Dal “paese delle meraviglie” alla “città dei prodigi”

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19 Giugno 2019

Non di solo potere vive la politica, soprattutto quella della trasformazione sociale e culturale, ma è attraverso questa lente che, a nostro parere, si può cercare di capire quanto è accaduto in queste settimane a Barcellona attorno all’investitura di Ada Colau come sindaca della città

Il voto del 26 maggio ha consegnato in Catalogna uno scenario che conferma sostanzialmente, seppur con espressioni di voto duale tra municipali ed europee, le tendenze emerse il 28 aprile in occasione delle legislative statali. Quel voto tradizionalmente più di appartenenza che è solito esprimersi in occasione delle consultazioni per il Parlamento di Bruxelles ha dato la vittoria alla lista promossa dell’ex Presidente Carles Puigdemont, Junts per Catalunya (JxC) con il 28,5% dei voti; seguono il PSOE (22,1%) ed ERC (21,2%), Ciudadanos (8,6%), En Comú/Podem (ECP, 8,4%), PP (5,2%) e Vox (2%). Un risultato ancora una volta in controtendenza rispetto al resto dello Stato dove il PSOE conferma la vittoria di un mese prima (32,8%) ai danni di PP (20,1%), Ciudadanos (12,7%), Unid@s Podemos (10%) e Vox (6,2%).

Le elezioni europee in Spagna funzionano a circoscrizione unica ciononostante i nazionalismi sub-statali inviano a Bruxelles un totale di 6 deputati: 3 di Ahora Repúblicas (alleanza promossa da ERC, EHBildu e BNG), 2 di JxC e 1 per la lista promossa dal Partito Nazionalista Basco. Tra questi deputati, uno (Oriol Junqueras) è sotto processo a Madrid per ribellione e sedizione e due (Toni Comín e l’ex Presidente catalano) sono in esilio a Bruxelles. Se osserviamo invece il voto alle municipali possiamo notare un travaso di voti e una sostanziale congruenza tendenziale con i risultati del 28 aprile (per la cui analisi rimandiamo al precedente articolo). ERC si riafferma come partito maggioritario (23,48%) superando i socialisti (21,92%), JxC (15,39%), ECP (8,67%), Ciudadanos (7,96%), CUP (3,47%) e PP (3,1%).

Il voto municipale ci consegna, in primo luogo, la prima mappatura municipale dopo l’autunno 2017, consegnandoci una prima idea dell’articolazione dell’appoggio elettorale ottenuto dalle offerte politiche in campo ad un livello molto legato alla quotidianità della cittadinanza; al riguardo non bisogna dimenticare che l’AMI (associazione di municipi per l’indipendenza) è stata uno dei motori del processo per l’autodeterminazione.

Questo voto quindi è in grado di fornirci conferme o interessanti indicazioni che cercheremo di riassumere in maniera brevissima. ERC diventa il partito più omogeneamente rappresentativo a livello territoriale, con una ripercussione indiretta in consigli provinciali e di contea, nonché il principale partito indipendentista; diciamo che a livello territoriale ERC diventa ciò fu un tempo CiU però con la differenza di una forte penetrazione anche nelle aree urbane e hinterland metropolitano di Barcellona.

I socialisti invertono la dinamica negativa dell’ultima decade soprattutto a danno di Ciudadanos, che pare entrare in una crisi verticale data l’assenza totale di progetto politico al di là della sua perenne ipertrofia discorsiva in difesa della nazione spagnola. Le opzioni di sinistra alternativa, i cosiddetti Comuns (ECP), e indipendentista anticapitalista (CUP) entrano in un processo di crisi di indole e ragioni differenti. Per i primi si tratta della certificazione di una perdita di peso specifico a causa soprattutto della mancanza di progettualità chiara rispetto alla questione dell’autodeterminazione. Sulla questione i Comuns hanno cercato di sistemarsi astutamente in una studiata equidistanza tra nazionalismo di Stato e unionismo, da una parte, e indipendentismo, dall’altro, dovendo praticare la pericolosa arte dell’equilibrismo fino all’inazione nel momento in cui il processo catalano stava mettendo in scacco lo Stato-nazione.

