Cipro: Quasi arrivati a destinazione

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29 Luglio 2020

Quando ho lasciato il Kenya alla volta di Cipro ho capito davvero cosa significa ‘essere bloccati nel mezzo’. Da studente, mentre vivevo nella Repubblica turca di Cipro del Nord, sono venuta a contatto con le fatiche quotidiane degli immigrati africani in questa strana terra di nessuno: isolata dal mondo dalle acque blu del Mediterraneo, separata dall’Europa dalla Linea verde.

di Kajuju Murori, foto di Anne Ackermann, traduzione di Irene Dominioni

tratto dal progetto #bleuborder – Cinque storie cross-border per una nuova prospettiva sui confini meridionali dell’Europa pubblicato da Cafébabel

Era una fredda domenica mattina quando abbracciai e salutai la mia famiglia all’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi. Mia sorella era a poche settimane dal parto e stava in piedi di fronte a me, visibilmente appesantita, ma felice tra le braccia del suo futuro marito. I contorni del suo corpo erano rotondi, dolcemente gonfi.

Per un attimo, sperai di potermi fermare un altro po’, per dare una mano quando sarebbe arrivato il bambino. In Kenya, la maternità, soprattutto quando è vissuta per la prima volta, è una specie di affare di famiglia. Osservai gli occhi di mia madre: se avesse sbattuto le palpebre anche solo una volta, si sarebbe messa a piangere. Invece guardava fisso in lontananza. Le strinsi la mano per liberarmi dalla sua presa e mi affrettai verso il terminal. Avevo 31 anni e stavo andando in Europa. O almeno, così pensavo. Fino a quel momento, non avevo vissuto fuori dal Kenya per più di due mesi consecutivi.

Sono cresciuta in una famiglia del ceto medio in una piccola cittadina, con una mamma lavoratrice e un papà nell’esercito. Dieci anni prima della mia partenza per Cipro ci eravamo trasferiti a Nairobi, l’unica capitale del mondo dotata di un parco nazionale. È una posto dove gli animali selvatici, come i leopardi e i leoni, spesso si spingono fino alle aree residenziali e sulle autostrade.

Maureen, 33 anni, è una giornalista e studentessa universitaria originaria di Nairobi, Kenya. Lo scatto la ritrae mentre passa del tempo all’Università americana di Girne/Kyrenia

Malgrado fosse una città eccitante, la trovato sovrappopolata e troppo cara. Lavoravo come responsabile comunicazione per una ong locale, ma non ero felice. Ho sempre sognato di diventare una scrittrice, di raccontare storie e di viaggiare. Dopo cinque anni insoddisfacenti, avevo dunque deciso di tirare una linea. Nel 2014, gli impieghi da remoto su internet erano la ‘nuova tendenza’ e speravo di poter lavorare come giornalista freelance. Ma capii presto che guadagnare 10 dollari per un articolo da mille parole non sarebbe stato abbastanza per vivere.

Come molte persone della mia generazione, trovavo la vita in Kenya difficile per via di un’economia instabile, con molti problemi di corruzione e insicurezza. Per esempio, negli corso degli ultimi decenni, il Kenya ha pagato un prezzo alto per il terrorismo islamico. Ci sono stati attacchi gravi, come quello al complesso DusitD2 nel 2019, la sparatoria al Westgate Mall nel 2013, e, ancor prima, i bombardamenti all’ambasciata degli Stati Uniti nel 1998. La crisi finanziaria del 2008 poi, ha messo in ginocchio l’economia, lasciando molti kenioti – come milioni di altre persone nel mondo – senza lavoro. Molti giovani sono stati costretti a partire in cerca di prati più verdi all’estero. Così, a settembre del 2017, ho fatto le valigie che io, decisa a partire per Cipro per raggiungere la mia sorella più piccola, Kendi, che era partita sei mesi prima.

L’Europa mi sembrava la destinazione ultima. Mi immaginavo un continente pieno di grattacieli e castelli, adornato di architetture antiche e moderne allo stesso tempo. Una terra con un sistema di trasporto efficiente, sicuro ed efficace. Ma soprattutto: una terra ricca di opportunità per gli immigrati.

