Intervista a Valerio Magrelli

di

10 Dicembre 2019

Segni di percorrenza, tratto primo

In realtà, ogni cosa che accade, avviene in mondi e modi incalcolabili. La poesia permette che tutte le cose accadano allo stesso essere umano e che quell’essere umano forse siamo noi. È, in qualche modo, l’assicurazione necessaria che la vita di ognuno appartenga allo stesso mondo, di ogni tempo. E sul quale, qui e ora, abbiamo facoltà di lavorazione. La serie di queste interviste rappresenta un dialogo polifonico attorno a un vero, presunto o necessario ruolo sociale e umano della poesia, tra racconto e cambiamento.

 

 

Il complice

Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l’inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento sono tutte le cose.
Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che mi ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.

J. L. Borges

poeta
Valerio Magrelli, nato a Roma nel 1957, è scrittore, traduttore e professore ordinario di Letteratura francese all’Università Roma Tre. Ha pubblicato Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980), Nature e venature (Mondadori, 1987), Esercizi di tipologia (Mondadori, 1992). Le tre raccolte, arricchite da versi successivi, sono poi confluite nel volume Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi 1996). Sempre per Einaudi sono usciti Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e  Il sangue amaro (2014). Le sei raccolte sono state pubblicate in un univo volume intitolato Le cavie (2018). Fra i suoi lavori critici, Profilo del dada (Lucarini 1990, Laterza 2006), La casa del pensiero. Introduzione all’opera di Joseph Joubert (Pacini 1995, 2006), Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (Einaudi 2002, L’Harmattan 2005) e Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire (Laterza 2010). Ha diretto per Einaudi la serie trilingue della collana «Scrittori tradotti da scrittori». Tra i suoi lavori in prosa: Nel condominio di carne (Einaudi 2003), La vicevita. Treni e viaggi in treno (Laterza 2009, Einaudi 2019), Addio al calcio (Einaudi 2010) e Geologia di un padre (Einaudi 2013). Sempre da Einaudi, sono usciti due pamphlet in prosa; Il Sessantotto realizzato da Mediaset (2011) e Sopruso: istruzioni per l’uso (2019), insieme al pamphlet in versi Il commissario Magrelli (2018). È inoltre fra gli autori di Scena padre (Einaudi 2013). Nel 2002 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana. Collabora a «Repubblica» e tiene una rubrica sul blog il Reportage.

 

 

Che cos’è la verità, in poesia?

Innanzitutto è una verità di linguaggio, perché, in poesia, non esiste una verità esterna al linguaggio, La verità della poesia è quella che si trova all’interno della poesia, ossia all’interno di quel particolarissimo equilibrio, di quella delicatissima intersezione tra pensiero e linguaggio. Non esiste una verità che sia solo linguaggio, né una verità che sia solo pensiero. Direi che siamo di fronte a un regime fisico, a uno stato che si realizza solo a cavallo tra queste due polarità.

E con pensiero lei comprende anche sentimento, anima, spiritualità?

Certo, ma è un sentimento che non può esistere al di fuori della parola, altrimenti verrebbe affidato a un colloquio, a una predicazione. Bisogna sempre ricordare che si è all’interno di una condizione espressiva verbale. Altrimenti la poesia finisce per diventare qualcos’altro e così, letteralmente, in quel caso, scompare.

È una condizione per l’esistenza, quindi.

Sì. Bisogna ricordare che la poesia naviga tra due pericoli, tra Scilla e Cariddi: da una parte c’è il pericolo che diventi un esercizio stilistico fine a sé stesso; dall’altra, però, c’è il pericolo opposto, ossia che diventi discorso, elaborazione, ragionamento. Invece la poesia trova sempre l’equilibrio nelle sillabe, nella scansione alfabetica.

Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia?

Tutti gli esseri umani possono, anzi dovrebbero leggere poesia, ma solo in pochi riescono a farla, così come in ogni arte. Non si può pensare che scrivere riesca a tutti: è per tutti la sua fruizione, ma in pochi arrivano a realizzarla. Tra l’altro di questi pochi, pochissimi restano gli stessi nei secoli, perché il gusto cambia: magari un poeta che nell’Ottocento era adorato, oggi è dimenticato. Sono pochi i poeti che arrivano a un livello tale di intensità, di complessità, di perfezione da attraversare il tempo. Quindi noi dobbiamo cercare le loro voci.

E il poeta può vivere per i tutti?

La poesia è un dispositivo che viene attivato dal lettore – la poesia si compie in due. Non esiste un poeta senza un lettore. Solo che molti sono i poeti e pochi i lettori. Non esiste la poesia, se non serve ad animare una risposta nel lettore.

Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro?

Non lo so. Io sono sempre molto scettico sui discorsi troppo lontani dalla forma-poesia, dal lo specifico della poesia. La poesia ha una natura sillabica, vive nella parola, nella rima, in un plurale, in un punto esclamativo. Sono mosse minime che possono scatenare grandi emozioni. Ma bisogna sempre partire da un radicamento molto concreto.

