Di cristalli e frontiere. Conversazione con Giovanni Cioni

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24 Gennaio 2022

Dispacci dal Trieste film Festival – 2

Di domenica Trieste è un cristallo battuto da venti balcanici che spirano lungo le vie deserte. Dei cristalli ha lo stesso mistero, la stessa forma imprevedibile, i saliscendi inaspettati, e le alture, le punte aguzze che poi sono i tetti chiari e infiniti di palazzi centenari. Camminando tra i negozi sigillati, gli ombrelloni dei bar chiusi e ripiegati, dimentico l’asfalto sotto i miei piedi e provo a immaginare l’eterna lotta tra le due forze che hanno dato forma a questa città, così diversa da tutto ciò che conosco: da un lato il mare, con la sua apertura orizzontale, dall’altro le montagne, con la loro spinta vertiginosa. 

Cammino, riparandomi dal vento azzurro del mattino, e penso che una città di frontiera è anche questo, una lotta che non è stata vinta da nessuno, una ferita per sempre aperta; secoli di famiglie, lingue, dominazioni che si sono avvicendate e hanno lasciato traccia nei nomi delle vie, nella forma degli edifici, schegge di mondo che sono state assorbite e ribolliranno per sempre nel terreno. Proprio come i cristalli, Trieste è il risultato di una lenta solidificazione – strutture e atomi diversi a formare una combinazione che sembrerebbe impossibile, eppure esiste.

È in una frontiera nella frontiera che incontro Giovanni Cioni, regista omaggiato nei maggiori festival di documentario e non solo, nato a Parigi nel 1962 e poi vissuto a Bruxelles, a Lisbona, a Napoli e in Toscana, dove attualmente risiede: seduti all’ingresso del Cinema Ambasciatori, proprio nell’atrio che separa il brusio della sala cinematografica e la città azzurra che ci attende dietro i vetri, Cioni mi confessa che quando fantasticava di realizzare il suo ultimo film, Dal pianeta degli umani, in concorso per il Premio Corso Salani, non aveva idea che sarebbe diventato quello che è oggi: un racconto ibrido tra documentario e finzione, in cui alle immagini della frontiera di Ventimiglia, e in particolare del sentiero boscoso tristemente noto come “sentiero della morte” per i migranti che tentano di attraversarlo, si alterna la storia del Dottor Voronoff, scienziato scellerato che negli anni Venti sperimentava cure di ringiovanimento trapiantando testicoli e ghiandole di scimpanzé negli esseri umani. Il tutto tenuto insieme dalla voce narrante del regista.

«Mi interessava fare un film sui migranti,» confessa Cioni, in un italiano ammorbidito da un accento in parte toscano e in parte francese. «Incontrando la villa di Voroneff, che sorge proprio lungo il sentiero, mi ha poi affascinato la sua storia e ho pensato subito allo scienziato pazzo de L’invenzione di Morel, il romanzo di Aldolfo Casares. In qualche modo tutto si è mischiato nel mio immaginario: non volevo una storia unica, volevo tenerle tutte.»

Amalgamando materiali così diversi (anche dal punto vista sonoro: i cori di rane nascoste nelle cisterne umide fanno da sottofondo perpetuo e misterioso per tutto il film), Cioni non aveva paura che il film si disgregasse: confidava nella struttura che era affiorata naturalmente insieme alle immagini, nella voce narrante che procedeva per frammenti, come se in fin dei conti assistessimo a un onirico resoconto di viaggio.

«Quando fai un film il contenuto è importante, ma più importante è il come scegli di raccontarlo, il modo in cui fai vivere il tempo e lo spazio, che poi sono gli elementi fondamentali del cinema. Essere libero non vuol dire solo prenderti la libertà di fare quello che vuoi, ma di prenderti il rischio di cercare qualcosa di nuovo.»

