Una passione tossica di Markijan Kamyš

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3 Settembre 2020

A volte la passione può essere tossica, nel caso di Markijan Kamyš non è una metafora

Aggiornandoci sulle novità ucraine sul prato dei giardini della Guastalla a Milano con il co-direttore di Q Code Mag, Christian Elia, parlavamo del libro di Markijan Kamyš Una passeggiata nella zona, pubblicato nella traduzione italiana per Keller edizioni.

Tutti e due avevamo il libro e tutti e due avevamo rimandando la lettura alle vacanze estive.

E così nel parlare del più e del meno nasce l’idea di scrivere un testo o una recensione — vediamo come va — firmata da quella che può definirsi, usando il termine coniato da Kamyš stesso, “coetanea dell’incidente”, e che tranquillamente può leggere sia la traduzione italiana che l’originale.

Un po’ diario di bordo, un po’ reportage, il testo Una passeggiata nella zona racconta l’esperienza personale dell’autore in veste di stalker o di passeggiatore solitario sui giorni, settimane, mesi trascorsi nella zona di alienazione di Čornobyl’ (la variante ucraina di Černobyl, usata anche nel libro).

Una passione tossica, un filo spinato che lega Markijan alla Zona lo costringe a tornare più volte in estate e in primavera, a ritrovare la sua pace interiore tra le Antenne di Čornobyl-2, i tetti dei palazzoni abbandonati e la chiesa ortodossa del paese Krasno.

Un posto dove l’autore scarica le sue rabbie e supera le sue paure. Distruggendo le sue paure, distrugge anche la zona, le sue staccionate per riscaldarsi d’inverno, “un lavandino (…) per noia o per disperazione (…) a pezzi con un mattone”, la distrugge come lei a sua volta ha distrutto le vite intere di una comunità e anche quella di suo padre, liquidatore dell’incidente.

La solitudine ed il paesaggio annientato conduce ad annientamento dell’io dell’autore, lo riduce fino a zero e da zero riparte per ritrovare di nuovo se stesso.

Kamyš, grazie all’ottima traduzione di Alessandro Achilli, ci regala un’immagine molto poetica, quasi romantica di un posto apocalittico.

Trovo molto coraggioso il suo impegno verso la Zona, un coraggio, spesso riscaldato dalla “vodka da due soldi”, che io, per esempio, non ho mai trovato, per quanto io abbia vissuto ai confini della zona di alienazione per diciassette anni.

Ho visitato i paesi vicini abbandonati, come Polis’ke, che ricordo ancora in tutto il suo fascino, i paesi spopolati, dove abitavano i parenti lontani, che venivano in visita dei cimiteri per le feste pasquali, ma non mi sono mai avvicinata più di tanto al cuore del disastro. Anzi, quella volta che mia madre andò per lavoro a visitare la Centrale, la sgridai per essere stata così imprudente.

Leggendo il testo pensavo: cosa sarebbe successo ai posti dove sono cresciuta se anche loro fossero stati evacuati insieme agli altri nel 1986?

I miei genitori, i miei zii, i nonni sono rimasti a vivere dov’erano, guardando passare le lunghe colonne degli autobus con i pereselenci (gli sfollati), accogliendo qualcuno in casa per una o due notti e ricevendo il documento dei “liquidatori”.

La mia zona 3 della contaminazione, invece, è stata rovinata diversamente: dai cosiddetti euroremont che dovrebbe rappresentare una ristrutturazione delle case all’europea: dalla economica porcellana cinese nelle vetrinette in sala e dalle carte da parati con le vedute dei posti lontani e così fiabeschi da non essere veri, dallo spopolamento, perché la gioventù andava via nella ricerca di un lavoro nelle grandi città.

I posti che sono rimasti fuori zona hanno avuto il loro declino, diverso, ma sempre declino. Nel testo di Kamys conosciamo un altro volto della Zona, un volto pur spopolato, ma molto umano.

La percepiamo come un entità che vive a sé, con le sue regole ed i suoi riti. Il posto dove lui torna per consumare la sua passione tossica, torna per se stesso, torna per tutti noi, che non possono o non vogliono più tornare. Sradicati per sempre dalle loro terre, lasciando le loro case, chiese, giostre e antenne.

Prypjat, dormitorio infantile - foto tratta da meteotrip.it