L’Algeria ai tempi dell’hirak

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17 Giugno 2020

Il movimento di protesta ha ottenuto che Bouteflika non si ricandidasse, ma non è più disposto ad accontentarsi

In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.

Sta a tutti voi disegnare il vostro futuro e dare forma ai vostri sogni. Non lasciate che rovinino le vostre nobili lotte. Non lasciate che vi rubino il trionfo
Djamila Bouhired

L’ottantaquattrenne Djamila Bouhired, eroina della guerra d’indipendenza algerina, così si rivolgeva ai giovani dalle colonne del quotidiano al-Watan, più o meno un anno fa. Parlava ai ragazzi e alla ragazze, in particolare, ma a tutto l’hirak, il movimento che scuote l’Algeria fino alle sue fondamenta. E che dopo aver vinto una battaglia, costringendo l’establishment a non ricandidare Abdelaziz Boutleflika, ora vuole vincere la guerra cambiando il gigante del Nord Africa.

A queste parole ha fatto eco, a marzo, l’attrice algerina naturalizzata francese Lyna Khoudri, che ha citato Bouhired quando ha vinto il premio César per la miglior debuttante al Festival di Cannes, riconoscimento ottenuto per la sua interpretazione nel film Papicha , di Mounia Meddour, ambientato durante la guerra civile algerina.

Due elementi in comune, generazioni lontane, ma due donne e lo stesso principio: riprendersi il futuro. E il collegamento ai valori della rivoluzione algerina.

Mariam, con i suoi 40 anni, è tra la generazione di Lyna e quella di Djamila. Mariam è una coreografa e, nel 2011, era tra coloro che ci hanno provato.

“Tutto accadeva in modo veloce, come un incendio. Nel 2011, a gennaio, per troppe famiglie algerine, olio, pane e zucchero costavano troppo. Semplice. Per tante persone, come me e i miei amici, in tanti ambienti delle grandi città, esistevano istanze politiche delle quali si discuteva da tempo. Per i miei genitori, però, era diverso. Era un sistema marcio, fino alle fondamenta, ma era quello che conoscevano. Non erano felici, proprio come me, ma avevano paura. Fuori dalle città, nelle campagne e lontano dai centri del potere, la gente semplicemente non conosceva un’alternativa. Al potere dei francesi si era sostituito il partito. Si faceva quel che Algeri diceva. Solo che non potersi permettere i generi di prima necessità – di colpo – diventava la più politica delle istanze. E io e i miei amici, in quella rabbia, abbiamo visto un’occasione.”

Dell’Algeria, durante le rivolte arabe, si è parlato pochissimo, ma anche ad Algeri e altrove qualcosa si muoveva. Due vittime negli scontri in piazza già a gennaio 2011. “Quanto accadeva in Tunisia, per la mia generazione, era come un sogno. Tutto quello che i nostri genitori ci avevano insegnato a temere, all’improvviso, stava accadendo. Le persone scendevano in piazza, urlavano il loro disgusto per i Ben Alì di questa terra. Eravamo come ubriachi: nessuno pensava che potesse accadere. Semplicemente. L’idea era sempre stata: l’ordine che conoscevamo, corrotto e ingiusto, o il caos. Questa è stata la prima, e profonda, differenza con quanto accade oggi. Ricordo i miei che, tra mille timori, alla fine, stavano con me incollati alla tv a vedere cosa accadeva a Tunisi, al Cairo, a Damasco e altrove. In fondo volevamo le stesse cose, solo che io pensavo fossero possibili, almeno ci credevo allora, loro no. I miei avevano vissuto la guerra civile, la guerra sporca. Sapevamo come reagiva il sistema ai tentativi di cambiamento. Per tutti gli anni Novanta avevano vissuto nel terrore: per i loro figli, le loro case, il loro lavoro. Mi ascoltavano, cercavano di tenermi in casa, ma alla fine cedevano. Solo che leggevo nei loro occhi il terrore. La libertà era un desiderio, come una macchina che non puoi permetterti. Ma sapevano che se avessero tentato di rubarla, quella macchina, saremmo ripiombati nell’incubo di quegli anni.”

