“Sono fermamente convinto che la prigione raggiunga soltanto uno scopo falso, ingannevole, esteriore. Essa succhia la linfa vitale dell’uomo, ne snerva l’anima, la indebolisce, la spaventa e poi presenta come esempio di emendamento e pentimento una mummia moralmente rinsecchita, un semideficiente”. 

Con queste parole, Dostoevskij racconta, in Memorie di una casa di morti, dei suoi personali dieci anni di prigionia in Siberia. Studiare l’istituto del carcere, da secoli colonna portante delle politiche contro il crimine, non significa solo guardare alle storie di uomini in cattività. Significa soprattutto comprendere la fallacia di uno strumento rispetto a quello che dovrebbe essere il suo fine. È infatti difficile pensare di addomesticare gli animi più indomiti e refrattari rinchiudendo il corpo dietro a delle sbarre.

Cos’è il carcere se non un non-luogo dai diritti sospesi e un non-tempo il cui solo fine consiste nel ripagare la collettività del danno arrecatogli? Le parole di Gherardo Colombo possono aiutare a chiarire questo dilemma morale.  Conosciuto principalmente come uno dei tre pm del famoso pool di Tangentopoli, lo è meno per le posizioni intraprese sul tema della funzione delle carceri. 

È nello scetticismo sulla funzione deterrente della pena che risiede una delle ragioni che gli ha fatto appendere la toga al chiodo. “Incutere paura” – afferma Colombo a Q Code – “insegna ad obbedire e quando si obbedisce non si vuole ma si deve, e se una regola è osservata non per convinzione ma per obbligo il suo rispetto dipende dal controllo dell’applicazione. Il lavoro che facevo io era una richiesta di obbedienza attraverso l’inflizione della sofferenza fine a sé stessa. Ho iniziato a pensare che il carcere non fosse compatibile con il mio senso di giustizia, la mia concezione di dignità umana e con la Costituzione. Per rendersi conto che quest’ultima viene quotidianamente contraddetta, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni”.

Inizia con Gherardo Colombo questo percorso in quattro capitoli all’interno e al di fuori delle carceri italiane, per provare a dare una risposta ad una domanda: perché secoli d’evoluzione umana e giuridica, infinite dissertazioni, pandette e simposi non sono riuscite a sradicare quell’occhio per occhio che coviamo nel profondo, frutto della convinzione (o dell’istinto?) di dover retribuire il male inferto con un male proporzionato e possibilmente esemplare?  

Prima di volgere insieme lo sguardo alle possibili alternative all’attuale modello di giustizia puramente retributivo, è bene indugiare sulla pars destruens, cercando di demolire le ragioni ideologiche e pratiche alla base dei nostri sistemi sanzionatori carcero-centrici.

“È evidente che il carcere non assolve alle funzioni per il quale è stato pensato” – continua Colombo – “il sistema della pena, intesa come retribuzione, non svolge funzioni di prevenzione generale visto che le persone commettono reati anche se vengono minacciate pene elevate; e non svolge funzioni di prevenzione speciale perché più di due terzi delle persone che escono dal carcere commettono nuovi illeciti”. Dato, quest’ultimo, che è confermato anche dal XVIII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, dal quale emergono tanti altri dati allarmanti: uno tra tutti, in carcere i casi di suicidio sono oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione “libera”. 

Ma non è finita, prosegue l’ex pm, “il carcere costa moltissimo alla collettività in termini economici e sociali, alla vittima, che dalla punizione non riceve alcuna riparazione della dignità infranta, e, infine, al condannato”. Risulta infatti estremamente difficile per chi si è macchiato di un crimine ritrovare il proprio posto nel mondo.  La convinzione profonda dell’uomo comune è che è chi esce dal carcere non può essere riammesso in società. Tuttavia, la pena non è un tatuaggio provvisorio ma permane così come marchio inciso nella pelle dell’individuo, come icasticamente descrive Kafka ne La colonia penale. C’è un evidente paradosso nel voler promuovere il reinserimento del condannato in quella società dalla quale la stessa esecuzione della pena allontana.

