La “fiesta” della democrazia (nazionale)

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3 Maggio 2019

Un’analisi del voto, una prospettiva politica, una riflessione al di là della cronaca

Le elezioni legislative spagnole di domenica 28 aprile rappresentano una fotografia abbastanza fedele della questione spagnola. In queste righe cercheremo di analizzarne il risultato per quello che rappresenta in primo luogo in termini aritmetici e di flussi elettorali e, in secondo luogo, per le implicazioni politiche e prospettive future che questo significa nel contesto concreto. Cercheremo di capire insomma cosa hanno votato gli spagnoli e, nella misura del possibile, cosa faranno gli attori in campo con questo voto. Cercheremo di farlo dalla prospettiva della questione nazionale spagnola come problema aperto e frutto di un sempre maggior grado di instabilità politica e istituzionale.

 

Passati alcuni giorni dalla celebrazione delle elezioni i risultati sono oramai noti. Potremmo dire che sulla questione c’è stata in Italia addirittura una sovrainformazione (almeno dal punto di vista quantitativo) come se dalle elezioni spagnole dipendessero i destini della sinistra italiana. Questa infatti, in cerca di impulso e riferimenti, ha preso come mito esterno un possibile governo delle sinistre in Spagna. Per questo motivo risulta necessario osservare questo voto da una prospettiva più ampia e meno votata alla definizione di modelli, miti e riferimenti. Insomma, cercheremo di capire non già chi ha vinto queste elezioni bensì cosa le ha vinte, quale programma, quale progetto. Le elezioni legislative spagnole del 2019 hanno visto la vittoria per maggioranza relativa del PSOE, che si è affermato con il 28,7% dei voti. I 7.436.403 voti conquistati si plasmano in 123 seggi su 350. A questi dati più conosciuti, relativi al Congreso de los Diputados, è necessario affiancare la maggioranza assoluta di 140 seggi su 266 conquistata al Senado, dove il PP aveva ottenuto nel 2016 la maggioranza assoluta con 148 seggi. Ciononostante, per arrivare alla conformazione di una maggioranza parlamentare stabile servono al PSOE altri 53 seggi. Quindi dietro l’angolo della vittoria elettorale per il PSOE c’è la necessità di garantire al futuro governo una maggioranza più o meno stabile al Congreso; il Senado è una camera semi-territoriale di seconda lettura e, tranne procedure specifiche come l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, incide solo in seconda istanza sulla legislazione ordinaria.

 

I consensi ottenuti domenica scorsa dai socialisti configurano una vittoria relativa che va contestualizzata e relativizzata, prima di tutto dal punto di vista dei voti reali dato che ci offre una fotografia più fedele di ciò che vota realmente la cittadinanza chiamata alle urne. In realtà si tratta per il PSOE del terzo peggior risultato dal 1977, dopo il 22% (90 deputati) del 2015 e il 22,6% (85 deputati) del 2016. Per farci un’idea la comparazione fatta con le vittorie dell’era Rodríguez Zapatero è matematicamente fuori luogo; questi ottenne il 42,6% (164 seggi) nel 2004 e il 43,9% (169 seggi) quattro anni dopo. È vero che questi risultati vengono in un contesto differente, non più di bipartitismo imperfetto (PSOE, PP, IU e partiti nazionalisti sub-statali) bensì di maggior frammentazione politica. Ma è proprio questa frammentazione politica a dare la sensazione (anche se solo a prima vista) di una vittoria delle sinistre contro le destre in Spagna. Cerchiamo di capire perché.

 

Il socio naturale del PSOE in un tutt’altro che scontato governo delle sinistre, Unid@s Podemos (UP), è crollato dal 21,1% (71 seggi) al 14,4% (42 seggi). Facendo quindi due conti si potrebbe avanzare l’ipotesi che in un contesto di alta partecipazione il PSOE abbia mobilitato il proprio elettorale restato a casa nel 2016 e rosicchiato più di qualche mollichina a sinistra ai danni di UP. In termini parlamentari la sinistra spagnola passa da 156 deputati a un totale di 165, ancora lontani dai 176 necessari per governare. Però se osserviamo più a fondo il numero dei voti ottenuti scopriamo che questa potenziale coalizione ha perso voti piuttosto che guadagnarli: nel 2016 contava con il 43,7% dei consensi mentre adesso ha subito una leggera flessione accomodandosi al 43,1%. Tenendo conto dell’aumento della partecipazione, dal 66,5% al 75,7%, siamo più o meno sulla stessa massa elettorale di sempre però spostata verso il “centro” e mobilitata da un voto più anti-destra (PP, Ciudadanos e Vox) che a favore di un progetto chiaro di progresso sociale e democratizzazione, che è quello che dovrebbe caratterizzare (forse ancora) la sinistra riformista.