Riesce difficile pensare che una forza nominalmente di sinistra radicale non abbia saputo leggere il maggior momento di crisi di quel sistema politico che essa stessa vuole ribaltare, e questo proprio nel momento in cui tale crisi si verificava davanti ai suoi occhi. L’idea di fondo di trarre reddito elettorale da una posizione di centralità ha invece finito per costare molto cara ai Comuns che, al contrario, hanno finito per sfrangiarsi in uno stillicidio di abbandoni, scissioni, espulsioni de facto: Som Alternativa, Nova, Sobiranistes…

Ciononostante, questo spazio politico ha manifestato più volte il suo appoggio ai prigionieri politici catalani, il cui momento di maggior importanza è stato senza dubbio la deposizione dinnanzi al Tribunal Supremo di Ada Colau come teste della difesa. Sembrerebbe esaurita quella forza propulsiva che, in pieno auge del processo per l’autodeterminazione, aveva fermato lo sgretolamento allora in corso della sinistra alternativa rosso-verde catalana (ICV) erede del partito comunista catalano (il PSUC). La nascita di Podemos a Madrid, pur essendo una forza irrilevante in Catalogna, aveva aperto un nuovo orizzonte di alleanze a livello statale attorno all’idea federalista e la creazione di un nuovo patto politico-istituzionale di rifondazione delle istituzioni dello Stato.

L’emergere del movimento dei Comuns a Barcellona aveva rinvigorito uno spazio politico in esaurimento e senza più capacità di esercitare egemonia a sinistra né di differenziarsi chiaramente dai socialisti, oltre che assediato ideologicamente dalla via indipendentista di sinistra. I risultati elettorali ottenuti in questo ciclo elettorale sembrerebbero segnalare un ritorno ai blocchi di partenza.

Di differente indole però ugualmente sfaccettata la crisi della CUP. Senza dubbio pesa sulla formazione indipendentista anticapitalista la contraddizione insita nell’alleanza tattica con forze indipendentiste più lontane ideologicamente, a cominciare dal post-pujolismo indipendentista di JxC.

Questa alleanza, tattica appunto, è sostenibile nel breve periodo ma in un processo di autodeterminazione così lungo e (a quanto pare) senza risultati concreti all’orizzonte genera un inevitabile processo di erosione dei principi e obiettivi strategici della CUP, che sul “che fare” e l’apertura delle alleanze risulta essere solcata internamente da opzioni differenti, che in alcuni casi è possibile ricondurre a una genealogia dotata di continuità nella sinistra indipendentista del 1968 ad oggi.

Inoltre alcune rigidità da parte della CUP a entrare nel gioco normalizzato della politica non hanno aiutato: l’autoimposta non rinnovabilità dei mandati istituzionali garantisce un rinnovo, previene il cesarismo ma disorienta l’elettorato e finisce per privare l’organizzazione di competenze e continuità importanti in politica; la scelta di non partecipare né alle legislative né alle europee ha sommerso la CUP in una relativa invisibilità. Ma forse la questione che ha pesato maggiormente è stata quella della chiusura in falso del ciclo di ribellione civile del 2017, dove ha dominato la progressiva disattivazione dall’alto della disobbedienza civile, dell’autorganizzazione popolare e di quell’insieme di iniziative e istanze rappresentate dai CDR (i comitati di difesa della repubblica).

Come anticipato, il partito della credibilità unionista diventa il PSOE catalano che riconquista gran parte delle posizioni municipali perse quattro anni fa. Questo accade a danno di Ciudadanos però anche a danno dei Comuns. Questi prima delle elezioni hanno perso pezzi di partito verso l’indipendentismo (soprattutto verso ERC) ma stando all’analisi dei flussi elettorali nell’area di Barcellona (ovvero l’osservazione incrociata dei voti persi e ottenuti da Comuns e socialisti in determinati comuni e quartieri) adesso hanno perso voti verso i socialisti. Sia Ciudadanos che ECP non sono riusciti a fidelizzare questo elettorato occasionale, ci si permetta il pessimo termine da venditori. Cosa che potrebbe annunciare un loro forte ridimensionamento in un futuro nemmeno poi tanto lontano e una possibile strategia di recupero di questo elettorato.

Lacrime di coccodrillo…

La mappa del potere municipale la decidono però gli accordi d’investitura e i negoziati previ: JxC ottiene la guida di 370 municipi, ERC 359, i socialisti 89, la CUP 19, i Comuns 12 e uno solo il PP. Si tratta ovviamente di dati quantitativi che mettono però in evidenza la fragilità strutturale dei risultati ottenuti nel dicembre 2017 da Ciudadanos e la precarietà del PP catalano; a questi poi va aggiunto che Vox ottiene in Catalogna solo due consiglieri comunali.

