Siria, il viaggio di Hafez

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19 Marzo 2021

Un’intervista lunga diciotto anni

In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.

“Puoi continuare a chiamarmi Hafez, non è cambiato molto, né per me, né per voi: in fondo siamo tutti dei fottuti Mohammed”. Ride, Hafez. Prima di tutto del fatto che, ancora, sei anni dopo, lo cerco per chiedergli in fondo la stessa cosa. Come va? E lui risponde con lo stesso dolente disincanto, con le stesse sigarette di sempre, con lo stesso – sincero – stupore verso un interesse giornalistico che neanche la nostra amicizia può spiegare.

Da studente universitario, laico e anarchico, ha sperato che l’avvento di Bashar al-Assad significasse un cambiamento rispetto al regime siriano. Deluso, è partito per l’Iraq come volontario per unirsi alla resistenza, nel 2004, periodo del nostro primo incontro, per combattere l’invasione della coalizione internazionale, ma è tornato indietro. Non era la sua battaglia, non era per far parte di una milizia confessionale che è partito. Il 2011, poi, lo ha travolto di speranze e di dolore e, deluso ancora una volta, è andato via, lungo la Balkan Route, fino alla Svezia.

A rileggere, oggi, l’intervista del 2015 viene freddo. Quel destino, in fondo, sembra lo stesso. Essere un rifugiato oggi in Svezia e prima nella tua stessa terra, un esiliato dal contesto, prima che dalla lingua e dalla cultura, come accade oggi.

“In fondo quel che ti ho detto nel 2015 è ancora valido. Viviamo di momenti. Il processo in Germania, contro due torturatori, è una delle poche buone notizie degli ultimi tempi. Spero che sia l’inizio di qualcosa, la fine di un’impunità. Ma non sarà facile. Guardo crescere i miei figli e ho il terrore che un domani mi chiedano perché sono profughi. E ho paura che, giorno dopo giorno, le mie ragioni diventino fragili. Ecco, quella sentenza, per me e per tanti come me, è importante. Dimostra quello contro cui combattevamo, quello che abbiamo tentato di fermare. E ci sono momenti, sì. Le proteste in Libano e in Iraq di questi anni, con tanti che chiedono di essere solo cittadini, senza una mandria confessionale alla quale giurare appartenenza, quello che è accaduto in Algeria e Sudan, in fondo, è anche merito nostro.

Di sicuro è un anno particolare – spiega Hafez – il decennale delle rivolte arabe, il ventennale della ‘guerra al terrorismo’ a settembre…i miei ricordi, quelli della mia generazione, mi sembrano una persecuzione. Ma so di averci provato.”

Oggi Diadiche è dedicato ad Hafez, ripubblicando l’intervista che gli ho fatto nel 2015. Perché, come dice lui non è cambiato tanto, ma in fondo è cambiato molto. E forse capire che qualcosa c’è, è fondamentale per andare avanti.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Gli Stati Generali il 14 novembre 2015

“Piove. Come sempre. Malmo è così: a volte sembra che ti piova anche dentro. Non riesco proprio ad abituarmi. Però va bene, perché non si nasce tagliati per l’esilio. Un senso di disagio permanente, in fondo, ti ricorda la tua storia”. Hafez vuole essere chiamato così. “Il mio nome non lo scrivere, la mia storia è complicata. Metti il nome del padre di Assad, una piccola provocazione. Magari a qualcuno viene voglia di capire cosa è stata capace di fare questa famiglia a un popolo intero”.

Hafez è siriano, rifugiato politico in Svezia, dopo il viaggio che milioni di siriani hanno iniziato nel 2011, verso l’Europa, quando possono permetterselo, o verso un altrove qualsiasi. Lui, però, ha una storia differente. Studente di medicina, parte volontario nel 2003 per l’Iraq. “Vuoi ancora sentire questa storia? Davvero pensi che interessi ancora a qualcuno? Per noi l’invasione dell’Iraq era quello che era: una brutale aggressione a un popolo intero. Lo stesso regime che per anni è stato un solido alleato di Europa e Stati Uniti diventa un nemico. E’ stato indecente credere alle motivazioni umanitarie. Un massacro è un massacro e basta. Partimmo in tanti, pieni di rabbia. Ma in realtà quell’entusiasmo non durò a lungo. La realtà dell’opposizione alla coalizione emarginò molto presto chi, come me, veniva da un percorso politico laico, progressista. Tornai a Damasco, deluso e ferito, nella gabbia di tutti i giorni”.