 

Se ci spostiamo a destra troviamo una situazione totalmente distinta, principalmente a causa del peculiare sistema elettorale spagnolo. Ed è certamente un dato curioso che tale sistema sia stato architettato durante la Transizione proprio per favorire la concentrazione del voto e i partiti di destra e conservatori. Il PP ha perso fragorosamente le elezioni. Con il 16,7% e soli 66 seggi il partito che si postulava come il partito guida di una grande coalizione di destra nazionale con Ciudadanos (Cs) e Vox ha ottenuto il peggior risultato della sua storia, almeno da quando la vecchia Alianza Popular (AP) dei baroni franchisti decise di trasformarsi nel più rispettabile Partido Popular. Dal canto suo Cs, che pure incalza i popolari con 57 seggi, raggiunge il 15,9%, quando nel 2016 aveva ottenuto il 13,1%. E questo nonostante una campagna elettorale molto aggressiva, per usare un eufemismo. Ma la vera novità di queste elezioni, almeno a livello statale spagnolo, è l’arrivo in parlamento dei 24 deputati di Vox, che passa dallo 0,2% al 10,3%. Il peso storico e politico di questo fatto forse non è stato ancora compreso a fondo.

 

PP, Cs e Vox, con l’appoggio dei 2 deputati (0,4%) della lista Navarra Suma (coalizione provinciale tra PP e Cs) radunerebbero solo 149 deputati, anch’essi insufficienti per ottenere una maggioranza parlamentare. La somma dei voti percentuali della destra raggiunge un 43,3% che supera leggerissimamente (ma la supera) quella delle sinistre. Però se incrociamo questo dato con il sistema elettorale spagnolo otteniamo una vittoria delle destre. In definitiva, se PP, Ciudadanos e Vox si fossero presentati in coalizione avrebbero vinto le elezioni e forse anche portato a casa una incontestabile maggioranza assoluta, soprattutto se sganciamo dal risultato complessivo quello delle province basche e catalane. Il tutto rafforzato anche in questo caso dall’alta partecipazione.

 

Ma la questione forse più interessante è quella dei possibili flussi elettorali. Dati alla mano sarebbe ipotizzabile, contro la teoria della vittoria delle sinistre, uno scivolamento a destra nei flussi elettorali: da Podemos verso il PSOE come voto utile anti-destra; dal PP a Vox passando per il qualunquismo di Cs in difesa della patria minacciata e contro il “peligro rojoseparatista”. Questo ovviamente senza dimenticare che il PSOE, seppur in maniera diversa ma sostanziale, si è presentato come il partito dell’unità nazionale contro il diritto all’autodeterminazione dei catalani, risucchiando forse anche in questo senso parte dell’elettorato andato in prestito a UP nelle precedenti elezioni.

 

Poi sarebbe necessario prendere in considerazione il cosiddetto voto territoriale, ovvero l’insalvabile differenza tra voto complessivo spagnolo, più o meno costante tendenzialmente in tutto il territorio statale, e il voto delle cosiddette “nazioni senza stato”. Tra Euskadi e Navarra (se vogliamo attenerci alla Euskal Herria rivendicata dagli “abertzale”) la destra spagnola invia a Madrid solo 2 deputati su 23: 6 del PNV, 6 del PSOE, 5 di UP, 4 di EH Bildu (sinistra abertzale) e i 2 appunto di Navarra Suma. Se poi contabilizzassimo solo i voti di Euskadi l’unica destra presente in parlamento sarebbe quella democristiana del PNV, un partito che propizia politiche di welfare più vicine alla socialdemocrazia nordeuropea dei partiti socialdemocratici dell’area del Mediterraneo.

 

Ma il dato territoriale più consistente, anche dal punto di vista quantitativo, è quello catalano. Lo scenario politico di Barcellona è stato sempre dominato dalla presenza di un voto “dual”, disgiunto e differenziato tra elezioni autonomiche (regionali) ed elezioni legislative (statali). Prima dell’auge della rivendicazione dell’autodeterminazione e fino alle scorse elezioni l’elettorato catalano era solito dare la vittoria a un partito o coalizione statale in occasione delle legislative e a un partito nazionalista catalano alle autonomiche, in maniera tale che solitamente a vincere le elezioni spagnole in Catalogna era il PSOE. Nel 2015 e 2016 ad avere più voti fu la coalizione tra i cosiddetti “Comuns” e Podemos, En Comú Podem (ECP), con rispettivamente il 24,7% e 24,5% conquistando 12 dei 47 seggi disponibili. Oggi ECP ha ottenuto solo il 14,9% e 7 seggi, tornando un po’ al di sotto dei consensi che questo spazio politico raccoglieva nel 1979, allora rappresentato del PSUC (il partito comunista catalano). In realtà dal punto di vista quantitativo, e nelle elezioni quello che conta sono i numeri in primo luogo, se il PP è il grande sconfitto a livello statale è ECP a fregiarsi di questo titolo in Catalogna: ha perso quasi la metà dei seggi e più di un terzo del proprio elettorato. Voti e quadri, come vedremo, in fuga soprattutto verso varie gradazioni di sinistra indipendentista. Cosa che lascia pensare che la strategia “attendista ed equidistante” adottata dai “Comuns” durante l’autunno del 2017 abbia dilapidato tutta la spinta propulsiva accumulata in precedenza, tra l’irruzione di Podemos nella vita politica spagnola come forza favorevole al referendum e l’arrivo della Colau al Comune di Barcellona. Infatti quella fase così delicata e potenzialmente anti-sistemica fu invece gestita dai settori più unionisti e di tradizione più giacobina dell’antica Iniciativa per Catalunya (ICV) installati a guida del gruppo parlamentare dei “Comuns” al Parlament, Rabell e Coscubiela, oggi allontanatisi da qualsiasi responsabilità diretta nella coalizione.