A questi dati quantitativi bisogna affiancare quelli qualitativi che ci svelano quali sono invece le forze con maggior peso nei centri più popolosi, nelle capitali di provincia e contea, nei centri economicamente più significativi o simbolicamente rilevanti. Da questo punto di vista ERC e JxC si dividono in maniera abbastanza equa i governi municipali mentre nell’area metropolitana della capitale i socialisti fanno il pienone. Ciononostante sarebbe impossibile ricercare un paradigma unico e coerente nella composizione dei differenti governi municipali e delle maggioranze o minoranze qualificate che le sostengono.

Ad esempio si possono contare fino a una cinquantina di patti di governo tra socialisti e partiti indipendentisti in cui le dinamiche municipali hanno avuto priorità sulle direttive politiche provenienti da Madrid di creazione di cordoni sanitari che impedissero l’accesso al potere locale da parte dell’indipendentismo. Una seconda linea di tendenza è rappresentata dagli accordi municipali tra forze progressiste e di sinistra. Ma in generale ce n’è per tutti i gusti: a Tarragona il candidato di ERC diventa sindaco con l’appoggio di JxC, Comuns e CUP; a Lleida Comuns e JxC appoggiano il candidato repubblicano mandando i socialisti all’opposizione dopo quarant’anni; a Sant Cugat la sindaca di ERC ottiene l’appoggio di socialisti e CUP smantellando un feudo pujolista; a Badalona le sinistre alternative di Guanyem Badalona (CUP più Comuns) ed ERC si fanno da parte per evitare l’investitura dello xenofobo Albiol (PP) a favore del candidato socialista; a Terrassa la candidatura civica del socialista dissidente anti-unionista fa il pienone e viene appoggiata dalle forze indipendentiste contro il candidato socialista ufficialista; a Sabadell Podem raggiunge un accordo per investire la candidata socialista preferendola a un governo di sinistra alternativa con Comuns e CUP.

In questo quadro generale esiste però un’eccezione, quella di Barcellona. Qui il risultato ha consegnato un voto maggioritariamente di sinistra moderata e progressista caratterizzato eccezionalmente dalla tenuta elettorale dei Comuns: ERC (21,35%, 10 seggi), Barcelona en Comú (BEC, 20,71%, 10 seggi), socialisti (18,40%, 8 seggi), Ciudadanos (13,20%, 6 seggi), JxC (10,47%, 5 seggi, tra i quali quello del candidato sindaco, il prigioniero politico Joaquim Forn), PP (5,01%, 2 seggi). Al successo di ERC, che per la prima volta dagli anni della Seconda Repubblica vince a Barcellona città, fa da contraltare la sparizione della CUP (3,89%) dall’assemblea municipale, mentre un’altra formazione indipendentista, l’ultraliberale Primàries (3,74%), resta fuori (qui un’analisi di questa opzione minoritaria nell’indipendentismo).

L’indipendentismo così come il sovranismo catalano (in cui si riconosce programmaticamente la lista della Sindaca uscente Ada Colau) si orientano chiaramente verso differenti gradazioni di sinistra e sia JxC che Primàries ottengono risultati modesti; ad esempio nel caso di JxC si può notare uno scarto di 12 punti rispetto al 2015 e di 19 rispetto al risultato delle europee. La notte delle elezioni tutto (incluse le lacrime della Colau) faceva presagire un sindaco di ERC sostenuto da un governo di minoranza con i Comuns e maggioranze a geometria variabile attorno a misure progressiste (da votare con i socialisti) e misure di sovranità nazionale e disobbedienza effettiva (da apporvare con l’appoggio di JxC). Uno scenario di questo genere, articolato attorno alla figura del sindaco repubblicano in pectore, l’ex socialista Ernest Maragall, fratello del celebre sindaco della Barcellona olimpica poi Presidente della Generalitat, veniva dato come sicuro ma anche pericoloso dai potenti della città; tra questi l’editoriale del giorno dopo del quotidiano per eccellenza delle classi dirigenti della città, “La Vanguardia” dei Conti Godó. Coloro che solitamente determinano i destini della città lontano da bisogni e decisioni dell’elettorato e che hanno avversato in tutti i modi l’amministrazione Colau uscente avevano in realtà visto di buon occhio la candidatura di Maragall; fratello di Pasqual, discendente di un’illustre famiglia della buona società barcellonese, Ernest sembrava essere il male minore dinnanzi alla “comunista” Colau perché capace di togliere voti ai Comuns mentre Valls (pensavano) avrebbe fatto il pienone di voti unionisti e d’ordine vincendo le elezioni.

