia. Il ritorno del fuoco è una minaccia costante e di fronte a questo la  vita di un paese che non esiste è qualcosa di fragile. Allo stesso modo è fragile la parvenza di normalità che le persone negli anni hanno a fatica tentato di costruire.

Pochi anni fa, prima che le bombe mettessero in fuga nuovamente le persone, alcune verso Erevan, altre nei rifugi sotterranei, dove anziani ultraottantenni sentono sibilare sulla propria testa il suono sordo dell’ennesima guerra, il Nagorno Karabakh non era di certo il luogo truce e pericoloso evocato dalle etichette largamente utilizzate di “repubblica ribelle”, “stato separatista”.

Per chi entrava arrivando dall’Armenia non c’erano posti di blocco, barriere di filo spinato, armi in vista: nel Karabakh si accedeva transitando accanto una piccola costruzione in pietra sul ciglio della strada, in una verdissima gola rocciosa. Secondo l’opinione dei locali, fermarsi non era neppure un obbligo, ma solo un eccesso di zelo.

Così sono entrata, nel gennaio del 2017, nel Karabakh, territorio occupato e repubblica fantasma del Caucaso, sullo sfondo bucolico di un paesaggio montano dove probabilmente il transito di pecore e capre era frequente tanto quanto quello delle automobili.

Stepanakert sembrava solo una cittadina di provincia, ordinata, pulita, con un discreto passeggio di gente che, attratta dalle temperature insolitamente poco sopra lo zero, si attardava nella piazza principale, dove si affacciava il palazzo del Governo e sventolava la bandiera della Repubblica. Immersa nell’aria invernale dei giorni fra Capodanno e il Natale Armeno, che cade il 6 gennaio, Stepanakert aveva un’aria quasi presepiale, come certi borghi appenninici, ma con la vernice passata di fresco.

A guardarsi intorno, l’unico elemento dissonante che risaltava era la totale assenza di elementi dissonanti in quella placida capitale fra i monti, forse non troppo mondana, ma animata da un discreto brulicare di gente impegnata a santificare le feste.

Infatti, la scena che ho trovato nella sala da pranzo dell’ostello a conduzione familiare dove ho alloggiato, era esattamente quella dei giorni di festa: una famiglia numerosa, con annessi vicini, intorno a una lunga tavolata dove fluttuavano carni infilzate su spade e dove mi hanno immediatamente assegnato un posto a capotavola, come se fossi una parente arrivata da lontano. Come se fossi appena sbarcata dopo 700 chilometri in treno sul solito divano di casa già avvolto in una nube densa di voci e fritture.

Di certo non si può dire che il conflitto e l’ombra delle sue conseguenze fossero del tutto assenti in quella atmosfera raccolta e festiva. Stavano all’angolo, ma si allungavano, di tanto in tanto, fino alla tavola, dove sedeva un ragazzo in divisa, un vicino di casa, poco più di vent’anni, pronto a partire per il confine; nei discorsi che rivelavano la difficoltà di sopravvivere economicamente in un luogo bloccato da una situazione de facto, dove il turismo, almeno per piccoli albergatori, commercianti e tassisti, era una delle poche risorse; ancora, si vedeva uscendo di casa aggirarsi come uno spettro vagante fra i cumuli di macerie che ancora incrostavano il Karabakh.

La città di Shushi, un tempo capitale nobile del khanato del Karabakh con il nome di Shusha, fiorente città dell’Impero Russo, poi torturata col fuoco e ancora piena di piaghe, stava ancora cercando di scrollarsi di dosso a fatica ceneri e detriti delle violenze che l’hanno colpita.

Nascoste dietro un arco orientale, che ricordava il tempo in cui cristiani e musulmani dividevano pacificamente lo stesso spazio, si alzavano verso l’alto scheletri di edifici sventrati, di cui rimanevano in piedi solitarie pareti con finestre spalancate sul vuoto da quasi trent’anni, e profili scuri di moschee grigie di polvere e di abbandono, con i minareti muti e inerti come rami secchi protesi verso l’alto.

Ma sullo sfondo di quel memoriale dell’orrore, Shushi non sembrava un luogo prostrato, ripiegato su se stesso, immobile nella sua sofferenza. Anzi, con tutte le sue deformità, la vita in città si muoveva, anche se pigramente, fra le persone sedute mollemente al sole intorno all’albero addobbato a festa e quelle che si trattenevano in chiacchiere all’uscita dei pochi negozi o alla fermata dell’autobus, fra i bambini che giocavano, saltellavano, cadevano e imperturbabili si rialzavano sulle strade sconnesse, qua e là coperte di ghiaccio, fra le mani che in alto, agli ultimi piani dei nuovi blocchi di edifici, stendevano o raccoglievano bucato, nel ruggito sfiatato dei taxi scassati che, metafora di un intero paese, arrancavano sui monti per portare in giro turisti al suono di marmitte in affanno e di “Felicità” di Albano e Romina.

In quello scenario di bislacca, forse cadente normalità le persone “vivevano”, esistevano e con loro esisteva il Nagorno-Karabakh, non come questione giuridica irrisolta, come obiettivo strategico, come snodo logistico negli interessi di qualcun altro con la voce più grossa, ma come terra abitata da esseri umani – non fantasmi, ribelli, separatisti – che domani dovranno ancora un volta contare le perdite e raccattare macerie di vite che, sotto le grandi trame della geopolitica, sono sempre storie minori.