Intervista a Gian Mario Villalta

di

24 Dicembre 2019

Segni di percorrenza, tratto secondo

In realtà, ogni cosa che accade, avviene in mondi e modi incalcolabili. La poesia permette che tutte le cose accadano allo stesso essere umano e che quell’essere umano forse siamo noi. È, in qualche modo, l’assicurazione necessaria che la vita di ognuno appartenga allo stesso mondo, di ogni tempo. E sul quale, qui e ora, abbiamo facoltà di lavorazione. La serie di queste interviste rappresenta un dialogo polifonico attorno a un vero, presunto o necessario ruolo sociale e umano della poesia, tra racconto e cambiamento.

 

 

Il complice

Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l’inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento sono tutte le cose.
Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che mi ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.

J. L. Borges

poeta
Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (PN) nel 1959, vive a Porcia. Ha pubblicato i libri di poesia: Altro che storie! (Campanotto, 1988), L’erba in tasca (Scheiwiller, 1992), Vose de Vose/ Voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (Sossella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume, tra cui i saggi La costanza del vocativo. Lettura della “trilogia” di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati, 1992), Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli, 2005). Ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondadori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte (Mondadori, 1999). Del 2009 è il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori). I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondadori, 2004), Vita della mia vita (Mondadori, 2006), Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori, 2013), Satyricon 2.0 (Mondadori, 2014), Bestia da latte (SEM, 2018), Il scappamorte (Amos, 2019). È direttore artistico del festival Pordenonelegge.

 

 

Che cos’è la verità, in poesia?

Non si poteva cominciare da qualcosa di più affabile, per non precipitare subito nella “questione”?  La “questione” infatti è che la poesia si fa con la lingua nella quale pensiamo e diciamo tutta la nostra vita quotidiana e, con questa stessa lingua, dobbiamo fare qualcosa che nella vita quotidiana non ha corso, non succede, non è ricevuto altrimenti. L’essere umano, l’animale parlante, ha una lingua e allo stesso tempo è una lingua, come ha un corpo e pure è un corpo: la lingua è molto di più di uno strumento di comunicazione (tutti i viventi comunicano ma – potremmo risolvere con una battuta – solo gli umani fraintendono). La lingua è il “luogo” in cui l’esistenza viene a esporsi all’istante, ovvero il dischiudersi del sé al desiderio dell’io nel qui e ora della vita. Questo istante è un capolavoro della memoria, conscia e inconscia, e delle sue complesse trame.

Sento la verità della poesia, quando la leggo, in un “altro parlare” della lingua, che invece di mettersi al servizio della comunicazione, fa della comunicazione uno strumento per entrare in risonanza con la mia memoria, per situarsi nel fuoco di quell’istante nel quale l’esistenza si espone.

E ci sono dei termini o concetti che si avvicinano: sincerità, credibilità, attendibilità dei fatti, verificabilità, veridicità… e ancora altri; ma non si sostituiscono alla parola “verità”.

 

Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia?

Il nostro corpo e il nostro cervello presentano alla mente in forma di immagini e di pensieri il risultato di processi che sono per la mente stessa inafferrabili nelle dinamiche della loro realizzazione. Sembra che una parte considerevole della nostra coscienza ci presenti come “decisione razionale” qualcosa che ha già “messo in moto” per altre vie: veniamo a sapere che cosa hanno già deciso certi processi corporeo-cerebrali. La complessità della memoria, il suo lavoro a costruire, in un incessante lavorio, l’istante presente (ovvero il punto estatico di apertura del passato sul futuro) fornisce ipotesi, tracce, residui. Immaginiamo per noi stessi, empatizziamo, lasciamo le maschere di vite forse possibili forse per un istante messe alla prova. Siamo capaci di riconoscere un malumore da un “ciao” sussurrato al telefono e ci sfugge la malattia mortale del vicino seduto accanto a noi in treno per quattro ore. Veggenti e ciechi, insensibili e rabdomanti, attori a volte dei copioni da noi stessi immaginati, a volte incapaci di entrare nella parte che ci ha fatto piacere vederci assegnata.

Ancora una volta, la lingua è il luogo dell’incontro, e il fare una forma, componendo una lingua in poesia, è ritrovarsi insieme in questo luogo non solo faccia a faccia, come nella comunicazione, ma vita a vita (se si potesse ancora usare la parola anima senza venire beffeggiati, direi anima a anima):

  

Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro?

David Maria Turoldo ricapitolava Jürgen Moltmann tracciando questa differenza: l’avvenire è ciò che possiamo e dobbiamo aspettarci che verrà, quel tempo prossimo che è già nel presente, rispetto al quale facciamo previsioni e ci adoperiamo per la vita che ci aspetta nel tempo che il calendario mette in ordine con tutte le sue scadenze. L’avvenire è importante, certo, importantissimo, per i singoli, i gruppi, le intere società. Ma la dimensione del futuro è ben altro dall’avvenire: apre al possibile e all’inaudito, all’Eden e all’Apocalisse. Nella poesia è la stessa dimensione della lingua che opera nella memoria della lingua stessa per far sì che non sia già colma di senso – come per l’avvenire ci si adopera – ma per il suo stesso esporsi essa suggerisce un’esigenza di completamento, di donazione di senso all’incontro con il lettore. In questo senso la poesia funziona anche come una specie di enigma benefico, oracolo, oppure I Ching: la sua forma crea un margine di sovrasenso sempre mancante. Troviamo nella poesia – come accade per le domande di oggi nei grandi poeti del passato – una risposta obliqua alla domanda che non siamo in grado di formulare direttamente nel presente.

 

 La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi?

