Egitto, tra coloro che son sospesi

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19 Ottobre 2020

Una voce da piazza Tahrir, dieci anni dopo

In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.

Un posto di blocco, l’ennesimo. L’ansia, sempre la stessa. Fawzi sorride, come sempre, almeno da quando l’ho conosciuto. Abbassa il finestrino dell’auto, sorride al poliziotto, ma con arroganza, ostentando il braccio penzoloni sulla portiera, mentre con l’altra mano cambia stazione radio. Tra di noi, vicino al cambio, riposa un canestro di gamberi fritti comprati da un negozietto poco prima.

“Vedi? Questa è la mia rivoluzione”, sostiene Fawzi. “Adesso mi deve parlare con rispetto.”

Cairo, esterno notte, febbraio 2011. Come tanti altri colleghi stavo vivendo giornate straordinarie. Lavoravo per E-il mensile che sarebbe andato nelle edicole, per la prima volta, qualche mese dopo, sostituendo PeaceReporter.

Si era partiti in tutta fretta, tra Natale e Capodanno di quell’anno straordinario. Si capiva che era una ‘roba enorme’, come dicevamo freneticamente in redazione. Fawzi era, all’epoca, il compagno egiziano di un’amica italiana, ritornata in tutta fretta in Italia, mentre l’Egitto esplodeva. Fawzi, in quei giorni, è stato il mio porto sicuro. Per non dormire negli alberghi degli inviati assaltati dalle bande di Mubarak, per non restare solo in piazza, per raccontare la storia che passa.

Alto e massiccio, capelli rossi che lo rendevano piuttosto originale nello scenario cairota. Ma Fawzi l’avrebbero notato lo stesso, a zonzo per la città, perché lo conoscevano tutti. Figlio di una famiglia della borghesia cairota, un buon posto di lavoro in una banca internazionale. Ma a piazza Tahrir, dal primo momento, c’era anche lui. E c’era stato sempre, come poteva, per aiutare le famiglie in difficoltà.

“Non rimpiango neanche un minuto di quei giorni. Tutto quello che è venuto dopo, ogni delusione, ogni pestaggio, ogni lacrima, ogni compagno o compagna che è morto o in galera, sono delle coltellate per me. Ma sono ferito, non sono morto. Perché ancora oggi credo che non avessimo scelta: abbiamo dimostrato che si può fare. Abbiamo dimostrato che volevamo farlo.”

Oggi Fawzi risponde da un palazzo vetro-cemento di Dubai. La famiglia è riuscita a proteggerlo, destino che non ha potuto permettersi la maggioranza dei suoi compagni di allora. Un biglietto per la fuga, un altro – buon – lavoro, un’altra banca internazionale.

“Qui non mi fido di nessuno, non parlo mai di quei giorni. Questo è un regime diverso dall’Egitto, ma con le stesse logiche. Che voi europei vi fate andare bene allo stesso modo.”

La camera video di Skype mostra il volto di sempre, anche se dieci anni son passati per entrambi. Sorride meno, però.

“Dopo la repressione, per me e molti altri, il Cairo era off-limits. Non vedo la mia famiglia da tanto, troppo tempo. Non è sicuro per me tornare. Vengono a trovarmi loro. Immagino ogni volta il sudore che riga il volto di mio padre, alla frontiera. Immagino mia madre che stringe nervosamente le mani. Mi piange il cuore, ma non mi sento responsabile. I responsabili sono loro, i Mubarak, gli al-Sisi e i Suleiman del nostro paese. Quelli che ci hanno chiesto di restare piegati, che ci hanno fatto credere che potevamo alzarci, per poi schiacciarci meglio.”

Sono passati tanti anni, eppure è come se non fosse mai finita. “In questi anni mi sono sentito dire e ho letto di tutto: che eravamo manovrati dalla CIA, che siamo stati degli sconsiderati, che non avevamo calcolato le conseguenze, che ci siamo fatti rubare la rivoluzione dai Fratelli Musulmani. Non mi interessa più. So che la mia generazione doveva dimostrare a quella prima e a quella dopo che non puoi farti convincere che essere schiavi è l’unico modo di vivere. Ecco, quando ci penso, dopo tanto tempo, mi convinco di questo: il nostro ruolo era dimostrare di poterlo fare, più che riuscire a farlo fino in fondo. Siamo figli di decenni di schiavitù: non si poteva fare tutto e subito, i processi rivoluzionari sono complessi, e poi basta con questo tono da rivoluzione finita. Solo a fine settembre, tre persone sono state uccise dalla polizia durante le proteste contro il regime ad Al-Jiza.”

Fawzi si riferisce alle manifestazioni convocate sul web da Mohamed Ali, proprietario dell’Amlaak Group, uno dei dieci grandi contractor del governo egiziano. Mister Ali si è di colpo trovato in mezzo a una faida tra militari. Tagliato fuori dalle grandi speculazioni del regime, se n’è andato in Spagna, invitando il popolo alla rivoluzione.

“Io non lo seguo, ma la gente in piazza ci va sempre, ancora, per Ali o meno. Diversi attivisti dei social media hanno condiviso filmati di manifestazioni al Cairo, ad Al-Jiza, a Luxor che hanno risposto alle richieste di Ali di protestare contro il governo. Nel villaggio di Kafr Qandil sono state assassinate tre persone. In quest’ultimo caso, invece di Ali, per il regime c’erano dietro i Fratelli Musulmani. Ma non è importante, è importante che le proteste non si fermino e non si fermeranno, nonostante la ferocia di un gruppo di potere che neanche Mubarak era mai arrivato a perpretare. Le cose oggi vengono fuori, nonostante la persecuzione degli attivisti e degli oppositori, dei giornalisti indipendenti e degli operatori delle ong. Questo accade grazie a quanto è accaduto nel 2011. Abbiamo imparato a farlo, abbiamo capito che si poteva fare.”

Fawzi ha scelto di fuggire, altri son rimasti. Molti hanno pagato un prezzo altissimo, tanti altri continuano a pagarlo.

“So che me lo stai per chiedere: sì, mi sento spesso in colpa. Mandi i soldi alle famiglie degli amici in carcere, aiuti chi può a fuggire, o a respirare un po’. E’ troppo poco, lo so. Ho fatto quel che ho potuto, come ho potuto. Credo che la rivoluzione sia la somma di quello che ciascuno sa e può fare. Ma come ti dicevo prima, un egiziano di 40 anni come me, non è il più grande esperto di rivoluzioni. E’ solo uno che ha fatto quel che poteva.”