Genova G8. Fuoco, allarme, nemici. Sveglia!

Le giornate genovesi sono storia, oggi è tempo di agire

La memoria è preziosa, il ricordo personale in questi giorni dell’anno si fa collettivo per chi è stato a Genova nel 2001. E però in questi anni continuo a incontrare giovani, nati dopo il 2001, alcuni interessati e che chiedono, altri no. Ma come me, molti dei testimoni e dei cronisti o avvocati o consulenti di archivio vengono cercati per sapere cosa è stata Genova. Al di là delle violenze, dell’assassinio di Carlo Giuliani, delle torture. Certo; quello rimane il punto forte nell’immaginario visivo.

Negli stessi social percepisco, in questi giorni, il fresco stupore di chi torna a raccontare il 20 luglio con quella sorpresa che solo quando non lo hai vissuto puoi avere. È diverso e però incredibilmente interessante. Siamo stati, noi che c’eravamo, presenti e abbiamo visto. Ma le persone nate dopo il 2001 rivivono quelle ore con noi, attraverso i libri, gli audio, i film e le serie tv, i podcast, e oggi tornano su dei particolari che abbiamo raccontato allo sfinimejto e che per loro suonano nuovi. E questo è bene, perché ritornano su passi che rischiano di scomparire, altrimenti.

Lasciatemi dire che quelle giornate, avevo 32 anni, sono impresse a fuoco nella mia memoria, compresa la strumentazione tecnica e le soluzioni che avevamo trovato a Radio popolare per trasmettere. E che il dolore, la rabbia, l’impotenza che si trasforma in rivolta sono immagini che girano ancora nella mia mente. Ma di più di quei giorni, eccetto un saluto alla famiglia Giuliani e un abbraccio particolare a Heidi, Giuliano ed Elena e Fabrizio, non ricorderò. Perché è storia, perché è a disposizione di tutti e tutte.

OGGI

Oggi guardo i trentenni e anche i ventenni e mi chiedo cosa sappiano di quello che ho imparato alla fine del Novecento: difendere anche con il corpo i miei diritti, in una cornice oggi stravolta dal digitale, dalle Big Tech e identità ormai depredate dai social, individualismo alle stelle, difficoltà di trovare spazi di gioco, divertimento e confronto. Spazi politici, intendo, che non vuol dire luoghi di divertimento e di assenza, ma di condivisione anche di pensieri politici e pre-politici, collettivo che vive di piccole simbiosi, la certezza che non sei solo e sola a combattere contro il capitalismo estrattivo, sempre più sinuoso, sempre più ingannatore. Non sono tempi facili: paradossalmente, era più facile ventiquattro anni fa’.

Oggi i diritti sono in recessione. Dovunque. In Italia il pacchetto sicurezza minaccia molte libertà e promette autoritarismo. Il lavoro rimane troppo centrale nella nostra società, con più precarizzazione, meno diritti, meno salario, meno potere di acquisto, più ansia, angoscia, solitudine e divario economico.
Le guerre sono in aumento, il genocidio palestinese ci conferma che non esiste più l’Onu, al di là delle proprie inefficienze, semplicemente perché vince il più forte, un criminale di guerra che fa delle armi il modo di restare in sella a Tel Aviv, un miliardario che è di nuovo presidente di una potenza militare capace di cambiare parere e muovere la propria sintassi in maniera confusa, creando il caos nella comprensione, nell’analisi, nel cercare di capire come sia meglio affrontare anche dal punto di vista delle notizie e del giornalismo (i mercati reagiscono e i dubbi della speculazione dolosa sono più che reali nelle inchieste). Tutto è profitto, ma proprio tutto. Della spinta romantica degli ideali è rimasto troppo poco, anche sulla parola pace. I pacifisti, quelli che pacem facere, cioè le persone attive per la pace sono il bersaglio preferito delle penne imbecilli sotto padrone che fanno audience. Tornano i detti di chi trucidava a fil di spada, si vis pacem para bellum, che verrebbe quasi voglia di mettere Giorgia Meloni, i bellimbusti della Nato, i Merz che ringraziano Israele e Usa per fare il lavoro sporco con l’Iran e soci e socie in un campo di battaglia con almeno una quarantina di cadaveri appena uccisi, con i loro sversamenti di liquidi corporei e il sangue e le amputazioni e i fori di entrata o il fuoco del fosforo che non si spegne mai nella ferita e l’odore della carne bruciata, il fumo, le grida e la paura. Altro che citazioni più o meno colte, o dichiarazioni incravattate in doppiopetto.


