Una storia di debito

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24 Febbraio 2020

L’ottava puntata del Glossario del Capitalista Moderno riflette sull’assenza di un’unione fiscale nell’Eurozona e sul caso greco

La lotta del capitale contro il capitale, del lavoro contro il lavoro, della terra contro la terra provoca uno stato febbrile nella produzione che, in esso, capovolge tutti i rapporti naturali e razionali. Nessun capitale può resistere alla concorrenza dell’altro se non lo si porta al massimo grado di attività.
Friedrich Engels, Lineamenti di una critica dell’economica politica, 1844.

Every day, several times a day, a thought comes over me.
I owe more debts than I ever can pay back more money that I’ll ever see.
I walk around the streets of Coney Island, I look through the windows of every store.
I peep through the hallways and the doorways and I think of this debt I owe
The Debt I Owe, Woody Guthrie

La settima puntata si è conclusa discutendo dell’importanza di un’unione fiscale come strumento politico (prima ancora che economico) per garantire la crescita di un sistema fatto di aree più ricche e aree meno ricche.

Ce lo dice il buon senso e ce lo dice soprattutto la storia d’Italia, appunto come abbiamo visto nell’episodio precedente di questa rubrica. Anche gli Stati Uniti, per citare l’esempio più noto, funzionano così: gli Stati più prosperi finanziano, via governo federale, quelli più poveri, secondo uno spirito di “solidarietà nazionale” in virtù del quale ciò che conta – ci venga consentita l’espressione – è l’”essere americani”, la condivisione di una bandiera, di uno spirito, addirittura di un sogno (the American Dream!).

Tornando all’Unione europea, invece, l’unione fiscale è un tema tanto dibattuto quanto delicato, perché appunto va a toccare nervi scoperti e sensibilità nazionali. Potrebbero per esempio i tedeschi accettare un’unione fiscale in cui parte delle loro tasse sono trasferite ad Atene per perequare una serie di squilibri economici?

La storia degli ultimi dieci anni ce ne fa dubitare e per chi ha buona memoria non sarà facile ricordare quanto delicato sia stata la questione greca per la politica interna della Germania di fronte ai malumori dei contribuenti nazionali.

 

 

Come abbiamo brevemente raccontato nella puntata precedente, la migrazione può essere anche intesa come un meccanismo per ridurre le disparità tra due aree economiche. In effetti, la migrazione greca verso la Germania è aumentata (da dati dell’Istituto statistico tedesco, il numero di persone di origine greca in Germania è passato da 341.000 nel 2009 a 438.000 nel 2017), ma è difficile paragonare questo flusso migratorio alla migrazione sud-nord del nostro Paese che ha contribuito a rendere possibili i nostri “Trenta Gloriosi”.

Sempre facendo riferimento al caso italiano, migrazioni e trasferimenti del governo centrale hanno di fatto impedito che si innescassero meccanismi che nel settimo episodio abbiamo chiamato di “svalutazione interna”, ossia di contrazione salariale e dei prezzi.

Se l’offerta di lavoro non aumenta o addirittura diminuisce a seguito della emigrazione, difficilmente, infatti, i salari di chi rimane si riducono; se arrivano fondi dal governo centrale per le zone meno ricche, è possibile assumere a salario pressoché invariato. A ciò si aggiunga che l’istituto della contrattazione collettiva nazionale non consentiva di diminuire i salari meridionali relativamente a quelli settentrionali.

Sebbene alcune stime parlino addirittura di mezzo milione di emigranti greci “post 2010” (soprattutto giovani), invece in Grecia la svalutazione interna c’è, eccome: i salari reali greci si sono contratti di circa il 15 percento e il potere d’acquisto dei redditi greci è diminuito mediamente del 10 percento.

Se la teoria dominante sostiene che la svalutazione interna sia un meccanismo di riequilibro fra disparità regionali, pare invece che questi dati non siano sufficienti per colmare il divario della periferia rispetto al “centro” dell’eurozona o al resto del mondo.

Anzi, pare che a tal fine di svalutazione interna ce ne voglia persino di più (che è poi, nei fatti, la richiesta della cosiddetta Troika e della teoria economica mainstream).

 

 

La svalutazione esterna – ossia del tasso di cambio – avrebbe avuto nei primi anni Duemila un grosso vantaggio rispetto a quella interna. Socialmente, come sappiamo benissimo noi italiani che più e più volte ne abbiamo beneficato in passato, la svalutazione esterna come strumento di riequilibrio dei conti con l’estero ha un costo (perché ogni politica comporta dei costi) inferiore rispetto alla svalutazione interna: anziché ridurre salari e prezzi in casa propria, si riduce il prezzo dei propri beni e servizi all’estero. Tuttavia, come ben sappiamo, questa strada non è percorribile: c’è una moneta unica, l’euro.

Esistono i Fondi Strutturali Europei, ma – al netto di ogni considerazione sul loro utilizzo – essi non paiono sufficienti per il raggiungimento di tali obiettivi di politica macroeconomica.

Si sarebbe potuto seguire la via tedesca, ovvero far crescere i salari a ritmi inferiori rispetto a quelli della produttività del lavoro, come in linea di principio è stato fatto. Tuttavia, non bisogna dimenticare che questa strada è più facilmente percorribile quando il livello dei salari è già elevato (a quel punto è possibile farli crescere lentamente – lavoratori e sindacati diventano più “concertativi”).

Inoltre, come abbiamo già precisato nella puntata precedente, se tutti facessero lo stesso, nessuno avrebbe un vantaggio competitivo (il costo dei miei beni e servizi diminuisce, ma pure quello dei miei competitor, in un potenzialmente infinito gioco al ribasso), e il solo risultato sarebbe un ulteriore drammatico spostamento della distribuzione a sfavore dei lavoratori, con conseguente aggravamento su scala internazionale del problema della domanda aggregata, ovvero della realizzazione dei profitti.

Alla Grecia, quindi, non è rimasto che un mix di indebitamento e svalutazione interna: chiedere euro in prestito al centro dell’eurozona (come è stato per i tre programmi del 2010, 2012 e 2015) e poi fare svalutazione interna nella speranza di poter restituire quei quattrini. Il resto della storia lo conoscete.

Invitiamo a questo punto il lettore a ripensare a quelle che abbiamo definito “risposta americana” e “risposta tedesco-cinese” alle contraddizioni del capitalismo nelle prime uscite di questo blog. I capitalisti americani pagano poco i lavoratori e poi le banche concedono i prestiti necessari a smaltire la loro produzione per finanziarne i consumi (una strategia fondata sul debito interno). I capitalisti tedeschi pagano poco i lavoratori e poi le banche tedesche erogano prestiti agli stranieri per assorbire la produzione tedesca (una strategia fondata sul debito estero).

Il debito allora, interno o estero che sia, come elemento comune alla contraddizione del capitalismo, come elemento di sopravvivenza dei capitalisti che permette loro di vendere nonostante il peggioramento della distribuzione. Prestando a casa propria o a casa di altri. In un caso come nell’altro il creditore presta al debitore perché questo continui ad acquistare.

Finché il debito non ti strangola, il gioco è perfetto. Solo che, prima o poi, il momento arriva, come ci hanno insegnato la crisi del 2007-2008 o quella dell’eurozona, insieme all’imbarbarimento cui assistiamo quotidianamente e allo smantellamento del sistema di welfare.

Ci interrompiamo qui, per riflettere sulla fine dei Trenta Gloriosi e sui mutamenti socio-economici degli ultimi quarant’anni nelle puntate a venire.