Andrea Zanzotto, che mi è stato maestro, aveva articolato la Storia (con la maiuscola), considerata l’attitudine al suo uso e all’abuso da parte della politica, in sottoinsiemi di diversa veridicità e consapevolezza, fino a raggiungere la microstoria (storie minime e delle persone che la storia non considera) e la storiella (racconto-passatempo, mezza verità, panzana o barzelletta). Nella direzione opposta accampava la poesia come storia al massimo grado, là dove il tentativo di veridicità poteva incontrare l’altro in un luogo di verità esistenziale. La poesia raccoglie nella sua forma la traccia per formulare le domande che interrogano la storia e attraverso di essa il presente. Faccio un esempio: si confronti la poesia Veglia di Ungaretti con Viatico di Rebora. Qual è la veridicità detta e qual è la verità che non si può dire su quella guerra e i sentimenti, le motivazioni che hanno spinto a combatterla e che ancora sono vivi?

 

Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra?

C’è un altro, forse anche molti altri, dentro di noi. Ci sono gli altri che hanno un volto, che vediamo in viso, con i quali condividiamo i luoghi fisici della quotidianità, in ogni luogo dove il nostro corpo si trova. Ci sono gli altri con i quali comunichiamo o che ci indirizzano un messaggio di qualche tipo. Ci sono poi tutti gli altri, una realtà spaventosa e allo stesso tempo liberatoria, perché tra tutti gli altri ci sono tutte le ipotesi di noi stessi ma noi non ci siamo, il che ci rende vicini a una qualche conferma – per difetto – della nostra esistenza.

Avviene l’incontro con qualcuno di questi altri, per vie che sono le più diverse. Poesia è lasciare che la vita decida qual è l’incontro vero, non avere fretta, non voler decidere tutto subito, non credere che una forma sia già data, occorre conquistarla, come quando si compone.

 

La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi?

La poesia è di parola. E la parola data vincola a un altro, non in astratto. Come non è mai astratta la giustizia che la poesia può generare e che riguarda proprio quel luogo del vivere, quel sentimento, quel paesaggio: riguarda proprio te. Paul Celan: “La poesia è come una stretta di mano”. Tra i molti sensi, sovrasensi e ammanchi di senso, questa frase dice di come una promessa può trovare nel corpo una conferma. Giusto sarà mantenere la parola all’altezza di questo gesto.

 

La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce?

It’s all so meaningless, we may as well be extraordinary,” disse un dì l’artista Francis Bacon, ovvero – il filosofo Alan Watts ci ha scritto un libro – esiste un sense of nonsense. Se vogliamo essere un po’ più precisi possiamo dire che la nostra mente non sopporta che non ci sia un senso là dove se lo aspetta e fa di tutto per crearlo. Tutto è reale nel momento in cui creiamo una relazione, anche ciò che definiamo in molti altri modi, fino a dirlo addirittura “irreale”. Il problema dell’agire, rispetto alla relazione di senso che chiamiamo realtà o, in senso peggiorativo, reale, riguarda la considerazione delle diverse sfere in cui agiamo. Fin dall’antichità, la sfera pratica e quella morale erano più facili da individuare. Più difficile era la sfera artistica. Da quando si è cominciato a distinguere la politica dalla morale (prima vi era accorpata) anche l’arte è meno distinguibile dalla politica.  Il problema più grande resta sempre l’arte.

E forse è arte proprio perché è il problema dell’agire. Che cosa si fa quando si fa arte? Nella misura in cui l’arte è un fare, l’artista lavora forme simboliche incandescenti (o almeno vorrebbe farlo) per farle in qualche modo stare nella realtà. E questo stare è risonanza interiore, appello, pro-vocazione e con-vocazione.

 

Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi?

Il bene non è dato, altrimenti sarebbe sufficiente l’obbedienza a qualcosa di riconosciuto come un bene. Ma è proprio questo riconoscimento che non si fa mai da fermi, mai in vitro, mai interamente da dentro e mai interamente da fuori rispetto a una situazione. Per questo la parola chiave, anche di quello che si dovrebbe raccontare, è ancora oggi esperienza. Non certo come esperienza già fatta, ma come ex-per- iri, venire da e andare attraversando, dove l’ex iniziale allude anche forse a un uscire, a trovare una certa postura estatica, il dentro del fuori e il fuori del dentro.

L’orizzonte di conclamato cinismo che condividiamo ci fa chiedere: Il bene di chi? E, per restare alla domanda, quali cose mettere al mondo che abbiano già lo stigma del bene? Non lo so proprio. Non credo si possa dire. Il bene forse è un processo secondo il quale l’intenzione buona non si accontenta di sé ma si interroga e si confronta con il miglior risultato in vista di un riconoscimento di sé attraverso gli altri. Ecco, non mi basta che gli altri mi riconoscano (come colui che ha fatto bene o il bene) ma vorrei riconoscere me stesso nel bene che gli altri fanno pervenire a me, anche indirettamente. Un modo per dire che il bene non è mio, e se posso raccontarlo è perché è grande la mia attenzione agli altri e a me stesso negli altri e, ancora oltre, dagli altri di nuovo a me stesso.

 

Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere?

Una sola: che cosa ci faccio qui, su questa terra?

 

Versi a commiato?

Gli ultimi del mio recente Il scappamorte, uscito da Amos editore a settembre:

 

qualcosa di intelligente prima o poi dovrai scrivere

pensi, ma non oggi, non qui dove sei, di ritorno

dalla domanda vecchia come il mondo: se la morte

è soltanto un sonno (è vero che sei sicuro

che sai di dormire, nel sonno?): saprai

nella morte di essere morto?

 

G. M. Villalta