La sua unica preoccupazione – 39

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24 Aprile 2020

Il contagio delle storie – 39

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 39

La sua unica preoccupazione – Maddalena Capra

 

Sarebbe stato ingiusto dirlo. Fuori la gente moriva spazzata dal nulla, dall’invisibile di pochi atomi virali. Spariva in urne di cremazioni rapide. Strisciava in bare raccontate solo dai balconi, salutate da occhi lontani e volti coperti.

Si chiudeva in case obbligatorie, l’ingenuità all’inizio s’era messa all’opera imbandendo sogni di intimità perdute, sessioni di yoga, cura del corpo e delle relazioni familiari. Poi aveva cominciato a intimidirsi. Il popolo iniziava a capire la disumanità di muri incollati alla pelle e ai sentimenti. A quella favola del cuore che può sempre volare nemmeno più i bambini, credevano.

Sarebbe stato ingiusto dire che la sua unica preoccupazione era l’estate. E poi il dopo. Quel dopo cui tutti si attenevano scrupolosamente per restare vivi.

Che l’estate precedente era stata una dimora di chiodi, sotto i piedi, sotto i passi, nelle stanze troppo belle d’una villa. Stracci di amori che non tornano. Di amori cremati. Si era ripromessa che non avrebbe mai più speso una vacanza così.

Adesso cosa potrebbe dire a sé stessa, per raccogliersi? È fortunata, che l’estate se va bene la saltiamo tutti. Un microrganismo la salva dall’ingiuria. Da tutte quelle foto di rito, la famigliola felice.

Erano arrivati a dormire separati. Quel distanziamento che adesso s’impone fuori: loro ce l’avevano già. Dentro. Poi sono tornati nello stesso letto. Una sera lei glielo dice: “Torna”. Pensa che non sia il momento di fare gli schizzinosi, che adesso ci sono priorità diverse, problemi veri. Questo, pensa.

Ora dorme accanto a un’altura di cui non ricorda l’odore, il tatto. Se ci pensa, se s’inventa un amore, le prende un gesto, una mano caccia il pensiero, il corpo è tanto abile e veloce nei dimostrativi. Chi dice che il corpo non mente ha ragione.

Dentro la quarantena si solidificano come blocchi di calcestruzzo in forme sbagliate. Non c’è nemmeno più quel piccolo incentivo della bicicletta su cui galoppava per la città e poi veniva a raccontarle cose. Lo sport, gli aneddoti.

Quale vita può portarle a tavola, quando la cena si libera dei figli e loro restano seduti accanto a bucce di frutta nei piatti? Adesso sembra ancora più scarno, quell’uomo, quella sua identità già esile a dispetto della corporatura. Sembra carta velina, se lei fa un gesto imprudente lo straccia.
Ci sono stati giorni: le sembrava bastasse. Avere accanto la sicurezza. Saperlo lì, saperlo sempre.

Trovare pronto il pranzo, a volte. Sapere di poter parlare, imbottire le cucine di disquisizioni adulte, arrivare a sera che non sei solo madre. La coppia è diventata la quarantena: si sceglie la sicurezza, sulla vita. Si scarta il resto, uscire nel pericolo, uscire nel sole e negli attacchi rischiosi della sorte.

Si preferisce ricordarla, la passione, o nemmeno. Basta lasciarsela alle spalle, sentirsi mature in quelle scelte per il bene della famiglia.
Poi una sera c’è un film, e la passione torna a bestemmiare. Stai zitta, le diresti. E invece sai che ha ragione.

Il mattino dopo c’era uno scarafaggio in bagno, si muoveva appena, sulle piastrelle: oscillava le antenne in moti minimi che facevano basculare il dorso.

Sembrava morto, sembrava una di quelle salme che hanno un ultimo fremito. Solo per salutare la vita. Così lei pensa lo lascio qui, mi fa schifo, lo lascio e quando lui si sveglia glielo faccio vedere. Gli ha sempre mostrato tutto. Si sciacqua la faccia, la affonda nell’asciugamano, esce scavalcando quell’insetto nauseabondo.

Guarda le foto appiccicate alla porta: una dopo l’altra, e non ricorda in quale erano follemente innamorati. Non in questa sotto il Bianco. Non in questa attorno ai figli. Non in questa dove lei cammina da sola col primogenito.

Sono foto silenziose, di tempi silenziosi. Di tempi in cui l’amore era non chiedersi se l’amava. Adesso pensa che non l’ha mai amato. Si è sempre affidata, lui è il suo affidamento, il soccorritore. L’ovvietà del compagno con cui sfigliare e fare quei discorsi accanto alle bucce di frutta sul tavolo. A cui dire di raccattare una bestia morta vicino al cesso.

Si siede, il caffè nella tazza alta. Una banana. Passa il tovagliolo di carta sulla bava del caffè. Dà un primo morso nel silenzio di un sabato qualunque di quarantena. I figli dormono. Dorme quell’uomo che quando lei glielo dice – Non ti amo – sorride sperando che basti aspettare. Le torna l’insetto. Agguanta quel tovagliolino, si alza in un impeto.

Mentre l’afferra la blatta si agita, forse ha stretto troppo, le esce una sostanza giallognola, come un pus. Forse siamo tutti così, con un’infezione nascosta, nei visceri. Guarda solo per rassicurarsi di averla presa, guarda quella sua impresa eroica prima di buttarla. Poi torna a sedere.