Dall’attacco alla democrazia al banco degli imputati

Il 18 febbraio scorso il procuratore generale della Repubblica Federale Brasiliana, Paulo Gonet Branco, ha incriminato l’ex presidente Jair Bolsonaro con l’accusa di aver dato vita ad un’ “organizzazione criminale” che attraverso l’uso della violenza ha tentato di “impedire il regolare funzionamento degli organi della Repubblica e deporre un governo legittimamente eletto.”

L’imputazione, in breve, è quella di tentato colpo di Stato e sovvertimento dell’ordine democratico come era già stato anticipato dal rapporto investigativo, presentato lo scorso novembre. Nelle quasi novecento pagine che esaminano documenti sequestrati e intercettazioni, la Polícia Federal svelava una rete cospiratoria che oltre a Bolsonaro includeva anche ex ministri e numerosi militari. In totale 33, tutti accusati insieme all’ex presidente.

Sebbene la maggior parte dei fatti indicati nel rapporto risalgano alla fine del 2022, nell’atto di incriminazione il Procuratore ha sottolineato come il piano di rovesciare l’ordine democratico fosse in atto da più tempo.

Secondo Gonet Branco, Bolsonaro aveva adottato, nei suoi discorsi pubblici e nella sua comunicazione sui social, un tono che lasciava intendere una frattura istituzionale già a partire dal 2021, scagliandosi contro i tribunali superiori e contro il sistema elettorale a urna elettronica.
Questi attacchi agli organi dello Stato avrebbero dovuto inculcare nei sostenitori politici e nella società in generale, un sentimento di ingiustizia e indignazione che avrebbe reso accettabile, e finanche sperabile, il ricorso alla forza qualora il risultato elettorale non avesse riconfermato la carica di Bolsonaro
.

Gonet Branco mette in luce come l’ex presidente abbia contribuito in prima persona a creare una “narrativa infondata di frode”, con l’evidente obiettivo di screditare il sistema elettorale democratico, e a diffondere discorsi di odio e informazioni false al fine di cementare i consensi contro una presunta minaccia di sinistra attraverso pratiche intimidatorie fatte non solo di fake news e falsi allarmi, ma anche di attacchi personali, che la Polícia Federal ha definito milícia digital.

Una strategia rivelatasi fallimentare data la sconfitta di Bolsonaro alle urne. Sconfitta, del resto, molto risicata che ha contribuito ad alimentare ancora di più la determinazione del movimento antidemocratico.
Secondo le prove raccolte dalla Polícia Federal, dopo aver preso atto della vittoria di Lula al secondo turno, un gruppo di militari delle forze speciali, conosciuti come Kids Pretos, si sarebbero riuniti, il 12 novembre 2022, nella residenza del generale riservista Walter Souza Braga Netto (ex ministro della difesa) per discutere il progetto di colpo di stato.

Un piano quasi perfetto

Tutto avrebbe dovuto avere inizio con un decreto presidenziale, poi soprannominato “decreto golpista” con il quale Bolsonaro, facendo leva sullo scenario di malcontento e instabilità sociale, avrebbe rotto definitivamente con le strutture democratiche, smascherando le presunte interferenze del potere giudiziario sul processo elettorale, dichiarando lo stato di assedio e facendo arrestare Alexandre de Moraes, presidente del Tribunal Superior Eleitoral che si era rifiutato di accogliere la richiesta di indagine per frode voluta dal presidente uscente ormai sconfitto.

Perché il piano andasse a buon fine, oltre al sostegno popolare era fondamentale anche quello ben più importante delle Forze Armate. Il 28 novembre, a Brasilia, venne organizzata una riunione clandestina nella quale alcuni integranti dei Kids Pretos pianificarono la strategia per persuadere l’alto comando militare, e in particolare l’allora Comandante dell’Esercito, generale Marco Antônio Freire Gomes che si era già mostrato contrario al piano. Freire Gomes, oggi uno dei testimoni chiave dell’inchiesta, ricevette numerose pressioni dopo il suo rifiuto a partecipare al golpe, secondo il modus operandi della cosiddetta milícia digital.

