Baghdad Central

di

4 Febbraio 2021

Una serie televisiva, un noir nell’Iraq del post-Saddam

Per molto tempo è sembrato davvero impossibile, a livello mainstream, raccontare il Medio Oriente e la sua complessità fuori dagli stereotipi e dall’orientalismo.

In fondo, per decenni, i prodotti televisivi e spesso anche cinematografici ruotavano attorno a un asse determinante: l’arabo è un terrorista, con la kefiah, il kalashnikov e spesso una vecchia Mercedes bianca anni Settanta.

La ‘guerra al terrorismo’, negli ultimi venti anni, non ha fatto altro che alimentare questa narrazione tossica, che cancellava completamente un mondo intero, fatto di conflitti, interni ed esterni, di tensioni e dinamiche complesse, di identità sfaccettate e conflittuali.

Al netto di una produzione culturale che, nei saggi, nei romanzi e in un giornalismo competente, trovava qualche via di fuga, al netto di un ‘auto-racconto’ che sempre più riesce a portare il punto di vista dell’eterno oggetto del racconto, che si fa soggetto, e rivendica il diritto a raccontare la propria storia, le narrazioni di massa (cinema e televisione) restavano molto caratterizzate da clichè.

Per questo motivo la serie televisiva Baghdad Central è stata una piacevole sorpresa.

La prima, e per ora unica, stagione è stata trasmessa in questi giorni (sei episodi) da Sky. Già questa è una bella notizia, perché una serie televisiva che passa su un contenitore globale e di massa – e non magari su circuiti di qualità e/o di nicchia – che parla del conflitto in Iraq è importante.

A questo, inoltre, si aggiunge finalmente uno sguardo complesso. Per chi ha avuto la fortuna di raccontarlo quell’Iraq, quello del post invasione della coalizione internazionale guidata dagli Usa, ci sono tanti elementi profondi e raccontati bene, che toccano elementi chiave per capire le dinamiche che da quel momento in poi hanno generato dei processi chiave in Iraq e in tutta la regione.

Baghdad Central è la trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Elliott Colla, pubblicato nel 2014, professore universitario statunitense specializzato nel mondo arabo, che nel suo racconto ha unito fiction e realtà.

La vicenda ruota attorno alla figura di Muhsin al Khafaji, ex ispettore di polizia di Baghdad, interpretato dall’attore Waleed Zuaite, di origine palestinese e passaporto Usa. Ha perso tutto, il poliziotto: il suo lavoro, il suo Paese. La sua famiglia porta le ferite del regime di Saddam, con un figlio che è stato punito per aver detto quel che non doveva.

Ma Mushin non viene raccontato solo come il povero iracheno ‘liberato’, né come il potenziale fondamentalista. E’ un uomo, come tutti, è una persona che – come milioni di iracheni – ha creduto in un’invasione che raccontava di voler cacciare un dittatore feroce.

La serie racconta la prima fase, quella della delusione degli iracheni, quella della presenza militare occidentale che, errore dopo errore, perde il rispetto della popolazione locale, alla quale manca di rispetto per ignoranza, perché la guerra è uno schifo e per mancanza di una reale strategia post-invasione.

La famiglia di Mushin è lacerata da idee e scelte diverse, come tutto il paese, tra convivere restando sé stessi e lottare contro una liberazione che si è trasformata in occupazione.

Sia chiaro, la serie televisiva è in tutto e per tutto un prodotto Usa. Sono statunitensi l’autore della storia, scritta da Stephen Butchard, diretta dalla coppia Alice Troughton e Ben A. Williams, molti degli attori sono statunitensi di origine araba, ma riesce a raccontare un mondo in conflitto – interiore ed esteriore – con competenza e con capacità di tenere conto del punto di vista dell’altro.

L’Iraq è un teatro, devastato, dove vanno in scena mercenari e funzionari occidentali corrotti, soldati psicopatici e iracheni in vendita al miglior offerente, una sola moltitudine travolta dalla guerra e da un cambio di regime che – per capirci – non fu così drastico nel cancellare i livelli intermedi dello Stato neanche nell’Italia e nella Germania del post nazi-fascismo.

Non ci sono buoni e cattivi, ci sono vite nella tempesta. Non ci sono risposte facili a situazioni complesse, ma ci sono tutti i vettori di racconto che – sperando in una seconda edizione – affrescano le dinamiche che travolgeranno il paese, le opposizioni, dove i laici verranno travolti dai ‘fondamentalisti’ meglio armati e sostenuti da altri attori regionali.

Verrebbe da dire che sia la scoperta dell’acqua calda, ma è un successo portare a un pubblico mainstream, su un contenitore di massa, con un linguaggio di qualità e le corde di un noir di qualità, temi che per troppo tempo sono rimasti confinati a circoli ristretti incapaci di farsi ascoltare da tutti.