Colombia, tra proteste e pace

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7 Giugno 2021

La situazione nel paese e le proteste degli ultimi tempi

Porta ancora su di sé i segni del passaggio del Covid. Non sa bene dove l’ha preso, forse durante il volo, prima ancora di arrivare in Colombia, sta di fatto che le due settimane passate in totale isolamento in una stanza nella cittadina di Apartadò, nel nord ovest del paese, tra gennaio e febbraio, nel corso della seconda ondata, non sono state affatto semplici: il virus le ha preso lo stomaco e il viso è scavato, la perdita di peso ancora evidente.

Ciò nonostante Silvia De Munari, 34 anni, originaria della provincia di Vicenza, volontaria dell’Operazione Colomba di lungo corso e appena rientrata da Roma, dove è stata audita in Commissione Affari Esteri, è pronta a ripartire, a fine giugno, se i documenti saranno a posto.

“Adesso per entrare in Colombia ci vuole il visto – dice – quindi tutto si complica un pò, ma conto di rientrare a breve”.

Le tensioni nel paese, attualmente, sono ancora elevate a causa delle manifestazioni iniziate a fine aprile contro un progetto di riforma fiscale, poi ritirato dal governo. Intanto, però, una cinquantina di persone sono morte a causa della violenza della polizia, più di mille sono state arrestate arbitrariamente e diciotto hanno subito violenza sessuale.

Silvia è cosciente di operare in un paese difficile e violento, visto che è dal 2013 che fa la pendolare con la Colombia e la comunità San Josè de Apartadò, ma è lì che vuole tornare, ed è lì che la attendono i campesinos che dal 1997 hanno organizzato una resistenza pacifica nei confronti dello sfollamento forzato a cui sono costretti i contadini.

“E’ un gruppo di contadini che ha scelto di vivere in mezzo al conflitto senza farne parte e in modo disarmato – spiega Silvia – in un paese in cui scegliere di stare da una parte o dall’altra significa diventare bersaglio dell’altra fazione armata, in un conflitto interno che gli storici fanno risalire al 1964 e che ad oggi conta più di 260.000 morti e 90.000 desaparecidos”.

Operazione Colomba, di cui Silvia fa parte, nasce nel 1992 dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.
Inizialmente ha operato in ex-Jugoslavia dove ha contribuito a riunire famiglie divise dai diversi fronti, proteggere (in maniera disarmata) minoranze, creare spazi di incontro, dialogo e convivenza pacifica.

L’esperienza maturata sul campo ha portato Operazione Colomba negli anni ad aprire presenze stabili in numerosi conflitti nel mondo, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente coinvolgendo, tra volontari e obiettori di coscienza, oltre 2.000 persone.

Operazione Colomba è un progetto aperto a tutte quelle persone, credenti e non credenti, che vogliono sperimentare con la propria vita che la nonviolenza è l’unica via per ottenere una Pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

“Tra gli attori coinvolti attualmente nel conflitto, c’è un po’ di tutto – spiega Silvia – gruppi paramilitari, l’esercito di liberazione nazionale, una parte delle Farc (Forze armate Rivoluzionarie della Colombia) che hanno deciso di non rispettare gli accordi del 2016 con il governo, insomma tutti questi attori armati vogliono controllare una parte del territorio,  per il narcotraffico, ma non solo, la Colombia, non va dimenticato, è un paese ricco di risorse naturali, delle quali viene spogliato dalle politiche neoliberali e predatorie di molti paesi”.

Nessuno escluso, nemmeno il nostro. “Uno dei motivi di sfollamento ci riguarda da vicino – spiega – ed è quello di un ente elettrico italiano, l’ENEL, che vuole costruire una delle più grandi dighe idroelettriche e naturalmente, per “convincere” i contadini ad andarsene utilizza anche i gruppi armati, poi c’è il tema del narcotraffico e non siamo esclusi nemmeno da quello, visto che una delle principali piazze europee in cui ne è sancito il prezzo è Milano, con tutte le connessioni con le organizzazioni criminali che si possono immaginare; infine ci sono gli interessi legati alla posizione geostrategica della Colombia, come ‘l’asse bananero’, che coinvolge Chiquita, la grande multinazionale delle banane,  giudicata colpevole negli Usa per aver finanziato gruppi paramilitari che hanno ucciso dei sindacalisti”.