 

Stavolta le elezioni in Catalogna sono state vinte per la prima volta da un partito indipendentista e di sinistra. Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ha ottenuto il 24,6% conquistando 15 dei 48 seggi catalani al Congreso (per questioni demografiche la rappresentanza catalana a Madrid è aumentata di un seggio in queste elezioni); il miglior risultato della sua storia era stato il 18,2% (9 seggi) del 2016. ERC esce da queste elezioni anche come il partito più votato di Barcellona città, anche se per una manciata di voti sul PSOE, questo a tre settimane dalle elezioni municipali. Le elezioni le ha vinte in Catalogna un partito indipendentista, e non era mai accaduto, ma lo ha fatto comunque con un discorso “moderato” di ritorno alla rivendicazione del referendum come via di soluzione al conflitto politico. E su questa base bisogna valutare il risultato complessivo della vittoria dei partiti favorevoli al referendum (29 seggi su 48 e il 54,3%, includendo il Front Republicà-FR) rispetto ai partiti unionisti che hanno appoggiato l’applicazione dell’articolo 155 di sospensione dell’autonomia catalana lo scorso anno (19 seggi e 43,3%). L’analisi del voto, dei suoi flussi, andrebbe quindi sviluppata all’interno di questi due blocchi, tra favorevoli o contrari alla celebrazione di un referendum come soluzione democratica al conflitto politico ispano-catalano.

 

All’interno del blocco che possiamo definire sovranista catalano, senza che sovranismo venga preso come un epiteto bensì come una categorizzazione oggettiva, entrano quindi ERC, ECP, FR e Junts per Catalunya (JxC); tenendo sempre presente il fatto che tra questi ECP non è programmaticamente indipendentista ma solo favorevole alla celebrazione di un referendum sulla questione, sfumatura importantissima sulla quale troppo spesso si sorvola. Tutto lascia pensare che ERC ha rappresentato il voto utile all’interno di un campo indipendentista oramai sganciato dai meccanismi elettorali statali. Il partito repubblicano ha vinto la battaglia in questo senso sia alla sua destra sia alla sua sinistra. Da un lato ha lasciato al palo il mondo post-pujolista (o post-convergente). Lo spazio politico del nazionalismo catalano di centro liberale oggi non esiste più. Al suo posto c’è una galassia ideologicamente eclettica poco definibile dal punto di vista ideologico che si è ricostruita solo in parte attorno alla figura di Puigdemont ma che in gran parte si trova fuori dalla politica in attesa che passi la tempesta. Per questo motivo risulta estremamente complicato valutare il risultato di JxC. Se lo compariamo con le precedenti liste di questo stesso spazio politico (CiU, Democràcia i Llibertat, CDC) possiamo osservare che si tratta del peggior risultato dal 1977. Da quando è incominciato il processo indipendentista questo spazio politico non ha fatto che perdere voti alle legislative: 29,4% (16 seggi) nel 2011, 15,1% (8 seggi) nel 2015, 13,9% (8 seggi) nel 2016 e adesso 12,1% dei voti e 7 seggi. Un fatto che da solo smentisce ancora una volta la tesi secondo la quale il processo indipendentista abbia favorito questo spazio politico o sia stato addirittura da questo propiziato. Solo con una lettura parziale o selettiva della realtà dei fatti si può arrivare a questa peraltro diffusa opinione.