Questo fino al risultato tangibile delle elezioni, con il fallimento dell’operazione Valls, e al discorso di celebrazione post voto di Maragall presso la sede elettorale di ERC. Queste élites avevano investito molto sull’ex primo ministro francese come alternativa unionista, d’ordine e padronale ai Comuns, fino ad arrivare (si è saputo in questi giorni) a garantirgli un congruo stipendio di 20.000 euro mensili per pagarne i servigi e lo stile di vita lussuoso.

Il materializzarsi dell’ipotesi di un sindaco indipendentista mette in allarme nel giro di poche ore tutti i poteri forti della città. Il leader dei socialisti catalani, Iceta, dichiara immediatamente che Barcellona non avrà mai un sindaco indipendentista. L’ex primo ministro francese (di origini barcellonesi) candidato sindaco per Ciudadanos, fa altrettanto offrendo i propri voti alla Colau. Curiosamente i due si erano abbondantemente sfidati in campagna apostrofandosi reciprocamente come il peggior male della città.

Emarginato dal voto degli elettori Valls riesce a mettersi al centro del dibattito politico apparendo come il generoso candidato “costituzionalista” che offre appoggio alla Colau per evitare che Barcellona abbia un sindaco indipendentista. La Colau dal canto suo si propone come sindaca a guida di un governo di coalizione con ERC e socialisti. Qui la chiave di volta dei negoziati per l’investitura del nuovo governo della città. Si fa largo tra i Comuns l’idea secondo la quale si sta aprendo un’opportunità per restare al governo della città e socialisti e Valls scavano in questa legittima aspirazione fino a farne emergere tutte le contraddizioni.

Ne derivano dei negoziati che alla vigilia della seduta di costituzione del municipio consegnano un accordo di governo di minoranza tra Comuns e socialisti che prevede l’appoggio di tre dei sei consiglieri della candidatura di Valls per raggiungere i 21 voti necessari per l’investitura. La lista di Valls presta effettivamente 3 dei suoi 6 voti alla Colau che viene rieletta sindaca a guida di un governo di coalizione di minoranza con i socialisti e la coalizione tra Valls e Ciudadanos si rompe generando due gruppi municipali separati. Per la prima volta nella storia recente, dalla restaurazione della democrazia dopo il franchismo, Barcellona non sarà guidata dalla lista di maggioranza relativa bensì da un governo di minoranza a questa alternativo.

La battaglia per Barcellona

Fin qui la cronaca breve dei fatti. Questa però merita di essere analizzata e contestualizzata. In primo luogo sarebbe utile partire da un bilancio dell’amministrazione Colau uscente. Questa nel 2015, dopo aver costruito un accordo di governo di minoranza con i socialisti, ha tirato avanti senza appoggi (con 11 consiglieri su 41) riuscendo a governare solo grazie alle considerevoli (anche se limitate) prerogative che il sistema spagnolo concede ai sindaci.

Si tratta per questo motivo di un bilancio di legislatura complesso. Da un lato l’amministrazione Colau ha portato per la prima volta al governo della città istanze fino a quel momento relegate alla protesta e rivendicazione, introducendo tematiche e linguaggi decisamente nuovi, dall’altro si è mostrata precaria, non solo per questioni numeriche, se messa a confronto con le grandi promesse fatte nel 2015, la maggioranza delle quali non mantenute o disattese. Anche in questo senso bisogna osservare che invertire l’inerzia di gentrificazione e mercificazione in una città come Barcellona è oltremodo complesso. In secondo luogo, la campagna elettorale è stata un tutti contro Colau, rea secondo socialisti e Valls di aver offerto la città all’indipendentismo e la sedizione anti-spagnola e abbandonarla ad ogni tipo di illegalità diffusa, o accusata da ERC e JxC di essere colpevolmente equidistante sulla questione della realizzazione effettiva e non solo discorsiva di un programma di autodeterminazione e sovranità popolare.

