Israele e il fronte economico interno

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2 Marzo 2020

Ormai un ricordo l’approccio socialista dei kibbutz: un paese sempre più per ricchi

Nell’estate del 2011 molte città israeliane furono teatro di accese proteste a tema socio-economico. Nota come “movimento per la giustizia sociale”, questa serie di manifestazioni è stata anche chiamata “movimento delle tende”, con riferimento all’origine della contestazione e all’installazione di tende su Rothschild Boulevard – una delle principali arterie di Tel Aviv – per rivendicare politiche a supporto del diritto alla casa, oltre che all’accesso a migliori servizi pubblici.

A più di otto anni di distanza da quegli eventi, le prospettive della terza tornata elettorale nel giro di dodici mesi in Israele restituiscono l’immagine di un Paese sempre più privo di interpreti della questione sociale. Già nel 2011 il Primo Ministro era Benjamin “Bibi” Netanyahu, al potere consecutivamente dal 2009 (senza dimenticare il mandato dal 1996 al 1999).

Politico abilissimo nel neutralizzare ogni forma di dissenso e a rimanere in sella nonostante plurime accuse di corruzione e innumerevoli nemici, Netanyahu rispose alle proteste del 2011 con la Commissione Trajtenberg, incaricata di esaminare le istanze dei manifestanti ed elaborare politiche di risposta.

Sebbene una parte di queste richieste sia stata recepita, molte questioni rimangono a tutt’oggi dolorosamente aperte, a cominciare dal carovita e dall’accesso alla casa; in termini di giustizia fiscale e sociale, nel 2011 la tassazione sui capitali fu aumentata, per poi essere nuovamente ridotta negli ultimi anni.

Nell’estate del 2012 alcuni manifestanti, inclusa la leader del movimento delle tende Daphne Leef, furono arrestati per resistenza a pubblico ufficiale mentre ripiantavano le tende in Rothschild Boulevard.

Nel quadro di un impegno politico a sostegno della causa palestinese, è sempre assai delicato commentare gli sviluppi di politica economica su entrambi i lati della Linea Verde.

La Palestina, specialmente dal governo Fayyad, ha intrapreso un percorso di profonda neoliberalizzazione, bene esemplificata dal settore edilizio di Ramallah e dalla costruzione della “McCity” di Rawabi – interamente orientata al consumo e alla soddisfazione delle ambizioni di modernità della borghesia palestinese.

Israele da lungo tempo si è allontana dal modello socialista e dei kibbutz, abbracciando appieno i principi del libero mercato e accreditandosi nell’immaginario internazionale come un esempio di dinamismo economico e innovazione.

Israele si presenta sovente come la “Start Up Nation”, facendo eco a un popolare libro di Dan Senor e Saul Singer, in vendita ovunque e immancabilmente donato in occasione di visite ufficiali, che celebra il modello imprenditoriale israeliano e della sua “Silicon Wadi (“valle”, in ebraico e arabo) intorno alla festaiola e progressista Tel Aviv, simbolo a pieno titolo della “smart city” del futuro.

Come evidenziato in un articolo della Rosa Luxemburg Stiftung pubblicato in prossimità delle elezioni del 9 aprile 2019, i dati economici sembrano dare ragione a Netanyahu: stabilità fiscale e monetaria, economia in crescita soprattutto nell’high-tech, disoccupazione bassissima.

Eppure, dietro i lustrini dei locali moderni e dell’high-tech, le criticità dell’economia israeliana sono ancora quelle gridate nell’estate 2011.

 

La questione della casa rimane forse la più pressante, in particolare per chi non gravita nel settore dorato delle tecnologie ad alto valore aggiunto né proviene da famiglie con ricchezza accumulata. Lo stesso si potrebbe dire per quanto riguarda l’accesso e la qualità dei servizi pubblici, altro grande tema del movimento per la giustizia sociale.

Come fanno notare alcune ricerche accademiche, infatti, il sistema di welfare israeliano è sì formalmente universale, ma di fatto reso sbilanciato a favore di alcune precise categorie sociali sulla base di considerazioni demografiche e di appartenenza religiosa. L’obiettivo è incentivare l’immigrazione ebraica e sostenere la popolazione ortodossa, corrispondente a circa il 10 percento della popolazione e determinante ago della bilancia della vita politica israeliana.