Una gabbia che nessuno ha saputo spiegare meglio di Samir Kassir. Giornalista e scrittore libanese, ucciso da un’autobomba a Beirut nel 2005. Il suo libro L’infelicità araba, edito in Italia da Einaudi, è il manifesto di una generazione a cui manca l’aria.

“Non è bello essere arabo di questi tempi. Nel mondo arabo il mal di esistere è la cosa meglio ripartita. E’ la zona del mondo dove, a eccezione dell’Africa sub-sahariana, l’uomo ha minori opportunità. A maggior ragione la donna”. scrive Kassir. “L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti. A iniziare dalla sensazione, molto diffusa e profondamente radicata, che il futuro è una strada costruita da qualcun altro”.

Un senso di claustrofobia, un’eredità storica, un’autorappresentazione che parte dall’accordo Sykes-Picot (con il quale le potenze occidentali disegnarono il futuro Medio Oriente dopo la Prima Guerra mondiale) e arriva a G.W.Bush, sempre nel ruolo della vittima. Un documentario di Michelangelo Severgnini e Alessandro Di Rienzo, del 2006, prodotto da PeaceReporter, lo spiega in modo magistrale questo sentimento. Dal titolo, Isti’mariyah, colonialismo, che racconta il sentire di una generazione. Storia di chi non riusciva più ad avere fiducia in un Occidente che troppe volte ha saputo solo mostrare il suo volto predatorio e pieno di contraddizioni, pretendendo democrazia e portando guerra. Parla di Shadi, ma potrebbe essere Hafez.

 

 

Perché un uomo come Hafez, che oggi ha 40 anni, è nato, vissuto e cresciuto con una certezza: l’assenza di alternative.

“In Siria, nel 2011, ci abbiamo creduto. Non lo nego, anche se oggi mi sento un ingenuo. Ho immaginato che una grande onda si fosse sollevata, che milioni di giovani arabi avessero preso in mano il loro futuro. Lo ricordate il discorso di Obama all’università del Cairo nel 2009? In fondo era quello che ci diceva: non faremo più gli errori del passato, non useremo la forza per la nostra agenda, ma vi sosterremo se ci proverete da soli. E lo abbiamo fatto, facendoci massacrare. Le parole d’ordine sono semplici, forse troppo per voi che siete abituati alla filosofia. Per noi era solo immaginare una vita senza corruzione, dove un lavoro lo trovi se sai fare qualcosa e non se tuo padre è nelle grazie del clan al potere. Dove, in un caffé, puoi dir la tua senza sparire nella notte. Dove le risorse dei paesi arabi non siano il conto privato all’estero di famiglie di satrapi, ritenuti grandi statisti, ma vengano distribuite a tutta la popolazione. Ho fallito ancora: nessuno ha appoggiato la rivoluzione siriana dell’inizio, lasciandola sprofondare in un incubo sanguinoso. Ho deciso che non posso più buttare la mia vita, ho colto l’unica opportunità che mi restava: farmi profugo, farmi esule. Perché altre opportunità non me ne hanno date”.

Molti ex compagni di Hafez, però, non sono andati via. Tanti di loro sono entrati nelle brigate, Daesh compreso.