Il supporto delle Forze Armate era necessario per portare a compimento l’arresto (ed eventualmente l’assassinio) di Alexandre de Moraes e far accettare ai cittadini lo stato di assedio. De Moraes doveva essere neutralizzato, e con lui anche Lula e il suo vice Geraldo Alckmin.
Prove del piano omicida sono state trovate in due documenti sequestrati agli indagati.

Uno di questi, nominato Punhal verde amarelo (“pugnale verdegiallo”, dai colori della bandiera brasiliana), secondo le ricostruzioni sarebbe stato elaborato e stampato nello stesso Palácio do Planalto, la sede ufficiale del Governo, dal generale riservista Mario Fenandes che all’epoca era Segretario esecutivo della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica.

In questo documento, nel quale la Polícia Federal ha riscontrato “finalità inequivocabilmente golpiste”, si trovano i dettagli del piano per arrestare e assassinare de Moraes (piano che sarebbe stato effettivamente messo in atto, e subito abortito per mancanza di sostegno dell’esercito, il 15 dicembre), e per gli omicidi di Alckmin e di Lula.

Per il presidente eletto, “considerata la vulnerabilità del suo attuale stato di salute e la frequenza con cui si reca all’ospedale” era da preferirsi “il mezzo dell’avvelenamento, o l’utilizzo di sostanze chimiche/medicinali che causino un collasso organico”.
L’assassinio di Lula e del suo vice avevano l’obiettivo di neutralizzare il partito vincitore e riportare il Paese al voto, che a quel punto si pensava sarebbe stato a favore di Bolsonaro.

Di fronte alla formalizzazione delle accuse l’ex presidente si è dichiarato estraneo ai fatti e vittima di una cospirazione giudiziaria.
I documenti e le intercettazioni sembrano però indicare che non solo fosse al corrente del tentativo di colpo di Stato, ma ne abbia preso parte attivamente tanto che il Procuratore Gonet Branco lo ritiene, insieme al generale Braga Netto, il leader dell’organizzazione criminale golpista.
Tra le carte recuperate dagli inquirenti nell’ufficio di Bolsonaro è stato trovato anche un discorso già pronto che l’ex presidente avrebbe dovuto pronunciare a golpe compiuto. Risulta dunque impossibile che l’ex presidente non sapesse quello che stava accadendo.

In uno dei messaggi audio intercettati il Colonnello Bernardo Correa Netto, anche lui nella lista degli accusati, afferma che il piano venne fermato dallo stesso Bolsonaro che, resosi conto di non avere il pieno appoggio delle forze armate decise non firmare il decreto golpista per “paura di essere arrestato”.


Militari sotto accusa

Delle altre 33 persone denunciate insieme a Bolsonaro la maggior parte appartengono alle forze armate; una circostanza che sembra segnare un cambio di passo, come spiega lo storico Carlos Fico alla BBC. Nonostante la dittatura brasiliana, durata dal 1964 al 1985, sia stata una delle più feroci dell’America Latina nessun militare è mai stato accusato o processato.

«Tradizionalmente, nei diversi tentativi di colpi di Stato in Brasile, sia quelli falliti che quelli che hanno avuto successo, non ci sono mai state punizioni», ha affermato Fico.

L’incriminazione del Procuratore Gonet Branco è dunque un segnale positivo, ma lo storico non si mostra troppo ottimista. Per dare un segnale di cambiamento vero, spiega, è necessario modificare l’articolo 142 della Costituzione Federale del 1988, che designa le forze armate come arbitri e garanti dei poteri costituzionali, e ha fornito spesso la base di legittimazione per l’interventismo dei militari. Solo così si metterebbero davvero al riparo le istituzioni democratiche.
Del resto, se Bolsonaro fosse davvero riuscito a convincere le alte sfere delle forze armate oggi staremmo raccontando una storia diversa.

«Ho sentito molti analisti dirsi contenti che il golpe non sia riuscito perché la maggior parte dell’alto comando militare non lo ha appoggiato, come se fosse qualcosa di cui compiacersi», ha dichiarato Fico. «È assurdo che si possa normalizzare a tal punto la possibilità che i militari possano prendere parte a un colpo di Stato da arrivare a festeggiare se la maggior parte decide di non farlo. È come dire che la democrazia brasiliana è nelle mani delle forze armate. Se fosse così, siamo messi proprio male».

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