Analoghi mal di pancia si osservano rispetto alla questione delle colonie israeliane in Cisgiordania: se da una parte la loro (illegale, secondo il diritto internazionale) esistenza compromette l’idea stessa di un qualsivoglia Stato Palestinese, dall’altra esse (circa 120 per una popolazione di oltre mezzo milione di persone, a seconda di stime e criteri) rappresentano un significativo costo per le casse israeliane, sia in termini di realizzazione di infrastrutture e servizi, sia per quanto riguarda le politiche di impiego dei coloni stessi.

In base ai dati disponibili, l’analisi dell’economia israeliana parrebbe segnalare un divario sempre più profondo, anche in termini di impiego, tra il settore high-tech e legato alle esportazioni (inclusi armi e sofisticati dispositivi di sorveglianza) e quello a più basso valore aggiunto legato al mercato domestico.

Si considera inoltre che la ricchezza in Israele sia sempre più concentrata nelle mani di alcuni tycoon, favoriti dalle liberalizzazioni e privatizzazioni degli ultimi decenni, privatizzazioni che hanno interessato anche il settore bellico e della sicurezza. Come ben raccontato nel documentario King Bibi, grande protagonista di questa profonda trasformazione della società israeliana è indubbiamente proprio Netanyahu, il quale non solo ha rimodellato il registro della comunicazione politica, ma si è fatto promotore dei principî dell’economia neoliberale, trascinando  i suoi avversari a contrastarlo sul suo stesso terreno.

Anche in questa terza tornata elettorale, infatti, è chiaro che l’asse dello scontro sarà tutto spostato a destra.

L’opposizione principale, infatti, pare provenire ancora dal partito Kahol Lavan (Blu e Bianco, dai colori della bandiera israeliana), guidata dal generale Benjamin Gantz e nato dall’alleanza con Yesh Atid (“C’è Futuro”), formazione centrista dell’anchorman Yair Lapid. Un’opposizione che pare tradursi unicamente nel non essere Netanyahu e dalla presa di distanza dal suo sistema di potere, mentre il resto dei punti programmatici pare non differenziarsi troppo dal Likud di Bibi.

Seguono Yisrael Beitenu (“Israele Casa Nostra”) con il suo leader Avigdor Lieberman, espressione della destra nazionalista, non religiosa e russofona; Yamina (“Destra”) di Naftali Bennett e Ayelet Shaked, vicino all’estrema destra religiosa e sionista; Yahadut HaTora (“Giudaismo Unito nella Torah”) e Shas, partiti religiosi che rappresentano rispettivamente ashkenaziti e sefarditi. Prosegue invece l’agonia del Partito laburista, recentemente unitosi al Meretz, formazione politica più a sinistra.

Particolare interesse suscitano infine le sorti della Joint List dei partiti arabi guidata da Ayman Odeh, che nell’ultima tornata elettorale ha ottenuto l’importante risultato di 13 seggi (i cosiddetti “arabi del 48” rappresentano circa il 20 percento della popolazione di Israele, in cui ovviamente non rientrano i circa 330.000 palestinesi di Gerusalemme).

Non sorprende che il tema della sicurezza abbia avuto grande spazio nel dibattito elettorale degli ultimi mesi in Israele, specialmente nelle precedenti tornate. In linea con lo spirito dei tempi in tutto il mondo, di fronte a disuguaglianze e fragilità alimentate dal sistema capitalismo contemporaneo, la “minaccia esterna” è funzionale a mettere in secondo piano la questione sociale, non solo i casi di corruzione di Bibi.

Con una prospettiva che guarda alla lunga durata, sarebbe innanzitutto fondamentale capire che il punto chiave non è sconfiggere Netanyahu, ma ripensare il modello socioeconomico presente, alla cui guida gli avversari di Bibi intendono sostanzialmente solo sostituirsi.

 

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo strettamente personale.