Nascere e crescere in Trentino vuol dire imbattersi, almeno una volta nella propria vita, nell’orso o per lo meno nel dibattito che lo riguarda.
Il mio primo incontro lo ricordo bene: sangue sulla neve, l’espressione preoccupata di mio padre, l’ordine di non avvicinarci e restare vicino al muro, le lacrime delle figlie dell’albergatore per il cane che aveva provato a costo della sua vita a difendere le galline. E poi i discorsi degli adulti, sempre infiammati da un lato o dall’altro. In fondo l’orso fa l’orso. E allora la Provincia non avrebbe dovuto reintrodurli. Che se si sono estinti un motivo ci sarà. Basta con questi orsi, è arrivato il momento di mandarli via o abbatterli. E poi i sit-in per Daniza, il boicottaggio del turismo, e le risposte piccate che i trentini stanno bene sia senza orsi che senza certi turisti (entrambe le affermazioni tutte da dimostrare).

Un dibattito, quello “orso sì, orso no”, che può rimanere latente per anni, tanto che le persone quasi arrivano a dimenticarsi dell’esistenza di questi animali per poi riprendere forza all’istante appena succede un incidente come la morte di Andrea Papi, nella primavera del 2023, aggredito e ucciso dall’orsa JJ4, e che raramente include riflessioni obiettive e pacate su come poter instaurare gestire una convivenza pacifica.
Convivenza che, è bene ricordarlo, non è un’invenzione degli ultimi 25 anni né una necessità originata dalle reintroduzioni, ma al contrario ha radici profonde nelle storie delle nostre due specie.
Nel report “L’impegno del Parco per l’orso: il Progetto Life Ursus” dell’Ufficio Faunistico del Parco Naturale Adamello Brenta si legge che esseri umani e orsi hanno coesistito nelle stesse zone per circa mezzo milione di anni, all’incirca fino alla fine del XVII secolo. Con lo sviluppo economico e sociale delle comunità umane però, “l’uomo ha sottratto spazio vitale al plantigrado per sfruttarne il territorio dal punto di vista agricolo e zootecnico, condizionandone e compromettendone la distribuzione in maniera indiretta, ma soprattutto è stato autore di un vero sterminio ai danni della specie.”

Man mano che le comunità umane si espandevano sul territorio, spiega il report, andando oltre le zone pianeggianti e iniziando a insediarsi in quelle montane, la coesistenza si è trasformata in competizione. L’orso ha iniziato ad essere percepito come una minaccia alle attività antropiche e contro di esso si è scatenata una vera e propria persecuzione che si è protratta a lungo, basti pensare che ancora fino al 1918 i Capitanati del Trentino e il Consiglio dell’Agricoltura offrivano una taglia per chi uccideva un esemplare. Secondo il report però l’orso non rappresentava solo un pericolo a livello economico, danneggiando le strutture agricole o predando il bestiame, ma anche a livello emotivo.
“L’orso, animale imponente che, per alcuni caratteri fisici, richiama l’aspetto umano, sembra essere in grado di mettere in discussione il primato dell’uomo sul mondo animale”, primato che, in particolare dopo la rivoluzione industriale, è stato percepito come ancora più assoluto di quanto non fosse in passato.

Una coesistenza è possibile?

Di fronte a queste premesse viene da chiedersi: ha senso reintrodurre sul territorio una specie così temuta e a tratti odiata? E come si può, con questi presupposti, ricreare una coesistenza pacifica?

Per comprenderlo meglio ne abbiamo parlato con Dara Brodey, coordinatrice della attività dei volontari di Rewilding Appenines, associazione che si occupa di promuovere pratiche di ripristino naturale nel nostro Paese.

«Il rewilding», spiega Brodey, «è un approccio che si basa sulla consapevolezza che in natura esistono ecosistemi perfettamente funzionanti che non hanno bisogno dell’intervento umano, il quale si deve limitare esclusivamente a ripristinare gli equilibri e le catene trofiche qualora siano stati alterati e poi lasciare totalmente spazio alla natura, che è molto più efficiente e complessa di quanto immaginiamo».