 

Forse ha avuto luogo un definitivo cambio di egemonia nella direzione di massa dell’indipendentismo parlamentare. Infatti l’egemonia di sinistra o progressista all’interno dell’indipendentismo che fino a qualche tempo fa era solo una proiezione di intenzione di voto o il risultato di studi di politologia è oggi una realtà elettoralmente visibile, almeno in queste elezioni. Ma se di questo si tratta è a sinistra che ERC è cresciuta, in almeno tre direzioni. In primo luogo, attraverso le successive scissioni o abbandoni che hanno tormentato il PSOE catalano nell’ultimo lustro e che hanno ingrossato le fila di ERC, ultimo ma non ultimo il candidato sindaco per le prossime municipali di Barcellona, il già dirigente socialista Ernest Maragall. In secondo luogo, il più recente ma non per questo meno sanguinoso stillicidio di defezioni nel mondo dei “Comuns” di Ada Colau, primi fra tutti i gruppi Nova e Sobiranistes nelle persone di Nuet e Alamany. In terzo luogo, ma forse in minor misura, una certa area di elettorato di frontiera tra ERC e CUP, dato che il 2,7% ottenuto da FR non è riuscito a quanto pare ad agglutinare tutto il voto della sinistra indipendentista anticapitalista disposto a votare alle elezioni spagnole in funzione di voto utile indipendentista; la CUP aveva deciso ufficialmente di non partecipare al voto e da una sua componente (Poble Lliure, Popolo Libero) in alleanza con Pirates de Catalunya e la formazione dell’ex segretario di Podem, Som Alternativa, era nata la lista di FR.

 

Un altro punto a favore della tesi secondo la quale ERC sarebbe il futuro partito egemonico dello scacchiere politico catalano, oltre che primo partito indipendentista, viene dalla distribuzione territoriale del voto. ERC è l’unico partito omogeneamente diffuso sul territorio con percentuali significative, vince nei grandi centri e nei piccoli, nelle aree urbane e in provincia, assorbe votanti variamente di sinistra e variamente favorevoli all’indipendenza o al referendum. D’altronde questo è il risultato di una campagna elettorale estremamente cauta e dialogante, in cui il centro del messaggio è stato quello duplice della riaffermazione della strategia indipendentista e denuncia della repressione statale accompagnata però dal ritorno al centro del grande consenso si massa e trasversale che articola da oramai quasi un decennio l’opinione pubblica catalana, la celebrazione di un referendum come unica via soluzione del contenzioso civile in corso. Un discorso che ha pagato adesso dal punto di vista elettorale, e che potrebbe farlo anche alle prossime europee e comunali, ma che andrà messo alla prova delle tensioni politiche reali e dell’arroccamento in difesa della nazione spagnola che accomuna tutti i partiti spagnoli, incluso, nel fondo della questione, Podemos, che a Madrid è pur sempre un partito sovranista spagnolo in senso classico. A quanto pare all’interno dell’indipendentismo con ERC ha vinto la linea possibilista che, magari solo come risorsa tattico-narrativa, ha avuto la meglio sulle altre ipotesi proposte dall’indipendentismo, come quella di andare a Madrid a bloccare la politica spagnola attuando una sorta di boicottaggio istituzionale con l’obiettivo di far emergere quante più contraddizioni possibile nello Stato. Ma con ERC ha vinto anche la linea indipendentista all’interno del sovranismo catalano ai danni di ECP.

 

In ogni caso sia ERC che JxC hanno corso con una palla al piede e le mani legate dietro la schiena. I rispettivi capilista sono in carcere preventivo da più di un anno e da quasi due mesi si accomodano sul banco degli imputati presso il Tribunal Supremo a Madrid, accusati di ribellione e disobbedienza nel primo grande processo politico della storia dell’Europa del XXI secolo.

Quattro saranno i prigionieri politici che sederanno al Congreso: Junqueras di ERC e Turull, Rull e Jordi Sánchez di JxC. Ma forse il caso politicamente più significativo è rappresentato dal risultato catalano al Senado.

Prendendo solo in considerazione i senatori designati attraverso suffragio universale (una parte è eletta per voto indiretto dalla regioni) ERC ha conquistato 11 senatori, il PSOE 3 e JxC 2. A capo della lista repubblicana al Senado un altro prigioniero politico, Raul Romeva, ex eco-comunista di ICV, già sottosegretario agli esteri nel governo Puigdemont.

Per quanto concerne il blocco unionista, che potremmo definire anche del 155, possiamo abbozzare tre considerazioni. La prima, riguarda la conferma del loro essere minoranza politica e sociale in Catalogna. La seconda, concerne il ritorno alla casa madre di quei voti unionisti che avevano abbandonato il PSOE catalano negli ultimi due anni a favore di Cs. La terza, una parte di voto utile di sinistra ha abbandonato, non si sa se provvisoriamente, l’area dei “Comuns” per puntellare l’ipotesi di un governo di sinistra a Madrid.

