Varcare la cortina: sognare, viaggiare, raccontare

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2 Luglio 2020

Prima puntata

“La più tipica impostazione dell’intreccio è il movimento attraverso la frontiera”
Jurij Lotman, Tipologia della cultura

 

In assenza di un movimento, suggerisce la citazione lotmaniana, è come se non avessimo improvvisamente di che raccontare. E non ci si riferisce qui ai grandi spostamenti, ai viaggi o alle scoperte rivoluzionarie di nuovi continenti.

Viviamo in piccoli universi circoscritti e qualsiasi minimo movimento che ci porta a varcarne i confini (dal fare la spesa a telefonare a un amico) diviene un’occasione narrativa, qualcosa di cui possiamo raccontare.

Si tratta di confini che possono anche essere varcati da un oggetto o agente esterno, dal campanello che ci distoglie dalla lettura, a un messaggio, più e meno inaspettato che sia.
Insomma, per raccontare qualcosa, anche solo a noi stessi, abbiamo bisogno di una minima alterazione del nostro universo circoscritto.

Nel caso dei romanzi, scrive il semiologo Lotman, il movimento attraverso questa frontiera può farsi chiaramente di ingenti dimensioni e significato, come l’invasione napoleonica che stravolge la vita dei Bolkonskij e dei Rostov tolstojani. Tuttavia, non è necessaria una catastrofe bellica (o una pandemia globale) per offrirci un motivo di racconto, un’esigenza comunicativa.

È la novità, la sorpresa, l’ingresso di un elemento di alterità a far nascere le storie e le riflessioni, in primo luogo su noi stessi. Che siate amanti o meno delle sorprese, è inevitabile provare un minimo di curiosità per ciò che non si conosce e che mette in gioco preconcetti e categorie interpretative cui siamo abituati. L’alterità affascina. Anche nella sua potenziale pericolosità.

Restando sul tema del movimento, su suggerimento di Lotman, è proprio il viaggio (reale o immaginario che sia) a rappresentare un meccanismo classico, manualistico di incontro e confronto con l’Altro.

Il Novecento ha reso sempre più accessibili, almeno in una parte di mondo, tali spostamenti, rendendoli in fondo nella loro variante prettamente consumistica anche lontani dall’idea iniziale dell’incontro con l’Altro, spesso così mediata attraverso impalcature a misura di turista. L’innalzamento diffuso di un certo livello di benessere economico e l’ampliamento e miglioramento delle infrastrutture con annesso abbattimento dei costi dei trasporti hanno favorito il fenomeno.

Il padiglione dell'URSS all'EXPO del 1967

Il mondo del secondo dopoguerra si trovava tuttavia paradigmaticamente diviso in due sfere orbitanti attorno a modelli – sociali, politici, economici, culturali – tanto opposti da scatenare non di rado le fantasie di chi abitava nell’uno rispetto all’altro.

Figlia di un’altra generazione, sono cresciuta con vaghi ricordi delle code alle frontiere italo-slovene triestine, ma ricche narrazioni di chi, di qualche generazione a me precedente, quei mondi (che spesso, poi, portavano un altro nome) li aveva visti, vissuti, visitati.

Si tratta di narrazioni orali di chi ricorda la Praga cecoslovacca della fine degli anni Settanta, qualche avventura nei ristoranti bulgari degli anni Ottanta o gli esilaranti racconti di chi allora, studente di slavistica e oggi professore, si ritrovava alle prese con le perquisizioni delle valigie (in cerca, chiaramente, di volumi in ciclostile clandestini) alla frontiera di Čop (oggi nella Transcarpazia ucraina al confine ungherese) in rientro dalle Mosca e Pietroburgo brežneviane.

Ma si tratta anche di una serie di resoconti di viaggio, reportage, diari che negli anni si sono accumulati nelle librerie di quello che si autocompiaceva (e continua non di rado a farlo tuttora) nel definirsi “mondo occidentale”, intendendo dietro a questo aggettivo, infelice per chi scrive, un’aura di intrinseca superiorità e prestigio.

