Il mondo da un oblò. Lettera dalla quarantena – 27

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8 Aprile 2020

Il contagio delle storie – 27

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 27

Il mondo da un oblò. Lettera dalla quarantena– Maria Izzo

 

Ciao, D.!
Immagino che a quindici chilometri dalle zone più colpite ci sia poco da stare allegri.Da qui, nell’isolamento domestico, i cinquanta chilometri (o quanti sono) che corrono fra Milano e Bergamo sembrano una distanza siderale.

Io guardo il mondo da un oblò e mi annoio un po’, quest’ultima parte è ovviamente è un eufemismo, la prima no. Perché casa mia in effetti è poco più di un oblò. Mi chiedo come uscirò da questa fase monastica. Secondo me, male, ma per il momento non sto dando testate al muro, non parlo da sola, non ho allucinazioni, quindi non ho ragione di preoccuparmi. Avrò sicuramente modo di farlo più in là.

Il paradosso di questo momento di reclusione è che, per la prima volta da quando vivo a Milano, la rabbia politica mi sta facendo sentire parte di una comunità.

E prendo la cosa così sul serio che mi pesa moltissimo non poter scendere per strada a urlare contro questa catastrofe politica e sanitaria. Tutto quello che possiamo fare è stare ad aspettare.

Chiusi come siamo, ognuno dietro i propri oblò, saremo in grado, una volta liberi, di andare a chiedere conto dei morti, della mala gestione, dell’avidità, dell’incapacità fatalmente mescolata al cinismo? Lo spero, ma ci credo poco.

Da qui, in isolamento, si fa davvero fatica a cogliere il rumore del mondo, delle fabbriche che continuano a produrre, della gente che cade e di quella rimasta che invece la piange. Io personalmente mi sono accorta dell’entità del disastro solo quando ho visto i convogli militari trasportare le salme fuori regione. Eppure seguo la conta dei nuovi casi e dei morti tutti i giorni, ma sono numeri e i numeri possono essere asettici.

Mi sono detta, guardando quella processione notturna: ci hanno rinchiusi, privati della libertà personale, ci hanno imposto di vivere in maniera iper-regolata e noi, con gradi diversi di serenità, abbiamo accettato questo ergastolo ostativo nello sforzo di salvare il bene supremo, che, per noialtri europei occidentali è la vita umana.

Ma la vita di chi stiamo salvando? Quelli che ho visto passare nei camion militari chi sono? Come si chiamano? Che facevano? Non sono vite? O forse sono vite che valgono meno?

Ho ripreso in mano Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano di Didier Fassin. Nel libro Fassin riporta Maurice Halbwachs, che scrive a sua volta: “Dimentichiamo che la morte, e l’età in cui questa arriva, deriva prima di tutto dalla vita, dalle condizioni in cui si è trascorsa, e che tali condizioni sono prima sociali che fisiche”. E poi ancora: “A ogni società corrisponde in generale la mortalità che le si addice” e che questa viene definita dall’importanza che una società attribuisce alla vita umana. E dal prezzo che le attribuisce.

La morte, fa eco Fassin, “è dunque la traduzione nei corpi di rapporti sociali ineguali nei quali la storia ha impresso il suo marchio”. Evidentemente  quelli che sono morti valevano poco o meno di altri. Sicuramente molto meno delle cause a cui sono stati sacrificati. Potere e denaro. Questo è il messaggio nascosto nella traccia lasciata di quella processione notturna.

Circola in giro l’idea secondo la quale dovremmo essere più concilianti e pensare a chi vive segregato sempre, a chi muore in guerra, a chi abita in luoghi dove le epidemie mortali sono frequenti come i nostri raffreddori. Forse sono orba io, ma non vedo una grande differenza fra chi rimane incastrato in un assedio e chi invece muore perché il padrone, con il benestare delle autorità, ha decretato che la produzione deve andare avanti.

E come al solito è finita in comizio, ma ora passo a cose più serie. Mi raccomando, anaffettività a tutto spiano! Tenete lontano tutto e tutti, tanto la gente tornerà presto a rompere i cxxxxx. E questo sarà il side-effect della ritrovata libertà…