Questo è quanto suggerisce l’articolazione territoriale del voto a Barcellona e area metropolitana. Il centro della campagna socialista è stato duplice: ribassare la tensione politica almeno dal punto di vista verbale (i livelli di cinismo, manipolazione e aggressività mostrati in questi mesi da Cs e PP sono stati inversamente proporzionali all’appoggio elettorale da questi ottenuto) e propagandarsi come il maggior garante dell’ordine costituzionale e dell’unità nazionale spagnola in Catalogna.

Da almeno tre anni il PSOE catalano, in forte crisi politico-progettuale e orfano dell’ala favorevole all’autodeterminazione e del 50% del suo elettorato tradizionale ha coscientemente scommesso su una politica esplicitamente “spagnolista-unionista”, forse l’unico spazio politico in cui poteva competere elettoralmente senza entrare in conflitto con la direzione di Madrid; sono ancor oggi cicliche le tirate d’orecchi ai dirigenti catalani quando questi parlano anche solo timidamente di ingiustizia processuale o fanno timide aperture al riconoscimento nazionale della Catalogna.

È come se i voti in libera uscita verso ERC e ECP fossero stati considerati persi definitivamente. A questo punto ai socialisti catalani non restava altra possibilità che cercare di riconquistare i voti identitari spagnoli che Cs gli aveva strappato, puntellando in questa maniera anche il pedigree costituzional-patriottico del PSOE agli occhi dell’elettorato del resto dello Stato.

E l’operazione, saggiamente architettata dal segretario regionale Iceta, pare aver dato i frutti sperati. Infatti, se è vero che i PSOE anche in Catalogna porta a casa il terzo peggior risultato della sua storia rimonta notevolmente rispetto alle elezioni catalane dello scorso anno. Il 23,2% e 12 seggi rappresentano la metà dei voti e seggi ottenuti nel 2008 (45,4% e 25 seggi) ma sono un risultato enormemente migliore rispetto a quello del 2016 (16,1% e 7 seggi). Un buon risultato anche se si prendono in considerazione le ultime elezioni catalane del 2017, quando il PSOE ottenne solo il 13,8%.

A fare le spese della relativa rinascita socialista è stato senza dubbio Cs il cui disastro elettorale in Catalogna risulta poco visibile se l’11,5% (5 seggi) di queste elezioni viene comparato con i risultati, pressoché identici, del 2016, ma alle regionali catalane del 2017 Cs ottiene il 25,3% dei voti. Insomma, un autentico ribaltamento di posizioni.

In ogni caso sia ERC che JxC hanno corso con una palla al piede e le mani legate dietro la schiena. I rispettivi capilista sono in carcere preventivo da più di un anno e da quasi due mesi si accomodano sul banco degli imputati presso il Tribunal Supremo a Madrid, accusati di ribellione e disobbedienza nel primo grande processo politico della storia dell’Europa del XXI secolo. Quattro saranno i prigionieri politici che sederanno al Congreso: Junqueras di ERC e Turull, Rull e Jordi Sánchez di JxC. Ma forse il caso politicamente più significativo è rappresentato dal risultato catalano al Senado. Prendendo solo in considerazione i senatori designati attraverso suffragio universale (una parte è eletta per voto indiretto dalla regioni) ERC ha conquistato 11 senatori, il PSOE 3 e JxC 2. A capo della lista repubblicana al Senado un altro prigioniero politico, Raul Romeva, ex eco-comunista di ICV, già sottosegretario agli esteri nel governo Puigdemont.

 

Per quanto concerne il blocco unionista, che potremmo definire anche del 155, possiamo abbozzare tre considerazioni. La prima, riguarda la conferma del loro essere minoranza politica e sociale in Catalogna. La seconda, concerne il ritorno alla casa madre di quei voti unionisti che avevano abbandonato il PSOE catalano negli ultimi due anni a favore di Cs. La terza, una parte di voto utile di sinistra ha abbandonato, non si sa se provvisoriamente, l’area dei “Comuns” per puntellare l’ipotesi di un governo di sinistra a Madrid. Questo è quanto suggerisce l’articolazione territoriale del voto a Barcellona e area metropolitana. Il centro della campagna socialista è stato duplice: ribassare la tensione politica almeno dal punto di vista verbale (i livelli di cinismo, manipolazione e aggressività mostrati in questi mesi da Cs e PP sono stati inversamente proporzionali all’appoggio elettorale da questi ottenuto) e propagandarsi come il maggior garante dell’ordine costituzionale e dell’unità nazionale spagnola in Catalogna. Da almeno tre anni il PSOE catalano, in forte crisi politico-progettuale e orfano dell’ala favorevole all’autodeterminazione e del 50% del suo elettorato tradizionale ha coscientemente scommesso su una politica esplicitamente “spagnolista-unionista”, forse l’unico spazio politico in cui poteva competere elettoralmente senza entrare in conflitto con la direzione di Madrid; sono ancor oggi cicliche le tirate d’orecchi ai dirigenti catalani quando questi parlano anche solo timidamente di ingiustizia processuale o fanno timide aperture al riconoscimento nazionale della Catalogna. È come se i voti in libera uscita verso ERC e ECP fossero stati considerati persi definitivamente. A questo punto ai socialisti catalani non restava altra possibilità che cercare di riconquistare i voti identitari spagnoli che Cs gli aveva strappato, puntellando in questa maniera anche il pedrigrí costituzional-patriottico del PSOE agli occhi dell’elettorato del resto dello Stato. E l’operazione, saggiamente architettata dal segretario regionale Iceta, pare aver dato i frutti sperati. Infatti, se è vero che i PSOE anche in Catalogna porta a casa il terzo peggior risultato della sua storia rimonta notevolmente rispetto alle elezioni catalane dello scorso anno. Il 23,2% e 12 seggi rappresentano la metà dei voti e seggi ottenuti nel 2008 (45,4% e 25 seggi) ma sono un risultato enormemente migliore rispetto a quello del 2016 (16,1% e 7 seggi). Un buon risultato anche se si prendono in considerazione le ultime elezioni catalane del 2017, quando il PSOE ottenne solo il 13,8%.