Ma quale ruolo può avere un gruppo di volontari disarmati in una condizione di conflitto perenne? Silvia risponde citando Cristina Bautista, una leader indigena assassinata nel 2019: “Li aiutiamo a resistere, perché se parlano delle ingiustizie di cui anche noi occidentali siamo colpevoli, rischiano di venire uccisi, se tacciono pure, allora parlano. E noi siamo al loro fianco, una presenza internazionale che affianca, non che ha delle soluzioni, li sosteniamo in un processo di resistenza o di liberazione, come lo vogliamo chiamare, nonviolenta, che loro però portano avanti autonomamente in un’ottica di economia solidale”.

E l’accompagnamento è condivisione: ”La nostra settimana-tipo, almeno dal martedì al venerdì – spiega Silvia –  è fatta di spostamenti, cioè dove devono andare i contadini andiamo anche noi, sempre monitorati, naturalmente, sempre almeno in due, con la maglia arancione di riconoscimento, il telefono satellitare, l’amaca, due muli e via per la selva colombiana nel perenne caldo umido. E’ triste pensare che abbiano bisogno di noi, nel senso che la mia presenza, la mia vita vale più di quella di uno di loro, come se la voce di un internazionale avesse più forza”.

“Un’utopia? Può darsi, ma io preferirei chiamarla coerenza e ha portato la comunità di San Josè ad avere riconoscimenti da premi Nobel, dall’ONU, dall’Unione Europea, diciamo che ha creato un modello, anche dal punto di vista economico perché produce prodotti che ricevono la certificazione Fair Trade e che, come le fave di cacao, riescono a vendere alla Lush inglese, quindi, nel loro piccolo, poco più di quattrocento persone, riescono ad ottenere una commercializzazione internazionale, sempre restando coerenti”.

Lo scorso 23 marzo la Comunità di Pace di San José de Apartadó ha festeggiato i suoi ventiquattro anni di vita e di lotta. Una resistenza senza eguali quella della Comunità di Pace capace di trasformare in speranza il dolore di un conflitto che da anni segna corpo e anima di questi contadini e contadine.

Anche quest’anno hanno ripercorso alcune tappe della loro storia con la lettura della costituzione della Comunità, con le canzoni che rimbalzavano note di resilienza e sacrificio, con il loro inno che sin dall’alba riecheggiava tra le colline e con le parole di chi non c’è più, parole registrare anni or sono durante interviste spesso in Paesi lontani, con microfoni gracchianti che non hanno impedito però che si sentissero chiare e ben definite le parole: giustizia, pace e verità.

La gente si è raccolta al portone d’ingresso stringendo tra le mani ed il petto le foto di chi ha dato la vita per questo sogno di libertà; tutti insieme hanno raggiunto i luoghi dove ancora una volta in questi ultimi mesi sono state uccise delle persone innocenti. Persone che non erano della Comunità ma che meritavano una preghiera, un pensiero… perché l’oblio uccide due volte.

Per rimarcare ancora più forte il senso del legame tra tutti loro e la terra, il giorno precedente al Compleanno, la Comunità ha dato via alla Fiera del Mais.

In poco tempo e con molto entusiasmo hanno fatto di San Josecito della Dignidad una vera e propria galleria di esposizione dei frutti della terra che ciascuno portava dai propri campi e dalle proprie case. Ma il grande protagonista è stato il Mais.

Fin dalle prime ore del mattino, infatti, le donne hanno iniziato a far bollire e tritare il mais per trasformarlo durante la giornata in deliziose arepas, pan de queso, mazamorra, colada, bollo, peto….

Ventiquattro anni di amore e di voci incessanti che denunciano i soprusi e le violenze; anni di difesa del territorio oggi a rischio più che mai di essere perduto: perdere la terra è per loro perdere l’anima, la vita.

Sembra quasi un’oasi nel brutale mondo colombiano, sicuramente è un unicum, ma non senza grandi sacrifici e paure da parte dei campesinos.

“La comunità da 25 anni è uno dei principali nemici dello Stato colombiano – spiega Silvia – questo significa essere sottoposti a enormi pressioni. Le vittime negli anni sono state numerose e personalmente ricordo almeno un paio di occasioni, in cui la tensione si è fatta altissima, in particolare il 29 dicembre 2017, quando un gruppo di paramilitari, in abiti civili, è riuscito a penetrare nella comunità e voleva colpirne il responsabile, Gèrman, lui ha intuito, mi ha chiamata, ho capito soltanto dal suo tono che stava succedendo qualcosa e ho iniziato a correre verso il magazzino, ho visto un ragazzo che aveva la pistola puntata al collo, ma Gèrman non c’era, poi da dietro, con un po’ di fortuna e scaltrezza è riuscito a disarmare l’uomo, ma in quel momento sarebbe davvero potuto succedere di tutto. Certo, sono episodi che colpiscono, ma mi rendono ancora più convinta di voler essere lì e non altrove”.