L’idea della pena come retribuzione per il male commesso affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando la legge era la parola di Dio. Sin dai primordi all’uomo è stato dato di scegliere tra un messaggio di liberazione senza contropartita e la legge del taglione. “Due culture diverse” – afferma Colombo – “che esprimono un senso di giustizia diverso dal quale discende un complesso di regole differente per regolare la società. Il primo caratterizzato dall’accoglimento e dal perdono. Il secondo che invece si rifà ad un criterio di esclusione e separazione”.

Il perdono, tuttavia, era per deboli di cuore, anche dinanzi all’invito di Cristo nel famoso discorso della montagna: “avete inteso che fu detto: occhio per occhio dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra”.
Così, ne derivò una società castigatrice organizzata, all’interno, su discriminazioni e gerarchie e, all’esterno, sull’adagio si vis pacem para bellum.

Eppure, il rimedio punitivo del carcere non è sempre stato il diretto precipitato della cultura della vendetta. Michel Focault in Sorvegliare e punire descrive magistralmente “lo splendore del supplizi” che ha segnato il XVII secolo: la gogna, la fustigazione, la decapitazione, lo squartamento erano pene pubbliche ed esemplari utilizzate per affermare la superiorità non solo del diritto ma anche della forza fisica del sovrano che si abbatteva verticalmente sui corpi dei sudditi.

È solo con i Lumi, sulla scorta della lezione di Beccaria, che si afferma il convincimento per il quale la segregazione dei corpi rappresenta una scelta più umana, in grado di plasmare un’umanità migliore finalmente libera dall’arbitrarietà e dalle barbarie dell’Ancien Regime.

Ma ad un certo punto qualcosa va storto. Con il processo di industrializzazione, che reca con sé un moto centrifugo campagne-città, la prigione inizia a sedurre le nuove élite. In fretta il carcere diviene lo strumento prediletto per regolare le forme di disorganizzazione sociale generate dagli sconvolgimenti economici, così rispondendo alla paura per le “classi pericolose”.

Bisogna però fare un salto temporale di due secoli per approdare ad una nuova concezione di uomo, questa volta autonomo e originario portatore di diritti intangibili, accompagnata da una diversa idea di giustizia.  “Se si voleva sperare”, afferma Colombo “che il futuro non riservasse le tragedie che hanno segnato il XX secolo, il punto di partenza non poteva che essere il riconoscimento della dignità dell’individuo, che ha a sua volta consentito il farsi spazio del senso di gratuità e il riferimento al perdono nel sistema organizzativo della società”. È stato dunque questo l’humus delle contemporanee Carte costituzionali e delle riforme in tema di pene alternative, sul piano interno, e, sul piano esterno, della Dichiarazione universale dei diritti umani.

Senonché, “il riconoscimento della persona e dei suoi diritti fondamentali è rimasto, su larga scala, fermo alle sole dichiarazioni di principio”. Dagli anni Ottanta, infatti, si è avuta inversione di rotta sull’onda di nuove istanze securitarie che hanno reso più semplice, per politici e legislatori, l’emanazione di leggi sempre più severe per la criminalità comune. Si è così preferito sacrificare i diritti umani sull’altare della convenienza politica-elettorale, facendo leva sulla paura dei cittadini e agitando lo spettro della sicurezza. 

Com’è possibile però che un uomo di legge come Colombo parli di “perdono”? Questa parola non è frutto di un suo lapsus, ma compare anche nel suo pamphlet Il perdono responsabile, perché il carcere non serve a nulla.