E noi, come società, in Europa, siamo sempre più analfabeti, incolti e livorosi, dentro nazionalismi sovranisti imbecilli che giocano sulla pelle di chi è nelle fasce di sofferenza per propagandare odio verso chi sta male come loro, quelli che li votano. Ma che viene da cento o mille chilometri più in là. 
Insomma, chi vota, una gran parte, vota per complicarsi la situazione personale, perché le caste di chi governa sono un mondo parallelo, fatto di vite diverse, di preoccupazioni che non riguardano la fine del mese, ma il potere personale, spesso anche economico, e perché è sparita una vecchia parola così preziosa come la ‘coerenza’. La politica ha perso coerenza cedendo il passo al capitalismo sfrenato e a narrazioni smaltate di grandi valori e concetti, democrazia come panna montata da mettere dappertutto e che deve piacere a tutti e tutte. O pece nera, come quella della paura dell’altro, da spargere con roboanti slogan ingoranti da applicare alla Goebbels, la goccia che scava, sulle piattaforme belle e pronte delle Big Tech, chè finalmente abbiamo capito a che cosa servono. Ci mettiamo in fila felici per finire nel tritacarne così ben descritto in una scena decisamente azzeccata di The Wall, Pink Floyd.

FUOCO; NEMICI; SVEGLIA!

In un libro che non cito, per non entrare anche lì nella divisione destra sinistra sugli autori, esisteva un semplice modo di allertare tutta la comunità. Lo facevano in realtà anche i nostri avi con le campane e prima ancora in altre regioni con i corni, proprio come nel sopracitato libro, con tonalità che dicevano all’orecchio collettivo che era tempo di allarmarsi: fuoco, nemici, sveglia!

Questo è il tempo di far risuonare quei corni, o percuotere le campane, perché è davvero ora di svegliarsi. Esiste, in gran parte di chi potrebbe ribellarsi, una caratteristica demotivante che lo rende spettatore e non attore. Non che sia facile esserlo, attori. Perché la deriva autoritaria si basa sulla soppressione dei diritti e perché ribellarsi costa. Costa a livello personale e costa anche a livello di difesa (vedi la voce avvocati e spese legali e giorni di carcere o da dedicare alla difesa).

Genova insegnò quella cosa, che oggi pare irripetibile, ma lo sembrava anche prima di quei movimenti, all’inizio. Una saldatura fra le diverse anime di lotte differenti, con un grado di spogliarsi del protagonismo che troppo spesso assumono le lotte verticali, in omaggio a un ambiente capace di ospitare tante e diverse istanze. 

Quando nel libro ‘Genova per chi non c’era’ (edizioni Altreconomia) ho raccolto testimonianze di allora da riportare a chi non era ancora nato nel 2001, forse questo era l’aspetto centrale del saggio, almeno nei propositi. Far vedere che era stato possibile. Ci avevano massacrato e distrutto oltre che fisicamente anche psicologicamente, ma io non credo che abbiano vinto, alla fine. E non perché io sia un ottimista, ma perché se vi guardate attorno e considerate l’enorme quantità di germogli di un vivere diverso e alternativo che esistono, allora forse il problema è che non siamo più capaci di fare rete politicamente e di imporre il nostro punto di vista.

Sulla deriva autoritaria la mia intervista a Roberto Cornelli, criminologo all’Università di Milano, autore di un articolo su Il Diario di Winston

DISSENSO, CONFLITTO, RIPRENDERSI IL PRESENTE


Dico imporre appositamente, perché vi sarebbe anche da sfatare il mito che la non violenza sia arrendevolezza. La non violenza non prevede di evitare il dissenso e il conflitto. E in ogni caso, come è tangibile nel pacchetto sicurezza del governo di destra, anche la non violenza viene punita grazie all’inasprimento di pene per chi osa discutere con una divisa, oltraggio!, e per chi opera una manifestazione come quelle di Ultima Generazione. 
Oggi, dal sistema scolastico, alle dichiarazioni dei ministri, sempre minacciose, sempre punitive, allo schema di lavoro, la subordinazione, l’essere ricattabili, l’essere angosciati, soli, spaventati, spersi se non abbracci l’unica via dei volti sorridenti di chi si iscrive e concorre allo sviluppo dei giganti che regolano il capitalismo, ecco oggi abbiamo bisogno di reagire
Di ribellarci.
Non come il Novecento ci ha raccontato, ma come gli anni Duemila possono farlo e qui mi potrei anche sforzare di scrivere cose intelligenti, ma la verità è il testimone passa decisamente a chi deve essere protagonista del suo tempo. C’è un gioco di squadra fra generazioni, non ci sono cattivi maestri, ma collaborazione.

Il messaggio che in questo 20 luglio preme dare è che è ancora e sempre possibile, difficile, ma possibile. E lo si può fare solo insieme, reagendo. Prendendoci la reponsabilità del presente per il futuro, in una piattaforma comune, unendo forze e risorse.

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