In terzo luogo, e cosa forse più importante di tutte, l’analisi dei programmi elettorali in lizza suggeriva una sostanziale compatibilità tra ERC e Comuns, anche tenendo presente la provenienza colaista di parte della lista repubblicana. In quarto luogo, bisogna ricordare le promesse frutto della dialettica di campagna in cui la Colau ha ribadito, letteralmente e pubblicamente, che mai avrebbe accettato i voti di Valls o le dichiarazioni di socialisti e Valls sulla necessità urgente di estromettere la Colau dalla guida della città.

Ma allora, com’è potuto accadere che i Comuns, interpellati dai loro dirigenti, optassero per conservare il comune attraverso una coalizione con i socialisti e grazie ai voti prestati da Valls? La risposta è facile e si chiama conservazione del potere. I Comuns hanno preferito conservare il potere con un’offerta meno progressista e meno sovranista piuttosto che far parte di un programma più coraggioso ma a guida Maragall. Tra le conseguenze di questa scelta c’è innanzitutto la discesa dei Comuns sul terreno della politica cosiddetta “tradizionale”, ovvero della politica per ciò che è, delle scelte da politicanti navigati che preferiscono governare piuttosto che essere coerenti con promesse e ideali per quanto questi possano essere complicati da realizzare. Come molti mezzi di stampa, soprattutto vicini ai Comuns, hanno fatto notare in questi giorni, sembra essere finita l’era dell’innocenza (un esempio a questo link).

Lasciando da parte il campo della moralità e della coerenza ci si dovrebbe chiedere cosa ci si dovrà aspettare dai prossimi quattro anni di governo Colau. Essendo quello tra Comuns e socialisti un accordo di minoranza (18 consiglieri su 41) dove troveranno o cercheranno questi di volta in volta quei tre voti per tirare avanti, affrontare i problemi della città, vedere i frutti di alcune iniziative in corso in tema ad esempio ambientale, di qualità della vita, diritto alla casa, difesa della scuola pubblica, welfare urbano, accoglienza ai migranti, ecc.? Quando e come Valls passerà (perché lo farà) il conto del suo appoggio, soprattutto adesso che ha rotto con il partito che lo aveva ingaggiato come ariete anti-indipednentista? Come potrà la nuova amministrazione Colau cambiare il modello Barcellona governando assieme a coloro (i socialisti) che questo modello hanno ideato e realizzato?

Durante l’investitura il discorso della Colau è stato coraggioso, un distillato di appoggio ai prigionieri politici, rivendicazione del dialogo, continuità nelle politiche sociali, avversione nei confronti delle élites della città, inclusione sociale e anti-xenofobia, ecc. Ma in politica contano i fatti, la possibilità di mantenere le promesse e, soprattutto, gli effetti non desiderati delle decisioni che si prendono. A tale proposito l’autentica star dell’investitura è stato Valls che ha fatto già pesare l’appoggio offerto e accettato, in maniera sia contenutistica sia simbolica. Da questo punto di vista i Comuns dovranno prima o poi fare i conti con la responsabilità politica di aver messo al centro della politica cittadina il più esplicito rappresentante di quelle élites che affermano voler combattere.

A quale porta busseranno i Comuns quando vorranno fare politiche sociali? Che ripercussioni avrà la decisione immediata di riposizionare sul balcone del comune lo striscione in solidarietà con i prigionieri politici e i lacci gialli che ce li ricordano? Un elemento questo che potrebbe rappresentare una già vicina rottura con i socialisti, apertamente contrari a questa decisione. Ma anche senza tener conto di tutto ciò, con il ritorno dei socialisti al governo della città ritornano a frequentare le stanze del potere anche gli attuali soci del PSOE catalano, gli ex democristiani pujolisti di Units per Avançar (UpA), i resti della vecchia e confessionale UDC, presenti nella lista socialista.

Il prossimo governo Colau a quanto pare sarà un governo ostaggio a meno che i Comuns, oramai rotti all’arte della conquista del potere, non si riservino, una volta garantitisi la carica di sindaco, la carta di abbandonare a metà strada (o prima) l’accordo con i socialisti e cambiare di socio in corso d’opera.

La prova del nove la avremo presto ma soprattutto cominceremo a farci un’idea della situazione quando la maggioranza sarà messa alla prova del punto di vista programmatico, dato che i socialisti di Barcellona sono gli inventori del modello attuale di città che, a quanto sembrerebbe, i Comuns vogliono combattere e invertire. E vedremo cosa accadrà in termini di inclusione sociale e accoglienza, dato che Valls (il cui curriculum in materia è tristemente noto in Francia) è stato l’unico candidato, assieme al candidato del PP, a non voler nemmeno incontrare il sindacato dei venditori ambulanti immigrati in campagna elettorale; all’incontro erano presenti tutte le forze di sinistra più JxC.