Qui Colombo parla di questo concetto nella sua accezione più laica allo scopo di superare l’equivoco di base che lo vuole come sinonimo di damnatio memoriae: perdono non è cancellazione ma richiesta di assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro, perché chi perdona e chi è perdonato hanno insieme il compito di riparare – non si parla più infatti di giustizia retributiva ma riparativa, sulla quale mi dilungherò nel capitolo III – la relazione che era stata infranta.

Secondo l’ex pm, l’assunzione di responsabilità viene invece meno in un’ottica retributiva in cui il trasgressore è tenuto solamente ad un pati passivo, venendo meno ogni tipo di conciliazione e di rielaborazione del trauma che il reato comporta. Non si tratta certamente del lido più vicino a cui approdare ma, in un’ottica lungimirante, consentirebbe alla società di progredire e di massimizzare il bene comune, la dignità e i diritti di tutti gli individui coinvolti, direttamente o indirettamente, nel crimine.

È attraverso il confronto che il responsabile – scrive Colombo – può “cominciare a elaborare il disvalore della sua azione senza essere sopraffatto dai sensi di colpa”, mentre la vittima può “ricevere un atto di riparazione simbolica o materiale” in modo tale che non venga soddisfatta la sua sete di vendetta – che logora invece di riparare – ma di giustizia.

Tuttavia, questo dialogo non coinvolge solo reo e vittima essendo di primario interesse anche per lo Stato e, quindi, per la collettività.  Infatti, “una società incapace di vedere le proprie mancanze non può che produrre agenti di reato incapaci di affrontare la colpevolezza personale”. La consapevolezza che il comportamento criminale è frutto anche di fattori extrapersonali – povertà, emarginazione, ma non solo – dovrebbe condurre la comunità a sostituire l’idea della com-partecipazione nel percorso reintegrativo all’ideologia del capro espiatorio.  

Perché, dunque, nonostante l’evidente fallimento delle ragioni storiche a fondamento della pena – retribuzione, rieducazione e prevenzione – la società continua a restare ancorata al sistema carcerario? Interessanti chiavi di lettura sono state avanzate da alcuni scienziati sociali. Waquant, ad esempio, concepisce la pena come controllo fisico delle nuove forme di marginalità in “simbiosi mortale” con il neoliberismo; Mathiesen come strumento diversivo rispetto alla dannosità della criminalità dei potenti; Girard invece vedeva la pena come pharmakon, antidoto sacrificale rispetto ai mali interni che la società non riesce altrimenti a curare; Focault riteneva che il carcere fosse in realtà un mezzo di controllo di intere aree di popolazione precarizzate dalla prima società capitalista.

Secondo Colombo, quest’ultimo paradigma può essere applicato agli Stati Uniti, Paese che conta 2 milioni e 200mila detenuti su circa 330 milioni di abitanti. Non sarebbe invece applicabile in Italia dove il numero dei detenuti è di “solo” 54.600, tenendo a mente, però, un tasso di affollamento medio del 107%, che arriva a toccare punte ancora più elevate nel nord Italia (a Brescia addirittura del 185%). Anche da noi, segnala Associazione Antigone, vi è una tendenza di fondo al rialzo della popolazione carceraria. 

Colombo conclude spiegandone le ragioni: “Sarà successo anche a lei da piccola di vedere un film che le incuteva terrore e voleva andare a dormire nel lettone senza che però la sua situazione di sicurezza fosse cambiata di una virgola. Vogliamo essere rassicurati e vogliamo chiudere il lupo in gabbia. La politica criminale ha un evidente interesse ad assecondare e in parte alimentare questo desiderio”. 

Pertanto, le nostre carceri non solo sono, se dobbiamo credere alla Costituzione, realtà fuori-legge; non solo mancano di efficacia a livello pratico, ma seri interrogativi provengono anche da innovativi studi (neuro)scientifici. Alla luce di questi ultimi nei prossimi capitoli proveremo a capire se un modello di giustizia alternativo è percorribile. Una giustizia capace di far camminare la società e riparare i torti.