Covid-19: Tunisi città fantasma

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29 Marzo 2020

Faiza fuma una sigaretta seduta nel giardino davanti a casa. Ha le occhiaie di chi non dorme da giorni e delle ciocche bionde le ricadono malamente sul viso.

“Da una settimana il call center dove lavoravo ha chiuso per l’epidemia. Non si sa quando riprenderà l’attività. Forse perderò il posto perché ho cinquantotto anni ed ero stata assunta da sei mesi.”

Faiza è divorziata e per mantenere la figlia di diciassette anni contava su quell’introito e le rimesse che le invia il figlio architetto da Londra.

I contagi da Covid-19 sono una novantina in tutta la Tunisia, ma in lieve e costante aumento. Chiusi i caffè, i negozi e i supermercati. Restano aperte solo le farmacie, gli ospedali e i piccoli negozi di alimentari. Qualche ragazzo gioca ancora a calcio negli spiazzi della periferia e qualcun’altro urla ‘corona’ con la sfrontatezza della gioventù.

Da sabato mattina si sono inasprite le misure di isolamento e Tunisi è diventata una città fantasma. Se fino a due settimane fa era impossibile camminare per il centro senza sfiorarsi ora sono solo pochi sguardi che si incrociano a distanza. Se tre giorni fa era un’impresa trovare un taxi, ora le vetture gialle continuano a circolare vuote. I taxi collettivi sono fermi nella piazza vicino alla stazione.

Ma c’è anche chi il “coprifuoco” non se lo può permettere, come Moustafa che vende i fazzoletti sulla centrica Avenue de Paris e Mohammed che lustra scarpe e vende lacci di ogni colore. E c’è chi continua a guidare il taxi con guanti e mascherine, spruzzando ammoniaca dopo ogni cliente. “Se lo stato mi paga io sto a casa – afferma Amir – non solo due settimane, ma anche un mese.”

Nell’aria si sente l’odore dei fiori d’arancio, mentre la preghiera ad Allah si sparge su di una città a cui non resta che Dio.

La scorsa settimana – quando il coprifuoco si estendeva solo dalle sei di sera alle sei di mattina – la gente si incolonnava davanti ai supermercati in lunghe file. Eravamo tutte statue a debita distanza, con lo sguardo atterrito, in attesa del nostro turno per acquistare provviste per un mese e riempire il congelatore.

Venerdì, prima dell’inizio delle drastiche misure di isolamento, l’ex premier Youssef Chahed ha pronunciato parole per rassicurare la popolazione e chiedere una moratoria sul debito. “Non siamo tutti uguali di fronte alla pandemia” – ha dichiarato. “È odioso che su di una parte del pianeta non si paghi più l’affitto per permettere agli uomini di combattere per la loro sopravvivenza, mentre in un’altra parte del mondo, fra coronavirus e nutrirsi, l’uomo dovrà scegliere di nutrirsi”. “L’umanità non può più ammettere che in una parte del pianeta si possa provvedere ai bisogni essenziali… mentre altrove si domanda agli Stati e ai loro cittadini, spesso i meno ricchi e i più esposti di continuare a sopravvivere economicamente e rimborsare i loro debiti alle istituzioni internazionali.”

Ma le disuguaglianze sono cocenti nella stessa Tunisi e il Covid-19 non fa che mostrarle. Yosra è dermatologa al Lac Center, in quel “pezzo d’Occidente” dove si fanno trattamenti estetici con il plasma per fermare la caduta dei capelli e riempire le rughe. Prima che scattassero le ultime restrizioni aveva smesso di andare in palestra, ma non aveva rinunciato ad allenarsi con il coach a casa.

Ben diversa la situazione di Sami, tecnico a Teleperformance. “Se mi ammalo all’ospedale pubblico mi lasciano morire”, ammette con fin troppa franchezza. Ha gli occhi sbarazzini e qualche ruga incipiente. L’estate scorsa ha fatto un incidente in auto, riportando una frattura del setto nasale e una doppia frattura della mandibola. “Mi sono fatto operare in una clinica privata, non volevo rischiare. Ho pagato 2700 euro e mi sono indebitato”.

Se il numero di contagi dovesse crescere esponenzialmente, come è avvenuto in Europa, il sistema sanitario pubblico collasserebbe nel giro di poco. Allora il covid-19 riprodurrebbe, esacerbandole, le enormi differenze sociali esistenti nel Paese. Decidendo, anche in base al reddito, della vita e della morte.