Belfast Boy

di

21 Dicembre 2021

Una storia inedita di George Best

 

Nel 1969 ho lasciato perdere le donne e l’alcol: sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita
George Best

Maradona good, Pelé better, George Best. Così recitava uno striscione nella natìa Belfast, il giorno del funerale che riunì una città e una nazione divisa da sempre”.

Best è stato un artista del pallone, Best è stato un alcoolizzato, Best è stato ossessionato dalle donne. Best è stato un’icona cool prima che la categoria diventasse una sorta di lavoro pagato dalle aziende, essendo allo stesso tempo uno dei primi a prendere soldi dalle aziende.

Best è stato molte cose, ma lo è stato sempre fuori dagli schemi. Un libro, Belfast Boy, dell’editore, traduttore e scrittore Stefano Friani, edito da Milieu edizioni, ossessionato dal pallone, lo racconta in maniera magistrale.

Nato in una famiglia umile a Belfast, prima che le divisioni confessionali e la discriminazione dei cattolici portasse alle feroci contrapposizioni dei Troubles, ai muri e alle lotte di murales, George è un predestinato del pallone. La squadra del cuore, sua e di famiglia, il Glentoran, lo scarta per un fisico troppo esile.

Sarà il prologo di una storia che lo ha bruciato troppo in fretta, divisa in un prima e in un dopo: la finale di Coppa dei Campioni del 1968, a Londra, tra il suo Manchester Utd e il Benfica del mitico Eusebio. Vincerà il Manchester, Best sarà un dio, riconosciuto dal prestigioso trofeo del Pallone d’Oro.

Ha solo 22 anni, è sul tetto del mondo, solo che non riesce a starci.

Best non è Maradona, per nulla. Best è il cortocircuito, Best è l’inciampo, l’occasione mancata. I due sono accumunati solo dal talento sovranaturale e dalla fragilità delle dipendenze, ma per il resto sono lontani anni luce, per quanto – in maniera differente – unici e irripetibili.

A partire dal numero di maglia: per sempre il numero 7 sarà la seconda scelta dei talenti puri, dopo il 10, e l’associazione mentale con Best è relativa, perché il genio nord – irlandese in realtà userà spesso il numero 11 e il numero 8.

E la politica: Best, figlio di protestanti, è lontanissimo dal prendere posizioni pubbliche, come invece Diego, anche a sproposito, per una sorta di bulimia di giustizia, farà per tutta la vita. Diego si nutre di popolo, George passerà tutta la vita in fuga dal popolo, che lo acclama comunque.

Nonostante per lui la guerra in Irlanda del Nord resterà un rumore lontano, che lo porta a essere una delle poche icone che unisce Belfast, mentre dopo gli anni d’oro si perde in una carriera surreale, tra comparsate in Australia e Stati Uniti d’America, passando per una seconda. – breve – giovinezza al Fulham F.C. Lo ameranno comunque.

Pensate: all’alcoolizzato Best viene trapiantato il fegato, ma poche giorni dopo viene fotografato mentre si sbronza in un pub. Un’immagine terribile, la documentazione di un egoismo autodistruttivo feroce, eppure il popolo perdonerà a Best anche quello.

Diego ha passato la vita a cercare di essere amato, George ha speso la sua vita a far di tutto per non esserlo, ma non potendo mai liberarsi dell’amore della gente.

L’alcool è un demone, come per sua madre, Best  – appassionato di aforismi, con una predilezione per Oscar Wilde, non lo ha mai nascosto, anzi, ostentato: in televisione, nelle interviste, nelle sceneggiate pubbliche con le varie amanti e mogli, con le sparizioni  che facevano impazzire i club per i quali giocava. Ma la gente lo amava.

Il motivo di tanto amore sta in un’altra declinazione degli eroi maledetti dello sport. Best era amato, forse più di ogni altro, solo e soltanto perché era un artista del pallone.

Era bello, certo (resta memorabile il suo aforisma ”Se io fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé”), era cool, certo, era il primo della sua generazione a rompere con gli schemi della società britannica, ha fatto il ’68 prima del ’68, ha influenzato la moda del tempo.

Ma sempre in fuga, dalle responsabilità che il suo talento comportava, da un calcio che. – giorno dopo giorno – si professionalizzava e iniziava a essere schiavo del marketing, ma non denunciando, prendendo posizione: fuggendo.

Best è il racconto, splendido, di una grande fuga, che Friani coglie in pieno, sfuggendo a sterili romanticismi alla Buffa che furoreggiano in podcast e tv, restando su un piano umano e fallibile, che non prevede miti se non vuole costruire eroi.

Best è uno di noi, troppo fragile per un mondo sempre più feroce di competizioni e storytelling che racconta i vincenti. E la cultura dei nostri giorni vede anche il ‘talento’ come un’occasione perduta di business. Best vedeva il calcio come divertimento, per lui e per il pubblico, dentro e fuori dal campo.

Best, come ben racconta Friani, è una sorta di sindacalista a tempo pieno del sacrosanto diritto di non sentire la pressione liberista del talento come un valore da non sprecare, come un bene da ottimizzare. No, Best è il manifesto della libertà di sbattersene delle aspettative degli altri.

Il libro di Friani non vi racconterà un mito, ma una persona, che giocava a pallone da Dio e che amava dire frasi a effetto, che han finito per diventare un racconto feroce del nostro tempo e dei cambiamenti sociali che ci capitano attorno.

Sarebbe bello, alla Best, girarsi in un fazzoletto e seminando terzini e stopper volare sulla fascia, con attaccata al piede la palla della vita, ignorando i compagni meglio piazzati, solo per il gusto di farlo, senza un fine o un’utilità come scopo.