 

A fare le spese della relativa rinascita socialista è stato senza dubbio Cs il cui disastro elettorale in Catalogna risulta poco visibile se l’11,5% (5 seggi) di queste elezioni viene comparato con i risultati, pressoché identici, del 2016, ma alle regionali catalane del 2017 Cs ottiene il 25,3% dei voti. Insomma, un autentico ribaltamento di posizioni. Nata da una costola ultra-nazionalista spagnola del PSOE catalano Cs si è progressivamente spostato verso posizioni ultraliberali vicine all’ex leader popolare Aznar. Ma l’altra grande notizia dei queste elezioni in Catalogna è la totale (forse definitiva) marginalizzazione della destra spagnola. Il PP, già ridotto ai minimi termini alle ultime regionali conferma quel dato e racimola il 4,8% e un solo seggio, qualcosina in più del 3,6% di Vox che pure porta a casa un solitario seggio. Anche nel caso di Vox non si tratta che di una mezza sconfitta dato che il fondatore di Vox è proprio l’ex leader del PP catalano già parlamentare europeo e tra i primi sostenitori delle tesi del cosiddetto “patriottismo costituzionale”, Alejo Vidal-Quadras. A questa lettura diciamo “nazionale” bisogna affiancare quella ideologica, sull’asse destra-sinistra. Anche in questo caso si disegna una netta differenza rispetto al voto statale e la sua tendenza allo scivolamento verso destra. In Catalogna dei 48 deputati inviati a Madrid 34 sono ideologicamente di sinistra per un totale in voti del 62,7%.

 

Insomma, se non fosse stato per il voto basco e catalano oggi la stampa di tutta Europa starebbe raccontando la vittoria delle destre, di PP, Cs e Vox; questo faceva notare con la solita acutezza il settimanale satirico spagnolo “El Jueves” subito dopo le elezioni. Si tratta di un dato curioso, anche perché sotto gli occhi di tutti e ciononostante puntualmente dimenticato quando si lanciano scomuniche (da sinistra) contro le rivendicazioni democratiche maggioritarie di baschi e catalani. Il futuro del progresso e dell’uguaglianza nello stato-nazione chiamato Spagna dipende oggi da coloro che cercano di abbandonarlo o che vorrebbero almeno ridiscuterne il patto civico su basi plurinazionali e progressive. Questa paradossale circostanza è centrale per cercare di capire cosa verrà fatto con questi voti, e nella fattispecie cosa ne farà il PSOE di questa sua vittoria formale ma circoscritta. Dal punto di vista aritmetico l’unico governo delle sinistre possibile sarebbe una coalizione di maggioranza tra PSOE, UP ed ERC, con possibili geometrie di collaborazione e sostengo circostanziale da parte di JxC e PNV. Ma questa maggioranza (sarebbe davvero paradossale vedere addirittura un governo spagnolo con ministri indipendentisti catalani) risulta essere a tutt’oggi impossibile. ERC sembra aver messo da parte la cosiddetta via unilaterale ma la sua scommessa per il dialogo ha comunque come orizzonte la celebrazione di un referendum accordato sul nodo centrale del soggetto della sovranità. Il PSOE, come partito cosiddetto costituzionalista ovvero nazional-patriottico, è lontano anni luce da questa prospettiva e intende il dialogo come un tavolo eterno di confronto alla chiusura del quale (ri)concedere al massimo lo statuto di autonomia ritagliato dal Tribunal Constitucional nel 2010. Per i socialisti spagnoli l’unico referendum possibile sarebbe quello di ratifica di un nuovo statuto di autonomia, scenario questo già passato e fallito dopo una lunga agonia, durata dal 2004 al 2010. Nell’orizzonte di distensione formale propiziato dai socialisti non rientra nemmeno la disattivazione della via repressivo-giudiziaria e nemmeno la fine della scandalosa condiscendenza delle autorità spagnole nei confronti dell’estrema destra, degli abusi giudiziari e polizieschi nei confronti dell’indipendentismo, ecc.