Le storie dei miei parenti, già trasferitisi all’estero, sembravano promettenti. Mia cugina stava frequentando un master in Business del cinema a Londra. Nel giro di pochi mesi aveva trovato un lavoro part-time come cameriera e poi una posizione in un’azienda di produzione cinematografica tedesca. Nel tempo libero visitava città come Amsterdam, Bruxelles e Parigi, viaggiando con facilità attraverso il Vecchio Continente. Per quanto possa sembrare strano, muoversi attraverso l’Africa è difficile, specialmente per gli africani. Contrariamente al sistema di Schengen, in alcuni paesi ci sono requisiti di visto, per cui viaggiare non è un’attività a buon mercato.

Piena di speranza, per prima cosa, provai quindi a fare domanda per una borsa di studio in un’università del Regno Unito, dove aveva studiato anche il noto scrittore keniota, Ngugi wa Thiong’o. Ma non avevo abbastanza soldi per coprire il resto della retta. In quel periodo, mia sorella Kendi si stava sistemando a Cipro del Nord: i servizi educativi sembravano essere più economici. E le autorità non ponevano nemmeno requisiti particolari in termini di risorse economiche sul conto corrente.

Mi recai dunque in un’agenzia specializzata a Nairobi che mi aiutò a compilare la domanda, senza rivelare però tutte le informazioni riguardo la complessità della situazione politica sull’isola. Il mio agente mi assicurò che sarei stata in grado di viaggiare ovunque con un passaporto valido. La mia richiesta di intraprendere un master in Lingua inglese per l’insegnamento fu accettata da una delle 20 università di Cipro del Nord.

Mentre mi preparavo a partire, iniziai di nuovo a sognare. Una volta arrivata a Cipro, perché non andare a visitare la Francia? Avevo imparato il francese alle superiori e volevo fare esperienza di una cultura di cui avevo solo letto nei libri. Oppure, ancora meglio: perché non recarsi in Italia? Da cattolica, andare nella terra del Papa sarebbe stata una vera conquista. La mia defunta nonna, una cattolica devota che parlava persino il latino, ne sarebbe stata entusiasta.

Sull’aereo sbirciai fuori dal finestrino – l’accecante sole del primo pomeriggio in volto. Il cielo era limpido. Sotto di noi, l’infinito blu dell’acqua si intrecciava con la luce pallida dell’orizzonte. La vista del mar Mediterraneo era grandiosa, ma non riuscivo a smettere di pensare alle persone che avevano perso la vita per attraversarlo.

Acque agitate

Al momento della mia partenza, le storie dei migranti che morivano in mare erano al centro del dibattito pubblico in tutto il mondo. I trafficanti locali e internazionali stavano facendo una fortuna trasportando migranti africani in Europa. I più fortunati riuscivano ad attraversare il mare. A migliaia invece venivano inghiottiti dalle onde. Mi chiedevo perché i paesi occidentali fossero così riluttanti a ospitare le persone, mentre finanziavano il Kenya e l’Uganda per accogliere profughi dai vicini Sudan, Congo, Burundi e Somalia.

Il mio paese di origine, il Kenya, una volta era tollerante verso i migranti. Ma nel 2016 il governo ha annunciato un piano di chiusura del campo profughi di Dadaab – uno dei più grandi al mondo – citando ragioni di ‘sicurezza nazionale’. Per fortuna, la decisione fu poi respinta dalla Corte Suprema. Così, alcuni rifugiati sono stati integrati nella società keniota, malgrado le restrizioni impediscano ancora a molti di lasciare il campo per cercare lavoro. A oggi sono 217,108 i rifugiati e richiedenti asilo registrati che sono alloggiati in tre campi gestiti dall’Onu.

«La vista del mar Mediterraneo era grandiosa, ma non riuscivo a smettere di pensare alle persone che avevano perso la vita per attraversarlo».

