I primi decreti varati dal nuovo governo italiano hanno riportato le navi umanitarie e le migrazioni al centro della discussione pubblica e politica. La volontà di applicare una stretta sugli sbarchi incrina i rapporti italiani con gli altri Paesi europei e soprattutto non è in linea con la legge del mare e il diritto internazionale. Ne parliamo con Annalisa Camilli giornalista ed esperta di migrazioni.

Cosa stabilisce il diritto internazionale per le persone che arrivano in Italia via mare?

Il diritto internazionale, che significa una serie di convenzioni come la convenzione Sar e Solas e la convenzione di Montego Bay, stabiliscono che c’è l’obbligo di soccorso. Nel momento in cui c’è la notizia di un natante o di una imbarcazione in difficoltà in mare è obbligo dell’imbarcazione più vicina intervenire in soccorso di quell’imbarcazione. I governi più vicini rispetto al punto dove il soccorso è avvenuto hanno l’obbligo di cooperare per rendere i soccorsi i più rapidi ed efficaci possibili. Il soccorso non finisce nel momento in cui le persone sono state portate a bordo di una nave stabile e che non rischia di naufragare ma quando questa nave è attraccata e le persone sono state portate a terra. Questo significa che qualunque nave che va per mare se ha notizia di una barca in difficoltà o di una barca che rischia di naufragare, perché è sovraffollata o perché le condizioni meteo marine sono in peggioramento, ha l’obbligo – non la possibilità, l’obbligo – di intervenire e di portare le persone soccorse nel porto sicuro più vicino. “Sicuro” significa un porto che rispetta certe condizioni: per esempio la Libia non può essere considerata un porto sicuro dove far sbarcare le persone perché non riconosce la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. A questo si aggiunge che, come numerosi rapporti di organizzazioni governative e non governative hanno dimostrato, le persone di origine straniera in Libia sono sottoposte arbitrariamente a trattamenti inumani e degradanti tra cui la detenzione arbitraria. 

Se ci sono delle convenzioni, perché sembra che ogni nave rappresenti un caso a sé stante?

I protocolli ci sono. Credo sia anche giusto sottolineare che le navi umanitarie arrivate nelle ultime settimane hanno soccorso solo il 10% delle persone che sono arrivate in Italia via mare. Orami da anni la maggior parte delle persone arrivano in Italia via mare con le proprie imbarcazioni, e quindi in maniera autonomamente oppure sono soccorse dalla Guardia Costiera o dai mezzi militari governativi. Questo già mostra come tutta la discussione sulle navi umanitarie sia piuttosto pretestuosa. Le navi militari dal 2017 sono state oggetto di una campagna di criminalizzazione a partire da una propaganda politica che le ha accusate di essere dei pull factor, dei fattori di attrazione per i migranti. Secondo questa narrazione, il semplice esistere delle navi ong e di essere in quel tratto di mare provocherebbe le partenze. Una teoria che è stata completamente smentita da diversi studi scientifici così come le insinuazioni di collaborazione con i trafficanti di esseri umani in Libia. Accuse che sono passate anche per le procure e che hanno portato alcuni equipaggi in tribunale. È importante sottolineare che in questi anni (dal 2017 ad oggi ndr) questo tipo di azioni legali non ha portato ad alcuna condanna. Le navi umanitarie  nel Mediterraneo trasportano persone che sono sopravvissute alla traversata della rotta più pericolosa del mondo – i morti dal 2013 sono 25mila – e dovrebbero essere favorite nello sbarco. L’obiettivo dovrebbe essere sbarcare le persone più velocemente possibile nel porto più vicino. Solo una volta a terra tutti i discorsi politici sulla ridistribuzione in Europa, sulle responsabilità europee, sulla legittimità o meno di queste persone di rimanere in Europa, sul loro status di rifugiati, migranti economici e così via possono essere discusse. Quello che invece succede, in particolare dal 2018 in poi con la chiusura dei porti e oggi con un aggiornamento della strategia di chiusura dei porti, è di provare con dei decreti, che sono strumenti di soft law, a impedire l’ingresso nelle acque territoriali a queste navi. Lo ha fatto Salvini nel 2018, prima con un tweet e poi con un decreto sicurezza bis. Ricordiamo tutti il caso di Carola Rackete, comandante della Sea Watch, che decide di venire meno al decreto e al divieto di entrare in acque territoriali italiane, entra nel porto di Lampedusa e viene arrestata. Non solo è stata poi scarcerata pochi giorni dopo ma è stata  anche completamente prosciolta con una sentenza della Corte di Cassazione. Ricordiamo anche il caso della Open Arms, nel 2019. All’epoca era Ministro dell’interno Matteo Salvini il cui capo di gabinetto era l’attuale Ministro dell’interno, Matteo Piantedosi. Salvini aveva fatto divieto alla nave Open Arms di entrare a Lampedusa, sempre attraverso il decreto sicurezza bis. All’epoca i legali di Open Arms fecero ricorso al Tar e vinsero: il tar annullò e sospese il decreto. Potremmo dire che la situazione si è ribaltata perché Matteo Salvini è a processo a Palermo accusato di sequestro di persona per il caso Open Arms. L’attuale ministro dell’interno Matteo Piantedosi, all’epoca incriminato e prosciolto in seguito, resta un testimone nel processo. Per questo motivo, conoscendo bene la strategia, Piantedosi con il nuovo decreto ha provato modificarne alcuni aspetti: ha fatto entrare le navi in porto ma poi ha imposto uno sbarco selettivo. Questa volta non c’è stato bisogno dell’intervento di un tribunale, nonostante i ricorsi siano stati presentati sia al tar che all’autorità giudiziaria, è bastata l’autorità sanitaria. Sono saliti i medici del Ministero della salute a bordo e con una approfondita disamina dei naufraghi a bordo di queste navi hanno stabilito che tutti erano ugualmente vulnerabili dopo una traversata del genere e non era possibile costruire una scala di vulnerabilità. La legge prescrive anche il dovere di tutelare la salute delle persone, e infatti è stato stabilito che tutti dovevano scendere. Nel giro di pochi giorni la vicenda si è conclusa, come al solito a spese delle persone a bordo delle navi che hanno subìto un’ulteriore sofferenza e sono dovute rimanere a bordo per giorni con uno stress psicologico molto forte.