L’elefante nella stanza: le elezioni catalane e il Gobierno de la Nación

Si ha la sensazione che la battaglia per Barcellona, giocata nei negoziati fra i candidati e tra le direzioni di partito, abbia origini più esterne che interne alla città, ragioni totalmente distinte da quelle relative alle politiche municipali da adottare. I Comuns si sono presi la responsabilità di essere parte attiva o complice necessario di un’operazione di Stato volta a impedire che Barcellona avesse un sindaco indipendentista e in questa operazione hanno anche sdoganato quel Valls che gli elettori avevano relegato al ruolo di spettatore di lusso. Mentre a livello statale Barcellona è stata a quanto pare moneta di scambio per oliare un’apertura del PSOE nei confronti di una qualche forma di partecipazione di Podemos al “Gobierno de la Nación” a Madrid. Senza dimenticare che sullo sfondo c’è l’orizzonte di elezioni per il Parlament de Catalunya che con tutta probabilità verranno convocate una volta emessa la sentenza del processo politico contro l’indipendentismo, prevista per le prossime settimane. La battaglia di Barcellona andrebbe letta come un episodio della ridefinizione dello scacchiere politico catalano una volta rientrata la “ribellione” civile dell’autunno del 2017. Tra le questioni sul tappeto ovviamente ci sono il futuro della sinistra indipendentista anticapitalista (la più pregiudicata dalla sconfitta politica di quell’autunno) e il processo di perenne riorganizzazione dello spazio post-pujolista di cui JxC è tutto sommato erede anche se non in toto. Ma due spazi politici saranno centrali per comprendere la ridefinizione di questo scacchiere. Il primo è quello del catalanismo non indipendentista, che parafrasando un paradigma caro al franchismo potremmo definire come catalanismo “bien entendido”, quel catalanismo rappresentativo delle classi dirigenti che non mette in pericolo né l’unità della Spagna né l’ordine sociale ed economico. Questo spazio è rimasto orfano di rappresentanza politica dal momento in cui gli eredi di CiU hanno fatto il salto all’indipendentismo o ci sono stati spinti. Il catalanismo “bien entendido”, fortemente voluto dai padroni della città, non ha oggi voce propria relegato, o per meglio dire mimetizzatosi, tra le maglie di partiti e liste che ne hanno accolto profughi e quadri. Alcuni di questi si trovano oggi all’interno dei ranghi dei socialisti (come già detto quelli di UpA), impegnati in un lavoro di tessitura in attesa di tempi migliori all’interno della Fondazione “Portes Obertes del Catalanisme” oppure radunati sotto le sigle di Lliures (Liberi), al momento forse la più solida sigla anti-indipendentista generata dai quadri ex CiU.

Una parte di questo mondo di potenti ed oligarchi ha appoggiato Ciudadanos nel momento della verità ma ha di recente trovato una più diretta e confacente espressione sociopolitica nella figura di Valls e della sua equipe di “indipendenti”. L’operazione politica della candidatura dell’ex primo ministro francese non è stata solamente un’operazione di marketing portata avanti da Ciudadanos nel momento in cui tutti i suoi migliori quadri e leader facevano il salto verso Madrid. Valls ha cercato da subito di crearsi uno spazio proprio, farcendo la lista con ex socialisti ultra-unionisti (Corbacho) ed ex pujolisti anti-indipendentisti provenienti dalla vecchia UDC oppure affiliati a Lliures. Curiosamente (ma non casualmente) questa è anche la provenienza dei tre voti che Valls ha garantito alla Colau in sede d’investitura.

Un’offerta che Ciudadanos non ha gradito affatto e che ha provocato una rottura del sodalizio unionista. Valls, come ha dimostrato nella fase post elettorale e soprattutto nel discorso in occasione dell’investitura della Colau, sa giocare le sue carte, è un politico cinico e spregiudicato al servizio del potere economico che non fa né sconti né regali. È venuto a Barcellona a cercare uno spazio politico discorsivamente progressista, economicamente liberale e culturalmente xenofobo e pare lo stia trovando tra lo spazio socialista e quello post pujolista e unionista, negli  interstizi di una classe dirigente tutt’altro che progressista e tutt’altro che indipendentista. Prevedere le mosse di Valls è sport pericoloso ma questi sembra aver aperto a una ridefinizione della città sul terreno dell’ordine, del governo dei potenti e dell’esclusione sociale cercando di agglutinare attorno a sé quello spazio consociativo che durante quattro decadi si era mosso alternativamente tra socialisti e pujolisti.