Mentre l’aereo sorvolava ciò che appariva come una terra disabitata, vedevo alberi e tanto vuoto. Mi ricordo una foresta snella che però sembrava innaturale; mi fece pensare a quelle fitte che avevamo a casa. Per un attimo, il Kenya mi mancò. Da bambina, avevo vissuto in un villaggio circondato da una foresta dove portavamo le nostre mucche e le capre a pascolare. A volte, gli animali selvatici come i ghepardi e gli elefanti invadevano le nostre fattorie, alla ricerca di cibo. Oggi, le foreste sono diventate aree residenziali, mentre la popolazione e la corruzione hanno strappato gli animali dai loro habitat naturali, creando vere e proprie aree di conflitto tra la natura e l’uomo. Ero scioccata di scoprire che a Cipro non c’erano animali selvaggi, fatta eccezione per gli innocui asini ‘selvatici’.

Un’estranea al buio

Durante la pianificazione del viaggio, non avevo mai pensato al fatto che mi sarei potuta sentire una straniera. Ma a distanza di pochi giorni dal mio arrivo a Cipro, mi cominciai a sentire a disagio al sol pensiero di uscire per conoscere persone del posto che, tra l’alto, non comprendevano il mio inglese. Il colore della mia pelle, i miei capelli, il modo in cui parlavo, persino la mia andatura sembravano suscitare giudizi. Tanto che non volevo lasciare casa senza mia sorella. Quando salivo sugli autobus, mi metteva a disagio sedermi mentre la gente del posto restava in piedi. Mi inquietava trovarmi da sola in qualsiasi posto dove ci fossero più nativi che africani.

Mi ricordo anche una rissa verbale tra un autista di autobus e uno studente africano in una sera buia e umida d’inverno. L’autista aveva deciso di chiedere soltanto agli africani di mostrare la propria tessera da studenti, altrimenti sarebbero dovuti scendere.

Per non parlare di quando, sempre con mia sorella, ci mettemmo alla ricerca di un appartamento. Ci rendemmo presto conto che non avremmo trovato nulla per via del colore della nostra pelle. Ero sorpresa, ma non mi sembrava così strano. Anche in Kenya alcuni proprietari di case preferiscono affittare a gruppi etnici specifici, per via delle tensioni socio-politiche.

Ma come poteva un posto di cui avevo sognato così a lungo soffocarmi in questo modo?

Okito, 30 anni, è originario di Kinshasa, DRC, dove vivono ancora sua moglie e suo figlio. In questo momento sta completando una laurea triennale in Ingegneria. Vive a Cipro del Nord da tre anni. «Un giorno ero a Lefkosia, stavo camminando con la mia chitarra in mano e cantavo. Improvvisamente è arrivata la polizia ad arrestarmi. Non mi ero accorto che avevo attraversato il confine. Non sapevo che non si potesse andare dove mi ero recato. Sono stato in prigione per tre mesi. Per una persona di colore ritrovarsi in carcere qui è un’esperienza orribile. Ho pianto tutti i giorni. Mia madre e mio padre sono dovuti venire fin qui e pagare 2mila euro un avvocato affinché mi tirasse fuori da lì. Quando guardo il mare, mi viene voglia di viaggiare. Da quando sono stato in carcere, mi sento come un prigioniero su questa isola».

Malgrado fossi a conoscenza della separazione tra Cipro e Cipro del Nord prima del mio arrivo, non sapevo quanto estese fossero le restrizioni derivanti dalla ‘Linea verde’ ufficiale. Questo confine divide l’isola in due paesi, fin dal conflitto tra Grecia e Turchia del 1974. La parte meridionale si chiama Cipro ed è un membro dell’Unione europea, mentre la parte a nord porta il nome di Repubblica turca di Cipro del Nord (TRNC) – un territorio che non è riconosciuto da alcuno stato, fatta eccezione per la Turchia.

Insieme a mia sorella siamo siamo andati a visitare la vecchia capitale, Nicosia, una delle poche città al mondo a essere ancora divisa da una barriera fisica. Nemmeno la bellissima architettura, a partire dalle Mura Veneziane per arrivare fino alla moschea ottomana del sedicesimo secolo, riesce a coprire le cicatrici di questo conflitto congelato.