Libertà, appunto. È difficile dire se quelli di Cioni siano documentari o film di finzione: non penso solo a Dal pianeta degli umani, ma anche a Non è sogno, realizzato con i detenuti del carcere di Capanne, o anche Del ritorno, incentrato su un sopravvissuto di Mauthausen, infestato dalla memoria degli orrori vissuti. «Non mi interesso della distinzione tra documentario e finzione,» rivela Cioni, «mi interessa solo usare il linguaggio del cinema. È vero che nei circuiti di produzione il documentario ha più libertà – non sempre, ma il più delle volte è così: hai meno mezzi, ma hai una struttura di produzione più elastica, che asseconda il fatto che film non abbia una struttura già predeterminata sin dall’inizio. Ma il documentario per me non è un’indagine sulla realtà, piuttosto un modo di capire che cos’è la realtà. Se faccio dei film è perché mi permettono di mettere in scena la mia esperienza del mondo e il mio rapporto con l’altro. E molto spesso i film nascono da ciò a cui non si riesce a dare a una risposta, da degli incontri, magari anche solo da una frase. Considera Del ritorno, appunto: feci un film su una persona che mi disse “io sono qui con te ma non sono qui con te, sono sempre laggiù”.  Allora non volevo fare un documentario classico, limitarmi a un film su un sopravvissuto, ma interrogare con il cinema il fatto di essere qui e anche altrove, moltiplicare le possibilità, chiedersi cosa vuol dire vivere in tempi e luoghi diversi.»

Tentare film inclassificabili, sperimentare narrazioni diverse, per Cioni non è una ricerca fine a sé stessa, anzi. «Io credo che anche il cinema più sperimentale e poetico sia politico. Politico è il fatto che ti impongono una rappresentazione della realtà che sembra immutabile, e invece a me va di spostare lo sguardo, ho voglia di smontare le cose. Non faccio mai un film “su” un soggetto, ma faccio un film perché ho incontrato delle persone o un luogo, e voglio approfondire.» Non limitarsi a osservare, insomma, ma mettere a punto documentari che siano come tagli, incisioni nella superficie liscia e compatta della realtà, per poi rivelare tutte le altre realtà possibili, mondi ipotetici e non ancora esauditi.

È così che Cioni utilizza i materiali d’archivio – frammenti di film di fantascienza, filmati d’epoca che ritraggono i feroci esperimenti di Voroneff o i discorsi di Mussolini: «Non uso l’archivio in senso documentativo, come prova o testimonianza, ma per le sue possibilità narrative.

In questo film volevo tenere la prospettiva fissa sul luogo e raccontare i vari tempi che si alternano, senza gerarchia, come se il presente fosse il futuro o il passato. Le immagini di archivio allora non entravano come frammenti di una ricostruzione storica, ma come porte su altri mondi. Alcune immagini si adattavano alla storia, certo, come nel caso delle riprese delle operazioni di Voroneff, altre le ho scelte soltanto per intuizioni: i film sono fatti anche di questo, di cose che non sai spiegare.»

Che questo approccio al cinema così libero e intuitivo sia anche il risultato di un’educazione così anarchica, coltivata in luoghi, città, persino lingue diverse? «Assolutamente» conferma Cioni, «io sono autodidatta, non ho mai frequentato scuole di cinema. Mi ha molto influenzato, negli anni ’80 e ’90, lavorare con danzatori, musicisti e coreografi, come Alain Platel. Ho fatto film con loro e per loro – film per spettacoli, performance, installazioni, dunque è come se avessi cercato di inventare un mio linguaggio a partire da esperienze diverse. E poi ho avuto la fortuna di frequentare il cinema di Bruxelles di quegli anni, incontrando persone come Chantal Akerman, Olivier Smolders, un circuito vivissimo di gente che lavorava sul tema del confine. Il Belgio del resto è un paese di confine, anche linguisticamente.»

Il brusio dalla sala si fa più consistente, le maschere si preparano ad accogliere il pubblico a fine proiezione. Io richiudo il quaderno, saluto Cioni che scompare nella città, e per qualche minuto resto per ancora seduta, in questa soglia che sta per sgretolarsi.

Riordino gli spunti preziosi che mi ha lasciato Dal pianeta degli umani, e mi domando se i paesi e le città di frontiera non rendano evidente qualcosa che se non fossimo distratti sarebbe esperibile ovunque: che ogni appartenenza è illusoria, che siamo solo spettri lungo sentieri tracciati da tempo, e forse fare film è prendere atto di questa inconsistenza, di questo poco che siamo.

Organizziamo le memorie per acchiappare un ordine e invece troviamo solo altri frammenti, un racconto che invece di chiudersi si allarga, e a noi non resta che inviare parole e immagini nel mondo nella speranza di essere almeno questo, schegge di un cristallo che rilucerà per sempre, e non ci dimentichi.