 

Il PSOE ha trascorso tutta la campagna elettorale (e già dalla pre-campagna) ad affermare la sua fedeltà alla nazione spagnola e ricordare a elettori e giornalisti il suo sostegno al PP in materia nazionale, determinante per l’applicazione dell’articolo 155 nell’ottobre 2017. A fine marzo, in occasione della presentazione del “suo” libro di memorie (sic!) “Manual de resistencia”, Pedro Sánchez affermava che la questione catalana lo aveva avvicinato a Rajoy. La triste verità di queste elezioni è la vittoria dei partiti che a suo tempo applicarono o sostennero la sospensione dell’autonomia catalana via articolo 155 della Costituzione e che si dichiarano fedeli al sistema monarchico costituzionale, e che sono nei fatti e in definitiva variamente anti-repubblicane. La difesa dell’idea secondo la quale i catalani non avrebbero alcun diritto di decidere in referendum il loro futuro politico come nuovo “demos” riconosciuto e sovrano ha raccolto il 71,6% (270 seggi) dei voti degli spagnoli. Questa l’unica grande maggioranza assoluta e inamovibile ribadita da queste elezioni in un contesto di crollo elettorale da parte di UP, unica alternativa spagnola dialogante in questo senso. Eppure lo spazio per un accordo ci sarebbe pure, una sorta di tregua in attesa di tempi migliori. ERC infatti sembra essersi sistemata sulla strada del rinvio sine die dell’attivazione del cosiddetto “mandato dell’1 Ottobre”. La linea dominante sembra essere quella del pragmatismo improntato al blindaggio dell’autonomia con un ritorno al lavoro quotidiano sulla denuncia delle contraddizioni del sistema autonomico pur approfittando delle opportunità offerte dall’autonomia stessa in termini di quote di autogoverno e costruzione di pezzi di welfare o gestione di questo. Inoltre esiste una forte compatibilità politico-ideologica tra ERC e PSOE, entrambi liberal-progressisti anche se la prima sta vivendo un certo spostamento almeno visuale verso la socialdemocrazia di sinistra. Ma il problema di fondo assieme alla pressione esercitata dall’interno e dall’esterno sulla direzione del PSOE è irrisolvibile. Il PSOE in questa ultima fase ha addirittura fatto scomparire da dichiarazioni, documenti e programmi qualsiasi riferimento alla riforma federale dello Stato, la definizione della Spagna come stato plurinazionale e della Catalogna come una nazione dentro lo Stato. Un fatto che pur essendo una gradevole chiarificazione rappresenta un passo indietro di svariati decenni nella cultura politica dei socialisti spagnoli. Se il PSOE non vuole, non può o non sa integrare ERC in questa legislatura ai repubblicani catalani non resterà altra via che l’arroccamento.

 

L’altra opzione possibile, sempre nell’ottica di una maggioranza di governo stabile, sarebbe l’accordo tra PSOE e Cs. Questa ipotesi è resa complicata da più fattori. In primo luogo, Cs ha trovato la propria via di crescita in uno spazio politico differente da quello in cui è nato. In fondo è stato il suo stesso “patriottismo costituzionale” come monotema definitorio a portarlo da una sinistra liberal-progressista alla destra ultra-liberale. È su questo terreno che Cs entra in competizione sia con il PP che con il PSOE, denunciando quest’ultimo senza alcun argomento valido come “traditore della patria spagnola” e bollando la gestione di Rajoy come eccessivamente attendista rispetto alla crescita dell’indipendentismo. Come se non bastasse la spregiudicatezza con la quale ha attuato la propaganda di Cs ha scavato una breccia difficilmente colmabile con il PSOE in vista di futuri possibili accordi; diciamo che in generale si sta perdendo un po’ ovunque la consapevolezza che in un sistema parlamentare con l’avversario politico prima o poi ti ci potresti anche trovare a dialogare. Entrambi gli attori rifiutano di parlare per il momento anche solo di un accordo di maggioranza ma nell’era della politica spettacolo e della memoria corta e selettiva potrebbe accadere di tutto. Alcuni segnali in questo senso si sono giù attivati a cominciare dalla pressione del capitale finanziario e della grande impresa che all’indomani delle elezioni hanno immediatamente indicato la loro preferenza per una coalizione stabile o addirittura un governo a due PSOE-Cs. Alla forza oggettiva di questa presa di posizione bisogna aggiungere anche la capacità persuasiva del sistema bancario. Ad esempio il PSOE ha un debito con le banche stimato in 22 milioni di euro solo per la campagna elettorale appena conclusasi. Passata la sbornia elettorale il PSOE potrebbe ammorbidirsi molto sulla questione. Cs dal canto suo ci metterebbe non più di un paio di giorni a ribaltare il proprio discorso pubblico per vendere all’elettorato un eventuale accordo con i socialisti, magari affermando di essere riusciti a strappare al PSOE un impegno per un commissariamento parziale dell’autonomia catalana oppure aver ottenuto garanzie ferme circa la non apertura di un tavolo di negoziati con le autorità regionali catalane e con l’indipendentismo.