Viceversa, per chi in questa alterità ci abitava era più arduo riuscire ad accedere al mondo oltrecortina, proprio per questo allora più favoleggiato e ambito: dai dischi rock che andavano a ruba nel mercato nero moscovita, ai jeans venduti al mercato di Ponterosso a Trieste alle carovane di cittadini jugoslavi – anche gli oggetti di questo mondo Altro divenivano talismani di una realtà bramata in quanto inaccessibile e diversa. Plastico tanto da finir criticato nella stessa Urss è l’esempio offerto da un romanzo sovietico (vale a dire, pubblicato dagli organi di stampa ufficiali),

Ma, insomma che cosa vuoi? del neostaliniano Vsevolod Kočetov (1969, allora prontamente tradotto in Italia da La nuova sinistra Samonà e Savelli): si tratta, nella definizione dello slavista Daniele Franzoni, di “un noioso pamphlet polemico scritto contro le posizioni [revisioniste ed eurocomuniste] del PCI sulla Primavera di Praga”, che vede, laterale rispetto al livello ideologico, la storia di una giovane cittadina sovietica che sposa uno studente italiano a Mosca; lasciata l’Urss per la sognata Italia, trova qui in realtà un ambiente a lei ostile e se ne lamenta. Persino gli ardenti staliniani sanno come i sogni si frantumino inevitabilmente a contatto con la realtà.

A spingere donne e uomini più e meno noti a intraprendere da Ovest il proprio viaggio verso Est – con tutte le difficoltà del caso, dai visti ai percorsi di visita obbligati – erano curiosità, interesse (dai colori anche, inevitabilmente, orientalisti), fantasia, sogni di evasione, per più di qualcuno una chimera dalle tinte ideologiche o per lo meno politiche.

La stessa rivoluzionaria ballerina statunitense Isadora Duncan giunse negli anni Venti in Urss sulla base delle sue simpatie politiche: intendeva aprire a Mosca un’accademia a immagine e somiglianza delle sue novità artistiche; in realtà dall’esperienza sovietica portò a casa un’infelice matrimonio a base di alcool, scandalo e incomprensione linguistica con il poeta russo idolo delle folle, soprattutto femminili, Sergej Esenin, di diciott’anni più giovane di lei.

Capa e Steinbeck in Urss

Le difficoltà oggettive organizzative per intraprendere questo viaggio lo resero tuttavia un privilegio per pochi, cosa che permise per decenni – e soprattutto in Italia, complice il peso del partito nel Belpaese – una narrazione quanto meno edulcorata della realtà e delle condizioni di vita in Unione Sovietica e negli altri paesi comunisti, una narrazione che ad oggi permette l’esistenza di un certo revisionismo e di determinate convinzioni quanto meno ingenue sulla profonda bontà dell’esperimento socialista.

Il recente film Mr. Jones (2019) racconta delle difficoltà ulteriori che incontravano i giornalisti stranieri a lavorare su materiali che il Cremlino non aveva alcun interesse a far trapelare al “nemico”, come la tragedia dell’holodomor in Ucraina negli anni Trenta.

A qualche altro giornalista, in tempi diversi e per ragioni particolari, andò meglio e proprio a partire da due coppie di reporter prende spunto questa breve sequenza di riflessioni: Diario russo del duo statunitense Steinbeck-Capa che visitò l’Urss nel 1947 e C’era una volta l’Urss del duo francese Lapierre-Pedrazzini che la visitarono nel 1956.

Si tratta di due viaggi a loro modo unici, che documentano, come vedremo nelle prossime sezioni, un incontro mediato ma non banale con il paese dei Soviet.

L’Urss è in realtà solo una delle Atlantidi moderne che, nate e perite nel corso del Novecento, hanno ispirato e fatto librare menti e cuori di viaggiatori, scrittori, giornalisti; è forse però il più raccontato di questi modelli “utopici” finiti sommersi dal tempo (e pertanto atlantidici), oggi lontani dalla realtà, ma già allora ben distanti da come venivano immaginati.

I pezzettini del puzzle psichedelico raccolti da chi ha visto, vissuto e visitato queste Atlantidi riportano, proprio a partire dall’incontro con l’Altro, una realtà come sempre inevitabilmente più sfaccettata e stratificata rispetto a quella sognata.

Seguendo i viaggi realizzati allora, le prossime sezioni approfondiranno l’Incontro, l’Altro e la Voce (sub)Alterna dell’Altro, provando a ricostruire, attraverso l’unione tra il viaggiatore e il “viaggiato”, l’Atlantide moderna ora sommersa.

P.S. Certa che dal confronto e dall’incontro nasca sempre qualcosa, concludo con una citazione ben nota, ricordatami da un amico (grazie!), che si ricollega all’epigrafe iniziale, mettendola a suo modo in poesia.

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”
Cesare Pavese, La luna e i falò

Piazza Ponterosso, nel centro di Trieste, cittadini jugoslavi in gita per lo shopping, archivio Italfoto