Sciamàdda/2

di

14 Febbraio 2022

Un diario di bordo dell’abitare in forma di dispacci da Genova

In camera ho incorniciata una foto di mio nonno a Leningrado, dietro di lui i diciassette piani dell’Hotel Pribaltiyskaya costruito nel 1978, dietro l’hotel il Golfo di Finlandia.

L’ho scoperto recentemente utilizzando una funzione di Google Immagini che permette di risalire al luogo dello scatto partendo da una fotografia. Nessuno della mia famiglia sapeva dove fosse stata scattata, dall’estetica immaginavo certamente qualche paese dell’Est, ma mai qualcosa che proiettasse Mario sul Golfo di Finlandia.

Era andato là con un viaggio organizzato dalla cooperativa edile per cui lavorava in quegli anni, quando faceva il trasfertista a Genova.

Il suo legame con la Liguria è stato sempre molto problematico, venne arruolato negli Alpini durante la Seconda Guerra Mondiale ad Arma di Taggia (IM) e si fece alcuni inverni sulle Alpi al confine francese a spalare neve. Finita la guerra, camminò a piedi dalle Alpi Marittime, passando per l’appennino Ligure, fino alla pianura di Sant’Ilario d’Enza (RE), il paese natio.

Negli ultimi mesi di viaggio, sulla via del ritorno, si prese anche la malaria, ma non se ne curò particolarmente, mi ha sempre raccontato che ogni tanto aveva un po’ di febbre ma in quei mesi i problemi erano altri, ad esempio non incontrare nazisti in cerca di fuggiaschi.

Una volta finita la guerra, quando gli spostamenti di qualche centinaio di chilometri erano titanici, una quantità considerevole di persone emigrò dall’appennino tosco-emiliano riversandosi come manovali nei porti di La Spezia e di Genova in cerca di lavoro.

Genova da sempre è stata terra di immigrazione, sia oltre oceano tra Ottocento e Novecento, sia internamente quando dagli anni Sessanta iniziò ad attirare manovali dalle zone più disparate del paese. Ora Genova è cambiata, da trent’anni è in corso una crisi industriale, identitaria e demografica senza fine.

I migranti invece continuano ad arrivare, provengono via mare dall’Africa, via terra attraverso la Balkan Route, arrivano qua per proseguire ed arrivare a Ventimiglia e poi, una volta in Francia, dirigersi a Calais per tentare l’approdo in Inghilterra.

Genova è da sempre uno spazio di rimescolamento di provenienze, direzioni, spazi e traiettorie e, negli ultimi anni, è diventato anche lo spazio di quella parte di mondo sfruttato che si muove in cerca di una vita migliore nei paesi più ricchi del pianeta.

Alcuni migranti poi, stanchi dei respingimenti ad un confine francese diventato frontiera militarizzata, si fermano qua.

In questo modo contribuiscono al cambiamento della città dando nuove visioni che si sedimentano, tra mille problemi di convivenza, in un contesto di porto sul Mediterraneo che continua ad essere ciò che è sempre stato: un luogo in cui le persone arrivano, si fermano e lasciano un piccolo mattoncino che tra magari duecento o trecento anni riuscirà, assieme ad altri mattoncini, a significare qualcosa di nuovo. I processi della storia sono lentissimi e hanno tempi diversi rispetto all’odierna velocità digitale.

A tal proposito, l’altro giorno mentre ero a spasso mi sono imbattuto in un mercatino antiquario, al banco in cui ero intento a guardare vecchie fotografie della città, una signora molto anziana stava facendo valutare vari orologi al titolare. Una volta scartati tutti ne è rimasto solamente uno, un bellissimo orologio da taschino.

Il commerciante lo prende, lo valuta, dice questo è buono signora, ora guardo se gli ingranaggi vanno bene, ma quando toglie la placchetta sul retro gli occhi diventano di pietra:

– Signora qui c’è una scritta, è molto personale, dice “In ricordo di mio fratello, trucidato nel 1945” e poi c’è una firma.

– Era di mio zio quell’orologio, non sapevo…

– Signora mi spiace ma non glielo posso prendere questo, è un ricordo troppo personale.

La signora era combattuta, da un lato perché quello era l’unico orologio da cui poteva ricavare del denaro, ma dall’altro quell’orologio rappresentava un aspetto famigliare importante di cui lei non ne era a conoscenza. E non ne è stata a conoscenza per quasi ottant’anni. Questo a proposito dei tempi lunghi della storia.

A proposito di orologi invece ho finito di leggere Racconti ad Orologeria di Faruk Šehić :

L’unico posto anche peggio della Nuova Parigi era stata Nuova Bruxelles. La schiavitù era evidente. Congolesi neri, forti nelle divise bianche, cacciavano le foglie dalle strade e le accumulavano nei parchi. La decomposizione delle foglie offendeva profondamente la nostra nuova cultura ultrabianca. E così è successo che io e il congolese vestito di bianco ci siamo trovati davanti alla stessa vetrina a guardare gli orologi di lusso […] Anche noi vorremmo godere dello sfarzo e della gioia della nostra nuova società, e non siamo d’accordo con la parte che ci è stata assegnata. Per questo motivo di tanto in tanto incendiamo macchine e banche.

Tutto quello che ho raccontato credo sia in qualche modo collegato e Genova, per me, è il luogo in cui si tirano i fili della vita.

“Molte più cose ben più sorprendenti vengono in visita

imprevedibili

percorsi incomprensibili tracciano al fine la nostra vita

irriducibili.”