Fra Italia e Bielorussia. Appunti di una conversazione

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27 Novembre 2020

Intervista alla voce dell’associazione Supolka della diaspora bielorussa in Italia

C’è stato un tempo in cui la Bielorussia era al cuore delle trame della storia europea.

Solo un secolo fa, le scene di vita dei villaggi bielorussi si trovavano sulle tele che Chagall e Soutine dipingevano nella Parigi folgorante e irrequieta delle avanguardie artistiche. 

Più avanti, il filo della tragedia della Seconda Guerra Mondiale ha unito i destini della Bielorussia a quelli degli altri paesi europei. Degli oltre cinquanta milioni di vittime del conflitto, circa tre milioni sono caduti sul territorio bielorusso. Fra quarantamila e sessantamila solo quelle uccise a Trostenec, il quarto campo di sterminio più grande d’Europa. 

Poi la Guerra Fredda, seguita in pochi anni dall’ascesa di un nuova autocrazia, truce caricatura fuori stagione del sistema sovietico, hanno relegato la Bielorussia in una remota periferia di cui poco si conosce, se non la drammatica eco degli ultimi eventi che, a guardarli da qui, sembrano distanti come spesso lo è tutto ciò che non abbiamo vissuto o di cui abbiamo perso memoria. 

Quella è la distanza che gli attivisti dell’Associazione Bielorussi in Italia Supolka percorrono tutti i giorni per documentare le tormentate e coraggiose aspirazioni dei bielorussi, da mesi impegnati in pacifiche proteste di massa contro il regime autocratico di Aljaksandr Lukašenka che nega loro il diritto a elezioni libere e reprime con una violenza senza freni ogni forma di dissenso.

Questo flusso di informazioni apre un canale di dialogo fra due paesi, due mondi, due società, due sistemi politici apparentemente lontanissimi, che in questa conversazione continua finiscono per avvicinarsi e guardarsi l’un l’altro, come allo specchio.  

Ekaterina Ziuziuk, portavoce di Supolka, racconta che l’associazione è nata nel giugno scorso come una reazione all’arresto di Viktar Babarika, candidato alle elezioni e principale avversario del presidente Lukašenka, in carica dal 1994. Di fronte a questo evento, alcuni dei circa 9mila bielorussi residenti in Italia hanno iniziato a cercarsi, come mai avevano fatto prima, e a seguire le vicende del loro paese di origine. 

Qualcosa ha riannodato i fili di esistenze che la migrazione aveva disperso ed è accaduto non solo in Italia, ma anche in altri paesi del mondo, dove i migranti bielorussi sono circa un milione e mezzo su una popolazione totale di nove milioni e mezzo residenti nella madrepatria. Una diaspora numerosa, che ha avuto origine inizialmente per ragioni economiche con il crollo dell’URSS, ma che, con il passare del tempo è stata alimentata da persone che, strette fra le rigide maglie del regime, “non respiravano bene”.

Nelle file chilometriche di persone che si recavano apertamente a firmare in supporto della candidatura di Babarika, a dispetto di un regime che non prevede altri presidenti al di fuori di sé, molti dei bielorussi che guardavano al loro paese da lontano hanno visto il segnale che qualcosa stava cambiando nel fondale oscuro in cui era sprofondato in paese in ventisei anni di regime. 

Poco alla volta, il gruppo italiano si è strutturato con l’obiettivo di portare e promuovere le rivendicazioni dei loro connazionali nell’opinione pubblica e nella politica italiana.

Le hanno portate nelle piazze delle città italiane, dove i bielorussi italiani si ritrovano con la bandiera biancorossa e con i fiori bianchi in mano, simboli delle proteste, hanno chiesto attenzione alla politica e hanno trovato il sostegno del Partito Democratico e +Europa, sono diventati fondatori, insieme a Laura Boldrini, della Comitato per la Democrazia in Bielorussia; e ancora continuano dopo più di cento giorni di proteste, a raccontarle attraverso i canali social, raccogliendo contributi in diverse lingue e traducendo dai media bielorussi indipendenti le principali notizie, che restituiscono il quadro raggelante di un universo surreale, in cui l’assurdo e l’arbitrio regnano indisturbati e si materializzano in forme diverse. 

Manganelli, detenzioni, pestaggi, ma anche sanzioni amministrative, procedimenti legali, licenziamenti, sono tutti strumenti di repressione nelle mani dell’autocrate, che le utilizza senza risparmio per insinuarsi nella vita delle persone, nelle loro abitazioni, nei loro cortili, anche nei loro magri conti in banca, per tormentarle, sfiancarle e obbligarle alla resa.

Un apparato in cui grottesco e tragico si intrecciano di continuo. A tratti si prova l’istinto di sogghignare, immaginando un mondo in cui le forze  di polizia conducono “operazioni speciali” per eliminare grosse mutande bianche e rosse dai cortili di un centro residenziale e  le autorità infliggono multe a una persona che ha postato sul proprio profilo Instagram la foto di un dolce bianco e rosso. E’ ridicolo immaginare un pasticcino trasformato in un oggetto di sedizione, ma il desiderio di ironizzare svanisce immediatamente al pensiero della somma, 135 euro, pari quasi alla metà dello stipendio di un bielorusso. 

In altri casi, l’apparato di repressione ricorre a metodi più drastici e feroci, andando alla radice ed eliminando le persone stesse, come è accaduto di recente a Raman Bandarenka, artista di 31 anni, morto giovedì 12 novembre dopo essere stato arrestato e picchiato dalla polizia a Minsk, nella piazza simbolo delle proteste, Piazza dei Cambiamenti.  