E quindi il rapporto con il linguaggio rimane sempre e comunque l’atto creatore della poesia.  

Esattamente. Bisogna sempre tornare e partire da lì. La poesia è da sempre insidiata – questa è la parola giusta – dal teatro, dalla preghiera, dalla retorica, dalla filosofia. Io la vedo proprio come un essere inerme circondato da questi poteri molto più forti, poteri che non vedono l’ora di appropriarsene, e la strattonano continuamente. E allora la mistica cerca di tirarla a sé, il teatro prova ad approfittarsene, e così l’oratoria o la politica – tutti intorno alla poesia, che è molto più disarmata e molto più pura.

Forse l’essere inerme si potrebbe riconoscere non come un atto di debolezza, quanto piuttosto come un atto di resilienza.

Bello, su questo sono d’accordo con lei. Ma la debolezza della poesia è qualcosa di oggettivo: si pensi a quanti poeti, nel corso della Storia, sono stati costretti a lavorare per gli uomini politici, per i partiti. Però… sì, direi che, infine, sono vere entrambe le osservazioni: c’è qualcosa di indifeso e insieme di resistente nella poesia. Certo è che sono in molti a volersene approfittare.

La poesia è troppo impegnativa perché riesca ad avere un potere pratico. Basta vedere la classifica dei libri, basti pensare all’idea stessa di una classifica di libri. Una delle più grandi sciagure, assai più che l’avvento del best-seller, è stata l’idea di segnalare l’avvento del best-seller sui quotidiani. Lo dissi quasi trent’anni fa: pubblicare la classifica è un crimine, anzi, un’istigazione a delinquere, perché la gente comincerà a comperare i libri che vendono di più. Una specie di circolo viziosissimo, il cane che si morde la coda: invece che indicare i libri da leggere, si indicano quelli che vengono letti. Questo è un modo ulteriore per spossessare la poesia.

Ciò detto, la poesia resterà sempre un’occupazione di pochi, perché è comunque più faticosa di altre. È più semplice farsi trainare da qualcuno, che camminare per conto proprio, e la poesia invita appunto a camminare per conto proprio. È molto antieconomica, dispendiosa, impegnativa; piacerà sempre a un piccolo gruppo di fedeli, di appassionati. Da questo punto di vista, è davvero una religione del linguaggio.

La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi?

Può fare moltissimo e lo può fare, soprattutto, in mille modi. Una delle cose più belle, più umane della poesia, è la sua varietà. Una varietà straordinaria, che spesso tendiamo a dimenticare. Ecco, poesia implica la compresenza del poeta dialettale, del poeta sperimentale, di Penna e di Caproni, di un poeta cerebrale come Zanzotto e di un poeta spirituale come Luzi. Questo splendido ventaglio espressivo è la sua grande forza: ossia parlare dell’uomo in tutte le sue rifrazioni.

Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra? 

La poesia ha un grande compito oggi, perché la rivoluzione tecnologica e telematica ha completamente stravolto i nostri parametri e la nostra vita. Penso alle ore che i bambini o i ragazzi trascorrono soli davanti a immagini proiettate sugli schermi- è un isolamento, uno sradicamento da ogni forma di vero rapporto. Emmanuel Levinas parla dell’incontro tra gli uomini come di un incontro basato sullo sguardo – cosa c’è nello sguardo di un bambino che passa tre ore davanti a un videogioco? I pericoli sono aumentati. Per carità, io non amo il passato e mi fa orrore il culto degli anni trascorsi. Gli anni trascorsi erano una caterva di rovine, di orrori, e non abbiamo nulla da rimpiangere. Ciò detto, è necessario combattere contro le tentazioni dell’industria tecnologica che, pur di fare denaro, arriva addirittura a deformare la crescita di un individuo.
Bambini lasciati da soli davanti al televisore, condizioni sociali che obbligano le madri a questa scelta – perché io credo che potendo scegliere, nessuno abbandonerebbe un bambino davanti a un videogioco: questo modificherà profondamente anche le nostre capacità critiche. Non sapremo più leggere un libro, perché non ci saremo più abituati.
Dobbiamo dunque lottare molto a fondo, e la poesia deve essere uno stimolo verso l’accudimento del pensiero critico. Se dovessi dirlo in una battuta, oggi il compito dell’intellettuale consiste nel tenere viva questa fiamma.

E avere anche un apparato di rispondenza al mondo e all’altro.

Esatto. C’è anche la tutela dell’altro, che rischia di sparire. Si pensi alle chat, rapporti che ormai non esistono più dal punto di vista fisico. L’Altro, il nostro Prossimo, è fatto anche di odore, tatto, forse gusto… Attraverso la chat si esprime una scrittura smozzicata, con dieci termini e, anzi, nemmeno più alfabetica, ma costituita da semplici emoticon. Stiamo regredendo all’età della pietra.

La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi? 

