Si Chiamava Palestina

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21 Marzo 2019

“Si Chiamava Palestina”, da una poesia di Mahmoud Darwish, è la storia del dolore e della memoria di un popolo, da settantun’anni a questa parte. Di Cecilia Dalla Negra per Aut Aut Edizioni.

Da quasi un anno, ogni venerdì, a Gaza centinaia di ragazzi manifestano per il loro “diritto al ritorno”, il diritto al ritorno alle loro terre, la Palestina dal Mediterraneo al Giordano, quel diritto sancito dalla Risoluzione ONU 194 nel 1948 e mai e poi mai realizzato. Nonostante la sproporzionata repressione israeliana non si faccia mai attendere, da circa 50 settimane, i palestinesi scendono nelle strada, attraversano i campi, si avvicinano alla barriera elettrificata che serve da confine, in maniera non violenta, apolitica, apartitica. Sanno che non possono attraversarla, eppure nemmeno le pallottole sembrano fermarli. Bandiere in mano, e cuori e menti gonfi di dolore.

Già, il dolore. Non solo il dolore di vivere quotidianamente sotto un’occupazione che non accenna a finire, che viola ogni diritto di base e umilia ogni individuo. Non solo il dolore di vivere una vita tarpata, decisa dagli altri, e senza alcuna possibilità di scampo. Non solo il dolore di piangere i propri cari, sangue che continua a scorrere.

Se vogliamo parlare di Palestina, scrive Cecilia Dalla Negra, classe 1984, giornalista femminista e partigiana, una vita passata a conoscere la terra molto poco santa, non si può non parlare di dolore.

Ogni palestinese, da quel fatidico 15 maggio 1948, vive molteplici dolori. C’è il dolore di essere stati scacciati dalle proprie case, senza aver avuto nemmeno il tempo di prendere le proprie cose, di aver visto i propri familiari o vicini di casa uccisi sul posto, di aver vissuto la guerra in casa, e di aver cercato di salvare il salvabile scappando, se si era ancora vivi. C’è il dolore, ancora più grande, di aver perso – nel giro di qualche giorno e poi nel corso del tempo – la propria terra, la propria nazione, la propria identità. Di aver vissuto, come individui e come popolo, una delle più grandi ingiustizie dei tempi moderni, di aver assistito impotenti alle sue premesse storiche, dalla Dichiarazione Balfour alle narrazioni retoriche di “una terra arida senza popoli” e quindi perfetta per risolvere un drammatico conflitto di coscienza di un’Europa crudele, indifferente e insanguinata, e di essere rimasti, di colpo, senza più nulla. O addirittura, di non essere mai esistiti.

Un enorme, inimmaginabile, trauma, singolare e plurale, di cui non si è mai parlato abbastanza, e di cui certamente ora, tra colonie, accordi di pace e news che devono bucare lo schermo, si parla ancora meno.

Se andassimo da uno psicologo, ci verrebbe immediatamente chiesto di parlare dei nostri traumi. Paradossalmente, ai palestinesi non viene mai chiesto del loro trauma. Eppure, non si può cercare di comprendere la complessità della quotidianità palestinese senza andare a ricercare il suo trauma primario, la catastrofe, in arabo la Nakba.

Settantun’anni fa, la Storia scritta dai vincitori rimuoveva un pezzo enorme dal suo puzzle, centinaia di migliaia di persone, di storie, di vite, case di famiglia, villaggi, città e campagne, cinema, musei, forni e campi di ulivi. Chi fece le valigie, come raccontano i testimoni intervistati, non pensava che sarebbe stato “per sempre”, figuriamoci, torneremo appena i combattimenti saranno finiti. E invece la Storia ha preso forma. Ha cancellato, sostituito, rimosso, riscritto. Dai nomi delle città alle proprietà delle case. Dalle arance di Jaffa all’hummus Sabra. Dalle leggi degli assenti alle occupazioni di insediamento. Ogni giorno, da quel fatidico 1948, è stato un doloroso tassello di questo nuovo puzzle.

La Nakba, questo processo di dolore iniziato quei giorni e mai finito, poiché perpetuato in ogni singola conseguenza della catastrofe, è il convitato di pietra della vita di ogni palestinese, da tre generazioni. Ecco perché per parlare di Palestina da sempre, e sopratutto oggi, si deve parlare della Nakba.

E per parlare della storia di coloro che dalla Storia sono stati oppressi, è evidente che si deve fare un lavoro – non indifferente – di contronarrazione. E’ questa la ratio del lavoro di Cecilia. Spostando il focus, ripercorrendo tutti gli eventi storici, capitolo per capitolo, si comprende esattamente come il dolore della memoria e la memoria del dolore siano stati acuiti – come un trauma che continua a riaffiorare poiché continuamente rievocato nel presente – nel corso degli anni, colonia dopo colonia, occupazione dopo occupazione, checkpoint dopo checkpoint. E si capisce come non solo la catastrofe non sia mai finita, ma che non possa far altro che ripetersi ogni giorno, finché non sarà stata elaborata, affrontata, restituita.

Ecco perché, scrive Cecilia, non ci si può nemmeno avvicinare a pronunciare la parola “pace”, o, più realisticamente “accordo”, se non si prende in considerazione l’enorme dolore, individuale e collettivo, che dura da settant’anni, ogni giorno, ancora oggi. Ed ecco ancora che la Nakba, la madre di tutte le catastrofi, appare ovunque, dai simboli delle “chiavi di casa” che i profughi ancora conservano, alle file al checkpoint di Qalandia, ai fili appesi dei campi profughi in terra palestinese e all’estero, ai permessi negati, all’embargo di Gaza che dura da undici anni, e in ogni tempo e luogo da sempre è ciò che muove la resilienza quotidiana di milioni di donne, uomini e bambini. Muove il cuore di quelli che, ancora vivi, ricordano vividamente i giorni dell’esilio forzato, muove le gambe dei ragazzi che, incessantemente, da 50 settimane, manifestano il loro diritto al ritorno. Il loro diritto a far conoscere e riconoscere il proprio dolore.

“Si chiamava Palestina”, scrive Mahmoud Darwish in una commovente poesia, che dà il nome al libro. Nei suoi versi, un triste sentimento: se hanno diritto tutti ad esistere, su questa terra, dov’e’ il diritto dei palestinesi?

E allora diventa imperativo difendere – affiancando le nostre voci, le nostre penne, i nostri cuori, questo è il messaggio di Cecilia – questo inviolabile e incessabile diritto ad esistere, a ricordare, a prendersi cura di questo enorme dolore, a risolverlo una volta per tutte perché si possa finalmente parlare di pace.