Reintrodurre specie estinte o quasi estinte in determinate zone, dunque, non è un semplice vezzo ma una vera e propria necessità se vogliamo proteggere e preservare l’ambiente naturale.
Nonostante ciò, far accettare la presenza dell’orso, specialmente in casi di grande prossimità, come quella del Trentino, può essere un’impresa ardua di fronte alla quale le istituzioni politiche finiscono per proporre soluzioni a breve termine, poco efficaci o addirittura dannose per una delle due specie. Come ha fatto recentemente la Romania che, in seguito alla morte di una giovane donna ha reintrodotto la caccia a quote per il 2024. Una misura violenta non necessaria dal momento che esistono altre strategie per limitare i conflitti tra esseri umani e plantigradi.

Dal momento che la prima fonte di conflitto è costituita dal fatto che gli orsi si avvicinino molto ai centri urbani, un primo passo importante è comprenderne il motivo e cercare di arginarlo, attraverso la creazione di quelle che vengono chiamate bear smart communities, o comunità a misura d’orso.

«Questo modello – spiega Dara Brodey – «prende ispirazione da un progetto nato nei primi anni ’90 in Canada nella regione della British Columbia, grazie all’iniziativa di Sylvia Dolson che fu la prima a capire che gli orsi si avvicinavano ai centri abitati per via di alcuni attrattori, come la spazzatura, i resti delle grigliate o gli alberi da frutto. In Canada ogni anno vengono uccisi un grandissimo numero di orsi in scontri con umani e per limitare quell’abbattimento massivo Dolson propose di eliminare le esche che li attiravano».

Molti studi infatti hanno dimostrato che la presenza di risorse trofiche incustodite negli spazi umani risulta uno dei motivi decisivi delle “gite” degli orsi in città, anche qualora ci sia abbondante disponibilità di cibo nell’habitat naturale, sottolinea Brodey.
Tra i modi per rendere gli abitati meno interessanti per i plantigradi ci sono i cassonetti a prova d’orso, che impediscono agli animali di accedere ai rifiuti organici, oppure la raccolta porta a porta ma con delle ordinanze che impongono di mettere fuori l’umido al mattino e non la sera prima.

«Anche rendere indisponibile la frutta è un’azione molto efficace», aggiunge la coordinatrice di Rewilding Appenines. «Tra le attività dei volontari del progetto Salviamo l’Orso c’è proprio quello della raccolta della frutta per chi non ha più l’età per farlo da solo o magari semplicemente non ha tempo. Qualche tempo fa abbiamo gestito il problema di una persona che non capiva perché l’orso continuasse a introdursi nel suo giardino e durante un sopralluogo abbiamo scoperto che era pieno di frutta caduta a terra. Appena è stata rimossa l’orso non è più tornato. In Canada addirittura ci sono città che da piano regolatore vietano gli alberi da frutto oppure obbligano la popolazione a toglierli dai giardini nel caso in cui non vengano mantenuti correttamente e la frutta non venga prontamente raccolta».

Un altro strumento che dà buoni risultati nel tenere gli orsi lontani da frutteti, pollai e apiari sono i recinti elettrificati, che fungono da barriera psicologica per l’animale e che vengono dati in comodato d’uso gratuito, o a fronte di un piccolo contributo, a chi ne ha bisogno. «Questa è una strategia molto efficace nel breve termine – dice Dara Brodey – perché non devi convincere le persone ad amare l’orso, ad accettarlo o ad ammettere che è una parte importante dell’ecosistema, ma offre una soluzione pratica e rapida al problema».

Ovviamente anche le soluzioni più semplici spesso devono andare di pari passo con un percorso educativo e di sensibilizzazione. Brodey racconta che all’inizio l’introduzione dei recinti elettrificati è stata difficoltosa, mentre adesso sono gli stessi agricoltori e allevatori a chiederli. «Il lavoro delle associazioni che lavorano sul territorio è molto importante per facilitare l’adozione di questi strumenti su larga scala. Durante una visita in Canada, come Rewilding Appenines, abbiamo visto il caso di un’associazione che per convincere gli agricoltori ad utilizzare i recinti elettrificati aveva approcciato un’azienda più propensa a collaborare che è poi diventata ambasciatrice del progetto. Vedendo che non c’era niente di strano nello strumento alla fine anche gli altri agricoltori hanno aderito».