“A voi manca un elemento chiave per capire la situazione: il discorso sociale. La matrice religiosa è forte, di sicuro orienta la leadership. Ma state sicuri che è la questione sociale quella che riesce, più di tutto, ad affascinare una generazione intera. Perché di redistribuir ricchezze, nazionalizzare i proventi della vendita delle risorse, dare servizi di base alla popolazione civile parlano solo loro. I discorsi che io, da giovane di sinistra, facevo all’università sono adesso diventata un’agenda in mano ad altri, per il nostro fallimento e per la vostra incapacità di sostenere le forze progressiste, in Siria come altrove. Guardo il mio Paese morire, attraverso una finestra di Malmoe, mi piove dentro. Sento che si prepara la ‘normalizzazione’ di Assad, ponendo l’eterna trappola a quelli come me: o accetti di vivere in una dittatura o sarai in balia del caos, del fondamentalismo e della violenza. Non doveva andare così, non è possibile che sia stata questa l’unica vita possibile”.

Il grigio, forse, come cifra comune. Almeno questo pensava Reyaad Khan, 20 anni, di Cardiff. Morto in battaglia in Siria. “Non capirete mai quel che succede se non riuscite a immaginare, se non vi immedesimate in questa War on terror generation. Bisogna comprendere il trauma profondo generato in chi ha vissuto la sua formazione negli ultimi tredici anni. Immaginate: un quotidiano vilipendio, una costante demonizzazione dei musulmani, che scorre su un nastro di storie che raccontano di morti, distruzioni, violenza pornografica, assenza di speranza. Immaginate che questa sia la vostra adolescenza”. Lo scriveva qualche giorno fa Alyas Karmani, impegnato da anni nel tessuto sociale lacerato delle periferie delle città britanniche, in un bell’articolo pubblicato dal The Independent.

Karmani parla di Reyaad e di tutti gli altri. Sono tanti. Sono quei ragazzi della periferia grigia dell’Europa e del mondo ricco, periferie che nessuno è mai riuscito a colorare di speranza. Perché Reyaad, prima di morire in battaglia, era stato intervistato da un programma televisivo britannico, raccontando i sogni infranti di un ragazzino. I sogni di chi è nato in Gran Bretagna, ma scopre che anche se suo padre si è spezzato la schiena per anni, dicendo sempre sì, non alzando mai la testa per protestare, non è riuscito a rendere suo figlio uguale agli altri.

Perché si cresce e si capisce che non è un documento (quando c’è, perché in Italia non c’è) che rende tutti uguali di fronte al futuro. Non sei davvero francese, inglese o americano.

Sei sempre Reyyad, non potrai mai immaginare di diventare altro, di avere le stesse opportunità dei tuoi coetanei bianchi e di buona famiglia. Perché essere musulmano diventa uno stigma e allora la scelta si fa piccola, claustrofobia: rimuovere tua identità o pagarne  il prezzo, portarne il peso. Ed ecco che Reyaad, davanti al giornalista, parla dell’orrore delle guerre per la libertà, di società ingiuste, di frustrazioni. E magari la soluzione la immagini nelle colonne dei pick-up di Daesh. Perché ti fai convincere che non ci sarà riscatto senza violenza. Ti lasci affascinare da chi ti promette una società più giusta, laddove quella che si pensa giusta ti ha tradito a Guantanamo e ad Abu Ghraib, ti tradisce ogni giorno abbandonandoti in quelle periferie.

I Rayeed sono tanti, come racconta ancora il Guardian, in una dolorosa Spoon River della generazione perduta, di quei ragazzi che non hanno più trovato una speranza. Abdullah, Amer, Jaffar e tanti altri. Facce da bambini, a volte.

Che sono nati altrove, portandosi appresso l’infelicità araba, nelle valigie di cartone dei loro genitori. Un fardello condiviso con Hafez e tutti gli altri che sono rimasti, in Siria, in Egitto o altrove. Tanti, troppi che sognano un futuro non grigio, scambiandolo per il nero di Is o di altri, credendo a chi promette giustizia sociale, lotta alla corruzione, protezione, libertà. Non è così, è ovvio, ma se non si coglie la fascinazione che questo mondo sta esercitando, se non ci sarà un orizzonte altro da offrire ai Reyaad e agli Hafez del mondo, se non si ascolta la loro domanda di giustizia, il grigio diventerà nero. In un attimo.

 

Illustrazione di Anna Benarrosh, artista visuale corso - marocchina, di base a Parigi