Un incubo che, con le ingerenze dei servizi segreti francesi, con le infiltrazioni degli estremisti nelle file degli islamisti, videro dal 1992 (dopo le prime elezioni libere del paese dall’indipendenza dalla Francia nel 1962) a tutto il 1999 – con code fino almeno al 2002 – non meno di 150mila vittime. Le elezioni le avevano vinte gli islamisti, ma il ‘sistema’ emerso dalla lotto d’indipendenza, che alla fine ruotava attorno all’esercito, non accettò il risultato delle urne.

“La generazione dei miei genitori, figli dell’indipendenza, finì per non fidarsi più del potere. Ma lo accettarono, per paura. Bouteflika, alla fine, divenne il garante di uno status quo. Per loro, per l’establishment, tenerlo in vita era come rimandare sine die il giorno della verità: che sarà dell’Algeria? Ma nel 2011 le cose non erano pronte: troppe ferite, troppe lacrime. Non lo capimmo subito, ma alla fine le cose iniziarono a sfumarsi in quel ricatto perenne: o il sistema o il caos.”

Nel 2019, invece, pian piano, si crea un movimento di massa. “A marzo 2019, quando si è saputo che un uomo malato, che andava a votare spinto sulla carrozzina, sarebbe stato candidato di nuovo, non siamo riusciti a stare fermi. Non era possibile che, anche di fronte all’evidenza, mentre erano in corso da anni manovre feroci tra i corridoi dei palazzi del potere, questi pensassero di poterci umiliare così. Ecco, è stata l’umiliazione. Ho visto la rabbia negli occhi dei miei genitori, dei miei vicini. E io, per la prima volta dal 2011, giorno dopo giorno, ho iniziato a crederci di nuovo. Anzi, questa volta il processo è stato inverso: io e i miei amici, come generazione, siam stati tra gli ultimi a prendere coraggio, a crederci. Noi siamo i delusi del 2011, invece i miei genitori e quelli più giovani di me hanno detto basta.”

Ed è tempo di hirak, movimento. Per mesi sono scesi in piazza a centinaia di migliaia. Senza sosta. Il regime algerino ha vacillato, ha pensato all’uso della forza, ma il movimento è maturo, ha imparato le lezioni del passato. Ha tenuto botta. E ha raggiunto il primo obiettivo: il ritiro della candidatura assurda di Bouteflika. Nonostante la debolezza del movimento, vera o presunta, di non avere leader.

“Perché debolezza? Un movimento senza leader, ma con tante voci, è più difficile da reprimere. I leader li arresti, li corrompi. Hanno arrestato decine di persone, anche durante il confinamento per il virus, anzi, hanno approfittato del coronavirus”, racconta Mariam. “Arrestano, minacciano, cercano i spaventarci. ‘Arriveranno i fondamentalisti, i berberi vogliono la secessione’, dicono, ma ormai non gli crede più nessuno. Con l’idea che l’alternativa fosse peggio, ci hanno rubato decenni della nostra vita. Non ci fermeremo. Per chi come me, per chi ha quaranta anni, c’è una vita intera da riscattare. I giovani hanno il futuro, i miei genitori e i miei nonni hanno vissuto l’indipendenza, anche con tutto quello che è venuto dopo. Ecco, nessuno, per svariati motivi, ha più voglia di fermarsi. E il regime, per la prima volta, è debole e diviso. Il crollo dei proventi del petrolio lo mette in crisi – racconta Mariam – questo mette in crisi il controllo sociale. Andremo avanti, avremo la nostra di rivoluzione. Non ci accontentiamo più: questa mafia – politica, economica, militare – è il nostro colonialismo. E come quelle donne e quegli uomini di allora, dobbiamo liberarci per sempre.”