Esempi come questo possono essere cruciali nei processi di educazione. Iniziare da un piccolo gruppo o con un progetto pilota può creare un effetto a palla di neve. La collaborazione della società e il cambiamento di abitudini umane è alla base del corretto funzionamento delle comunità a prova d’orso. I recinti elettrificati vanno posizionati e mantenuti, l’immondizia non va lasciata a disposizione e anche i bidoni a prova d’orso richiedono uno sforzo (per quanto minimo) perché vanno richiusi correttamente.

«Cambiare le idee delle persone è difficile, e ci vuole molto tempo», commenta Brodey. «Nella zona dove operiamo c’è un paese che ha un problema con un’orsa che scende spesso a nutrirsi dei rifiuti organici. I residenti stanno rispettando l’ordinanza di mettere fuori i sacchetti al mattino, però capita che arrivino turisti dalla città: magari si fermano qualche settimana e poi lasciano tutta l’immondizia fuori e questo vanifica quanto fatto fin lì. Basta davvero una sola persona per rovinare il lavoro di tutti. Le azioni vanno portate avanti insieme e lo sforzo deve essere collettivo».

Cambiare la prospettiva

Quello che colpisce delle comunità a prova d’orso e delle strategie di coesistenza è che, sebbene partano dalla presa di coscienza della necessità da parte degli esseri umani di mettere in atto o evitare certi comportamenti, creano una dicotomia tra spazio umano e animale dove la circolazione è vietata solo in una direzione.

«Quando un animale selvatico entra negli spazi cosiddetti umani questo può creare un conflitto, ma anche se così non fosse il fenomeno verrebbe percepito come qualcosa di strano», dice Dara Brodey. «Se vediamo un orso o un cervo entrare in città non ci sembra normale. Questa però è una concezione nostra, siamo noi esseri umani a creare queste divisioni. Abbiamo deciso che gli animali non possono entrare nei nostri spazi, però noi non ci facciamo problemi ad entrare nei loro».

La chiusura di alcuni sentieri o zone del bosco che, in certi periodi dell’anno, sono particolarmente frequentati dagli orsi per la presenza di alimenti specifici o perché è in atto un corteggiamento è una pratica che viene già messa in atto dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e che sarebbe importante che venisse applicata anche ad altre zone d’Italia, come ad esempio il Trentino. Si tratta naturalmente di un cambio di prospettiva radicale perché vuol dire riconoscere che come esseri umani non siamo i padroni della natura, che i boschi e le montagne non sono “nostri” e se per un periodo ci è sembrato che lo fossero è solo perché abbiamo estromesso le altre specie con le quali dobbiamo tornare a condividerli.

Anche Brodey si dice d’accordo con questa posizione. «Noi umani siamo una specie che occupa già molto spazio», dice, «e lasciarne un po’ solo agli animali non può farci che bene. Se l’essere umano non si mettesse sempre al centro di tutto, pensando che può comportarsi come vuole, se si limitasse e facesse qualche passo indietro sicuramente aiuterebbe».

Si tratta di fare una scelta, come esseri umani, ed essere pronti ad assumercene le conseguenze. Per riprendere le parole di Roberto Guadagnini, veterinario dei grandi carnivori del Casteller, la struttura del Centro Faunistico provinciale di Trento deputata ad accogliere gli esemplari di orso «come specie umana dovremmo decidere se vogliamo una natura alla Walt Disney oppure se vogliamo avere dei boschi dove esiste una vita che non è sotto il nostro controllo. Se non accettiamo che un orso possa convivere sulle nostre montagne, se non accettiamo di lasciargli dello spazio noi non stiamo rifiutando l’orso, ma tutta la Natura».