 

Con tutta probabilità bisognerà attendere la celebrazione delle elezioni municipali (tra cui quelle di Madrid e Barcellona) ed europee per avere delle risposte e forse addirittura delle nuove elezioni regionali in Catalogna. Fino a quel momento nessun partito tra quelli che hanno ottenuto risultati considerati positivi vorrà né potrà prendere decisioni suscettibili di provocare la smobilitazione dei rispettivi sodali. Per il momento l’astuto Sánchez ha sorpreso tutti. Il PSOE si sta decantando per un governo di minoranza da puntellare con accordi specifici a seconda dei casi, scartando addirittura un accordo di governo con UP. Nessun governo delle sinistre è quindi all’orizzonte in Spagna ma un semplice aggiornamento dello status quo parlamentare preesistente. Da questo punto di vista infatti quello del PSOE è stato un autentico capolavoro tattico. Dopo nemmeno nove mesi di governo di minoranza Sánchez decide di convocare elezioni per evitare l’erosione dei consensi e anticipare la destra dopo la manifestazione antigovernativa di PP, Cs e Vox del 10 febbraio a Madrid. Il PSOE non vince con chiarezza queste elezioni ma ottiene il risultato di indebolire tutti gli altri e frammentarli: occupa il centro; lascia PP, Cs e Vox a combattere la loro battaglia fratricida per l’egemonia a destra; si risucchia Podemos e compagnia; usa a sinistra e in funzione anti-indipendentista la narrazione della “finanziaria più sociale della storia” per presentare credenziali socialiste avanzate. Quando Podemos fece irruzione nella vita politica spagnola e il PSOE toccò i minimi storici si parlò di “pasokizzazione” del socialismo spagnolo. In molti davano (noi compresi) per morto il PSOE, in crisi, vittima della smobilitazione del suo elettorato in fuga verso l’astensione oppure sedotto dalla nuova e affabulante offerta “patriottica” rappresentata da Podemos. Però la Spagna non è la Grecia. In Grecia è mancato al PASOK quel “nemico nazionale interno” da usare per la propria resurrezione. In Spagna invece il PSOE ha saputo (e voluto) usare “la difesa della nazione minacciata dal separatismo” per ritornare in gioco, diventando il fedele partito della nazione senza definirsi nazionalista (bensì patriottico come tradizione dello stato-nazionalismo), strizzando l’occhio all’elettorato moderato contro la (ulteriore) deriva a destra di PP e Cs e lo sdoganamento di Vox.

 

Si prendano ovviamente queste come delle riflessioni, come un contributo all’analisi del voto spagnolo di domenica scorsa da integrare e far interagire con le altre uscite in questi giorni. Anche perché questa non può essere considerata come una scadenza elettorale “normale”. In fondo “la fiesta de la democracia española” si è celebrata con la dirigenza dell’indipendentismo catalano in carcere preventivo da più di un anno per aver osato sfidare lo Stato sul terreno della definizione del “demos”. Il processo in corso a Madrid, per la portata delle accuse come per il modo in cui queste vengono sostenute, danneggerà in maniera irrimediabile la democrazia in Spagna, oltre a offrirne un’immagine quantomeno discutibile e compromettere l’idea stessa di nazione deliberativa a favore di quella identitaria. Inoltre, stando ai flussi e tendenze elettorali la vittoria della o delle sinistre ci appare solo formale e comunque insufficiente, e potrebbe anche essere l’ultima e occorre prepararsi all’imminente chiusura degli spazi di democrazia in questo come in altri paesi. In fondo, il PSOE dell’era Rodríguez Zapatero aveva un progetto (seppur fallito) di evoluzione dello Stato delle Autonomie, quello dell’era Sánchez si distingue per essere un progetto di conservazione dello status quo nazionale, dinnanzi alla più grave crisi costituzionale dal 1978. Frattanto la già acuta divaricazione tra voto di baschi e catalani, da una parte, e voto del resto dello Stato, dall’altra, si fa sempre più ampia e, in buona sostanza, divergente. Per qualche motivo sarà…