La nave Ocean Viking si è diretta verso la Francia: a livello di politica e di diritto internazionale cosa significa creare un precedente di questo tipo?

In realtà si tratta di una cosa che è già successa. Nel 2018 l’Acquarius, dopo aver avuto il porto negato dall’Italia, andò a Valencia e anche l’Ocean Vikings è già andata in passato a Marsiglia. Questo contravviene a quelle che sono le leggi del mare. Rappresenta in qualche modo un passo indietro da parte delle organizzazioni umanitarie e dei governi che concedendo un porto. L’andare in un porto meno vicino viene fatto perché in qualche modo l’Italia sottopone queste persone a dei trattamenti inumani. Vedremo anche come vanno i ricorsi che sono stati presentati in questi casi specifici. Quello che le organizzazioni umanitarie considerano prima di portare le persone in un porto diverso da quello più vicino è di non voler sottoporre le persone a bordo, che sono già in una fase post traumatica, a ulteriore stress e ulteriori traumi non sapendo esattamente a cosa si andrà incontro entrando nei porti italiani con il decreto Piantedosi. Tuttavia, il fatto di rompere, di non seguire in questo caso, quello che prescrive la legge internazionale diventa una specie di concessione. Infatti, non appena è stato annunciato che l’Ocean Vikings si sarebbe diretta verso un porto francese, Salvini ha subito twittanto che questa era la strategia da seguire. Un fatto che rischia di acuire il braccio di ferro tra governo italiano e gli altri governi. Si tratta di una forma di propaganda fatta sulla pelle delle persone e a scapito delle leggi internazionali che non cambiano con il cambio dei governi nazionali. Le leggi internazionali prevedono che le persone possano sbarcare nel porto più vicino e sicuro, in questo caso l’Italia è stata considerata Paese non sicuro. 

Cosa può fare la società civile? E cosa giornalisti e giornaliste nel raccontare quello che accade?

Come giornaliste e giornalisti abbiamo il dovere di portare la realtà, i termini della realtà nel dibattito pubblico che è fortemente inficiato e infangato da propaganda, proprio come se fossimo in una guerra agli stranieri. Il nostro dovere è quello di portare i dati di realtà, portare le leggi internazionali, le voci degli esperti il più possibile dentro la discussione. L’opinione pubblica nazionale e internazionale può fare moltissimo: tutte le grandi questioni di questi anni, dalla questione sulla Libia ai porti chiusi, sono state seguite dell’opinione pubblica nazionale e lì dove c’è stata più attenzione e mobilitazione questo sicuramente ha sortito degli effetti. A Catania, quando le navi Humanity One e Geo Barents erano bloccate nel porto con le persone a bordo c’è stato un presidio continuo degli attivisti, gli stessi attivisti che avevano fatto quel tipo di lavoro sulla Diciotti. Questo ha fatto sì che alcuni parlamentari dell’opposizione si interessassero alla questione. Infine è importante tenere alta l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica: non garantisce in maniera diretta che la legge e la dignità delle persone siano rispettate ma è la precondizione perché questo avvenga.