La città è tagliata in due da una rete di filo spinato che separa la zona greca da quella turca. In realtà, in mezzo c’è una zona demilitarizzata, la cosiddetta Linea verde. Si tratta di un territorio ancora protetto dalle truppe dell’Onu. Nella capitale, uomini armati stanno ai posti di controllo per assicurarsi che solo chi è autorizzato (i locali, oppure i turisti con un passaporto europeo o americano) passi da un lato all’altro. Tutte le altre persone, per esempio chi ha soltanto un documento africano – come me -, restano intrappolati al Nord.

Vivere in un limbo

La TRNC è come un limbo. Del resto, le acque blu del Mediterraneo ci isolano dal resto del mondo. E la Linea verde è un promemoria continuo di come i cittadini del terzo mondo non possano passare dall’altra parte, che sia per andare in chiesa, fare shopping o andare a trovare un amico.

Negli ultimi due anni, mi sono abituata alla cultura dell’isola, agli sguardi insistenti e al trattamento distaccato. Ho imparato a non prendermela. Nei giorni buoni, arrivo persino a concedere alla gente del posto a scattare delle fotografie con – o di – me. In questi momenti mi comporto come se fossi una celebrità, ma mi chiedo cosa diranno ai loro amici e parenti. Ho imparato a cucinare alcuni piatti locali e apprezzo persino spuntini come le olive e il formaggio. Quando vado in bagno, butto con attenzione le salviette in uno speciale cestino, malgrado sia l’ultima cosa che vorrei fare, dato che in Kenya le gettiamo nello scarico.

Due ragazzi africani camminano per le strade del quartiere borghese di Girne/Kirenya, Cipro del Nord.

Ormai non mi imbarazza più nemmeno interagire con le persone del posto, nonostante serva sempre qualche minuto per capirsi a vicenda nelle nostre lingue sconnesse. Ma soprattutto, malgrado sia soggetta a discriminazione, mi sento al sicuro. Posso camminare con il cellulare nella tasca dei jeans senza dovermi preoccupare – a Nairobi, ti possono sottrarre telefoni e borse persino da un veicolo in movimento.

Poi, contro tutte le aspettative, un anno fa, ho incontrato un cipriota greco, alto e con dei brillanti occhi color nocciola. Vive a Limassol, nella parte meridionale dell’isola. Per via del confine, il mio ragazzo deve guidare fino alla capitale e passare il posto di blocco ogni volta che vuole vedermi. Per fortuna, lì dove i confini ci opprimono, internet ci ha consentito di ‘ritrovarci’ e di comunicare liberamente. La nostra è una relazione a distanza, malgrado viviamo a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altra. Al di là della mia situazione personale, mi rattrista vedere le persone del posto soffrire della situazione. È come se un passato doloroso li perseguitasse e il futuro apparisse sempre più buio.

La situazione a Cipro talvolta mi ricorda quella dell’isola Migingo sul Lago Vittoria, al confine tra il Kenya e l’Uganda. Ancora oggi è fonte di una lunga storia di tensioni tra i due paesi. Negli anni, le negoziazioni per risolvere la disputa territoriale tramite una Commissione unica per il confine non hanno portato ad alcun risultato. I due stati hanno però trovato un accordo per spartirsi l’isola nel 2009, con una linea di separazione. Forse una riconciliazione simile potrebbe avvenire anche qui?

«Ai ragazzi africani non è ‘consentito’ giocare in questo campo. Le persone del posto non ci hanno dato una spiegazione valida. Ci hanno detto che se ci trovano qui chiamano la polizia. Eppure, questo era una sorta di rifugio per noi dove trovavamo pace. Ci apparteneva. Non abbiamo altro posto dove andare, ma abbiamo paura di tornare al campo e giocare».

Il business degli studenti africani a Cipro del Nord – Nelle università di Cipro del Nord studiano 100mila studenti stranieri. Circa un quarto sono di origini africane. Ai cittadini kenioti non è richiesto un visto per viaggiare a Cipro del Nord. Altri africani, come gli studenti nigeriani, devono avere un visto transitorio e un biglietto di ritorno. In aggiunta a queste spese, devono pagare almeno 3mila euro l’anno per un corso di laurea triennale.