Ho scritto un libro intero – intitolato Il commissario Magrelli – in cui parlo di questo. Io non mi riconosco in quella che oggi è la giustizia. Io credo che la Storia sia bipolare, si passa sempre da un eccesso all’altro, non c’è niente da fare. Siamo passati dalle torture, contro cui lottava in modo sacrosanto (anzi, laicissimo!) Beccaria, al totale lasciapassare di qualsiasi colpevole. Ma invece deve esistere una via di mezzo, devono esserci delle pene.
Né io, né il mio personaggio siamo forcaioli, eppure riteniamo che chi getta l’acido addosso ad una donna non debba più vivere in una comunità. Dovrà vivere isolato, in un albergo a cinque stelle, magari – non voglio nessuna forma di accanimento – ma sottoposto a un istituto democratico come l’ergastolo (che in un referendum di pochi anni fa è stato rivendicato da quasi l’80% degli italiani). Posto che, naturalmente, le carceri siano umane, vengano sorvegliate, e consentano al detenuto uno stile di vita dignitoso.
Chi uccide, ha perso il diritto di vivere in una comunità, perché questo diritto va meritato. Se tu deturpi una donna o violenti un bambino, devi essere semplicemente “messo da parte”, senza accanimento, senza vendetta. Ma anche senza permessi premio, perché la tua vittima non avrà più permessi premio.
E finché la Sinistra, soprattutto la Sinistra cattolica, non capirà questo, io mi rifiuto di discutere di femminicidio. Che senso ha continuare a parlarne, quando il colpevole non viene perseguito?
Io voglio perseguire democraticamente i colpevoli: questo è il mio sogno infantile, e come tutti i sogni infantili non si avvererà mai. Almeno, però, posso divertirmi a esprimerlo.
Inutile dire che ciò mi ha fatto litigare con molti amici che pensano di essere di sinistra, quando sono semplicemente dalla parte dei colpevoli. Io scelgo solo di stare dal lato delle vittime. C’è una bellissima frase di Emmanuel Carrère, che dice: “Non mi chiedete d’avere compassione per i colpevoli, la mia è finita tutta nelle vittime”.

La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce?  

Sì, la poesia nasce dalla realtà, è impregnata dalla realtà ed è una riflessione sulla realtà. Dopo di che, il lettore dovrà, più o meno, farla propria. In alcuni casi, mi è capitato di leggere versi che mi hanno fatto capire quello che stavo vivendo. Versi che possono avere addirittura un portato di rivelazione. 

Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi?

Io ho provato a raccontarlo in varie occasioni, ognuno prova a farlo a modo suo. C’è una poesia in cui io scrivo di essere in bagno, di lavandomi i denti e di sentire mia figlia che canta dall’altra parte della parete. E scrivo: “Può bastare”. A volte mi rendo conto che perdiamo il senso delle proporzioni – per cui una cosa così piccola, in realtà, può rappresentare lo scopo di una vita. Cosa c’è di più bello di avere una figlia che, a metà pomeriggio, si mette a cantare? Direi che potrebbe essere l’obiettivo di una vita, no?
Che poi, magari, uno esce e se ne scorda. In questo caso, allora, la poesia è servita a fermarmi, a ricordarmi che le cose veramente grandi sono queste. È il canto di tua figlia dall’altra parte della stanza. Purtroppo le scorie ci avvelenano. Ecco, forse la poesia è un modo particolare di eliminare le scorie – da qualche parte l’ho anche scritto.

Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere? 

Forse la domanda che io credo sia più importante, per la repellente qualità delle persone che mi circondano nella città di Roma, è: “Perché non lasci in pace il tuo prossimo?”. A mio parere, ciò che manca nel nostro mondo occidentale, per quanto privilegiato, è il rispetto del prossimo. Tant’è vero che ho scritto un libro intitolato Sopruso: istruzioni per l’uso, in cui affermo: “Ama il prossimo tuo come il tuo prossimo vorrebbe essere amato”, e non “come te stesso”. Ecco, vorrei che obbedissimo tutti a una specie di nuovo comandamento: “Non infastidire il prossimo tuo”. E se questo venisse seguito, vivremmo molto meglio.

 Versi a commiato?

Da “Il sangue amaro”:

Raccoglimento

Mia debolezza, debolezza mia,
ma che devo fare con te?
Ho cinquant’anni e tremo quando tuona,
e sbaglio ancora posto
come quando sbagliai banco all’asilo.
Ho un corpo trapunto da graffe,
il sonno come un campo di macerie,
la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi,
e in questo Grande Sfascio, l’unica cosa intatta resti tu,
mia ferita, mio Graal, codice a barre
di un estraneo che è leso, che è fallato,
costretto a essere me.
Mia debolezza, talpa del nemico,
creaturina indifesa che mi rendi indifeso,
il solo, vero premio della morte
sarà saperti morta insieme a me,
mio motore,
mio orrore,
mia consustanziale sconfitta.

 

V. Magrelli