Era solo uno dei tanti manifestanti – non pericolosi sovversivi, ma studenti, lavoratori delle fabbriche, medici, insegnanti, artisti, pensionati – che partecipano alle marce pacifiche, vittima di un’atrocità che sarebbe potuta capitare ad altri e potrebbe capitare ancora in un’atmosfera di tensione continua e di violenza indiscriminata che Ekaterina Ziuziuk, paragona a quella del 1937, annus horribilis delle purghe staliniane, e al periodo nazista (la Bielorussia è stata così sfortunata da subirle entrambe e in tutta la loro più inaudita violenza), rievocando memorie di epoche buie che credeva chiuse per sempre nei libri di storia e che mai avrebbe immaginato di ritrovare nel presente. 

Questo ci obbliga a ricordare che i tiranni non sono solo cimeli incrostati, come quelli che si incontrano sui marciapiedi e nei parchi di alcune città post-sovietiche, dove le persone cercano di far fruttare la pena di aver vissuto l’oppressione vendendola ai turisti. I tiranni vivono ancora in questo secolo e a pochi chilometri dalle nostre vite. 

E ci obbliga a ricordarlo ora, in un momento in cui la democrazia italiana, nata sulle macerie di un conflitto con l’intento di sbarrare la strada al ritorno dei totalitarismi, sembra non piacere più a nessuno. Non piace a chi non la trova abbastanza “democratica”; non piace a chi, invece, la trova troppo molle e fa sogni illiberali guardando alla Russia. Qualcuno guarda addirittura alla Bielorussia, come testimoniano apprezzamenti nei confronti di Lukašenka lasciati sui canali social dell’associazione Supolka.  

Incredibile, ma vero. Sarà forse una forma di autolesionismo? O più verosimilmente è la convinzione ostinata e incrollabile, diffusa in questa parte d’Europa, di essere immuni da drammi, tumulti, violenze che sono sempre e solo problemi altrui?

Chissà. Forse questa stessa convinzione rassicurava anche i tanti che, senza interferire, hanno guardato Lukašenka spegnere sul nascere gli spiragli di libertà apparsi nei primi anni Novanta. Gradualmente, a piccoli passi. “Nel 1994 (Lukašenka) è stato effettivamente appoggiato dalla maggioranza del popolo perché si presentava come uno di loro,  perché viene dalla campagna. È uno di scarsa cultura, di scarsa istruzione anche se si vanta di avere una laurea in scienze storiche…Nel 1994 tutto era tranquillo”. Il primo campanello d’allarme è suonato l’anno successivo, quando l’inversione del corso ha iniziato a manifestarsi, simbolicamente, con l’imposizione di una nuova bandiera nazionale, che ha sostituito quella bianca e rossa. Poi è seguito il varo di una nuova Costituzione, nel 1996, che rafforzava i poteri presidenziali. 

“Con il senno di poi io ho capito che quei due anni gli sono serviti per completare l’opera di portare il suo potere limitato di un paese democratico al potere illimitato di un autocrate”, racconta Ekaterina, che ai tempi era adolescente. Due anni che sono serviti a liquidare l’opposizione politica e poi ogni forma d’opposizione in generale. Nel 1995 uno sciopero di lavoratori, che non aveva nessuna connotazione politica, è finito con licenziamento s volcim biletom, ovvero con un documento che attesta l’inaffidabilità del detentore e lo priva di alcuni diritti. “Dopo di loro, nessuno ha più scioperato”. 

A opporsi sono rimasti in pochi – artisti, intellettuali, giornalisti – mentre molti sono rimasti al margine, a guardare, mentre il paese scivolava in basso, schiacciato dallo strapotere di un regime violento e grottesco, fra corruzione, difficoltà economiche, mancanza di prospettive.

In questa oscurità è germinato un malcontento vasto, generalizzato, diffuso, un fiume carsico che ha portato con sé anche quelli che erano stati sempre lontani dalla politica, arrivando fino a quelli che erano lontani dal paese.  

Fra questi, Ekaterina, che vive in Trentino Alto Adige da sedici anni, e non si è mai occupata attivamente di politica, anche se “politico” in qualche modo è stato l’atto di migrare da un paese che si trova soffocante. 

In questi anni ha seguito con la coda dell’occhio le vicende del suo paese d’origine, rimanendo a distanza, in senso geografico e non solo. Fino a qualche mese fa, quando la politica ha fatto irruzione nelle sue giornate, occupandole per intero. Non vede l’ora di smettere, dice, ma quel momento non è ancora arrivato. Lo farà solo nel giorno, ancora difficile da intravedere all’orizzonte, in cui il regime finalmente sarà caduto. “Ora con la testa sono in Bielorussia. Adesso non posso funzionare diversamente”. 

Il motore di questa dedizione totale, di questo desiderio di prendere parte al destino del proprio paese non è, come si potrebbe immaginare, patriottismo, né la risposta a un’improvvisa riscoperta delle radici. O ancora una vaga idea di ritorno che adesso sembra finalmente possibile. 

Ekaterina ha alcuna intenzione di tornare in Bielorussia, se non per visitare i luoghi simbolo della protesta. Le sue radici, dice, non ci sono più. Ha trovato il suo posto in Trentino Alto Adige, parla perfettamente italiano, non soffre della minima difficoltà di adattamento e non pensa a lasciare l’Italia, se non per la Francia del Sud. E non crede nelle etichette nazionali.

“La mia aspirazione principale è che le persone indifese non vengano torturate e picchiate; fin dal 18 di giugno mi sono sempre mossa tenendo in mente questo: la violenza contro la gente indifesa”: un obiettivo che non ha radici in uno stato, in una nazione, in un passaporto, ma guarda più in profondità, alla sofferenza umana, e che disegna, fra le trame di un mondo che muta e fluttua in continuo movimento, un modo diverso di immaginare la distanza, l’appartenenza, le geografia.