Non dovrebbe essere una sorpresa se un giorno Valls ci si dovesse presentare come candidato ufficiale di un unionismo catalano in stile Macron. E vedremo se i socialisti avranno sufficiente struttura di partito per resistere a questa OPA che potrebbe vederli come oggetto; non bisogna dimenticare che il socialismo francese dopo il passaggio di Valls e Macron è diventato ampiamente residuale.

Il secondo spazio politico che va tenuto d’occhio nei prossimi mesi è ovviamente quello dei Comuns non solo in chiave catalana ma anche spagnola. A questi è restata solo Barcellona e ci si sono aggrappati con tutte le loro forze, personificando la più alta rappresentazione del montanelliano turarsi il naso.

Non crediamo che i Comuns abbiano agito solo mossi dalla necessità di sopravvivere a una pesante e profonda débâcle elettorale e siamo certi che la loro volontà di conservare il potere abbia una sincera origine programmatica nella determinazione di non lasciare a metà strada alcune politiche avviate nel 2015. Ciononostante per fare politica bisogna anche sopravviverci dentro e i Comuns hanno dinnanzi a loro anche una mera questione di sopravvivenza e perdere il comune di Barcellona sarebbe stato un colpo molto complicato da incassare.

Viene però difficile visualizzare in che maniera i Comuns potranno ancora presentarsi come parte di quell’80% repubblicano e a favore del diritto all’autodeterminazione quando invece governano assieme a un partito centrale nell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione nell’ottobre del 2017 e parte integrante della via giudiziario-repressiva cementatasi attorno alla monarchia borbonica, per non parlare, ripetiamolo, dell’abbraccio mortale che Valls ha offerto alla Colau in sede d’investitura.

E poi, se tutto dovesse andare male c’è sempre Madrid, che pare ultimamente essere il destino preferito della promozione o rottamazione dei politici catalani nel fronte unionista e che potrebbe allargarsi anche alla sinistra alternativa. Tra i limiti osservati dalla direzione di Podemos infatti c’è la necessità di strutturazione organizzativa e territoriale, la promozione di quadri abili e visibili, come è apparso chiaro nella crisi post elettorale, e la Colau e il suo staff potrebbero essere un buon rinforzo per Podemos.

Ci fu un tempo in cui le campagne elettorali italiane erano dominate dall’idea dall’imminente e ciononostante mai avvenuto sorpasso del PCI sulla DC. Divenne un luogo comune affermare che la caduta elettorale dei democristiani sarebbe stata prossima e inevitabile poiché, si diceva, “il potere logora”. Come tutti sanno tale caduta ebbe sì luogo ma per ragioni totalmente inaspettate, portandosi appresso tutto in sistema politico, PCI incluso, e senza generare alcuna alternativa di progresso. Con la sagacia e prontezza di riflessi che lo rese celebre Giulio Andreotti era solito rispondere ad avversari e giornalisti che “il potere logora… chi non ce l’ha”.

Con tutta probabilità entrambe le affermazioni retoriche sono vere. La loro veridicità ed effettività descrittiva sta nel disegnare le regole e fini immutabili della politica istituzionale cui tutti devono sottomettersi, ovvero la questione della presa del potere o sua conservazione, in quote maggiori o minori. Perché è con il potere che si fanno le cose, o almeno si può aspirare a farle, entro i limiti di quanto permettono le democrazie liberali rappresentative, o quello che di queste rimane in questo scorcio di inizio millennio.

Ovviamente non di solo potere vive la politica, soprattutto quella della trasformazione sociale e culturale, ma è attraverso questa lente che, a nostro parere, si può cercare di capire quanto è accaduto in queste settimane a Barcellona attorno all’investitura di Ada Colau come sindaca della città.

Nei prossimi quattro anni vedremo se il potere avrà logorato i Comuns normalizzandoli o se al contrario li avrà fortificati assieme alle politiche e istanze di cui si facevano originariamente interpreti. Per il momento quello che sappiamo è che “la città dei prodigi” non è più “il paese delle meraviglie” raccontatoci, se mai lo è stato durante questi ultimi quattro anni.