Il capitalismo dei mercanti

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9 Giugno 2018

La quarta puntata del Glossario del Capitalista Moderno illustra il funzionamento dell’economia mercantile, fondata su esportazioni e sfruttamento del lavoro

Il commercio è una guerra fatta con il denaro
Jean-Baptiste Colbert, Mémoire sur le commerce, 1664

Le vesti dei mercanti trasudano di ori
Tesoro immani portano le stive [—]
Trasudano le schiene, schiantate dal lavoro.
Francesco Guccini, Asia

Nella puntata precedente abbiamo visto come il contenimento salariale praticato da Germania e Cina sia alla base del modello che abbiamo definito “neo-mercantilista”, volto all’evitare l’intrinseca contraddizione del capitalismo mantenendo profitti relativamente elevati e smaltendo tutta la produzione indirizzandola verso i mercati internazionali. Ossia portando avanti una politica marcatamente orientata all’esportazione.

Il grafico sottostante riporta l’evoluzione dal 2000 al 2016 del “saldo di conto corrente della bilancia dei pagamenti” sia cinese che tedesco, entrambi espressi in percentuale del PIL (il grafico è costruito su dati UNCTAD). Si tratta di un indicatore che in larghissima (anche se non esclusiva) misura dipende dall’andamento del commercio estero. Quando un paese esporta più di quel che importa il saldo di conto corrente è positivo, nel caso contrario esso sarà ovviamente negativo.

 

 

Il grafico illustra cose istruttive. Primo, come dicevamo sia Germania che Cina presentano negli ultimi 15 anni un saldo di conto corrente persistentemente positivo, il che li rende Paesi aggressivi nella conquista di mercati esteri.

Nel 2015 le esportazioni tedesche costituivano il 47 percento del PIL – come dire: la metà di quel che si produce in Germania viene venduto all’estero (si, avete letto bene: la metà). Secondo, segnalavamo nella puntata precedente come intorno al 2010 il trend distributivo in Cina stesse finalmente incominciando a cambiare e che i salari reali stessero iniziando a crescere più rapidamente della produttività.

In altri termini, intorno al 2010 (in realtà un po’ prima) in Cina comincia a crescere il costo del lavoro per unità di prodotto: a ciò corrisponde – lo si vede bene dal grafico – una significativa e non sorprendente riduzione del surplus cinese, che passa da una stratosferica vetta del 10% all’attuale 1,73% del PIL. La Cina è ancora un paese in surplus, ma sempre di meno.

Terzo, all’inizio del millennio, cioè dell’esperienza dell’euro, la Germania non era un paese neo-mercantilista e i suoi conti con l’estero erano in pareggio o addirittura lievemente deficitari. Con l’euro, però, tutto cambia e oggi il surplus di conto corrente tedesco è impressionante, supera l’8% del PIL (e del PIL tedesco, un mare di soldi).

Ora, è legittimo chiedersi se le dinamiche appena illustrate dipendano esclusivamente dal costo del lavoro per unità di prodotto. Diminuirlo (o comunque farlo crescere più lentamente degli altri) non è l’unica strada per conquistare mercati esteri.

Almeno sulla carta ve sono altre due. Una consiste nello svalutare la propria moneta, ciò che – a parità di ogni altra condizione e in particolare a parità di costo del lavoro per unità di prodotto – rende le proprie merci più a buon mercato per gli stranieri.

L’altra strada è quella della “innovazione”, da intendersi in senso lato: per quanto il mio costo del lavoro per unità di prodotto possa essere elevato, tu le mie merci le comperi lo stesso perché si tratta di telefonini che tu non produci, di pannelli solari che non sai ancora fare, di computer migliori di quelli che escono dalle tue fabbriche, eccetera.

La Germania esporta molto verso paesi al di fuori dell’area euro (tre delle sue cinque principali destinazioni sono Stati Uniti, Regno Unito e Cina) e dunque ha senso chiedersi se il tasso di cambio dell’euro abbia potuto favorirla.

Senza entrare in dettagli eccessivi: l’euro, dal momento della sua creazione, si è sempre svalutato nei confronti dello yuan cinese; si è rivalutato invece nei confronti del dollaro statunitense e della sterlina britannica fino al 2008 e da allora, anche nei confronti di queste due valute, si è svalutato.

Questi fatti, tenendo conto che come abbiamo visto il surplus commerciale tedesco comincia a formarsi ben prima del 2008, suggeriscono la seguente interpretazione: la svalutazione post-2008 dell’euro contribuisce a rafforzare una tendenza (la spinta mercantilistica) che era già in atto e che come sappiamo si spiega con la dura strategia di contenimento salariale del capitalismo tedesco.

E l’innovazione? Anche qui, in estrema sintesi: le automobili tedesche (di 4 prodotte, 3 vengono esportate) sono di eccellente qualità, ma lo sono sempre state; sono invece diminuite le esportazioni tedesche di beni ICT (Information and Communication Technology), passate dal 2000 ad oggi dall’8 al 4 percento del totale esportato; infine, sono aumentate significativamente le esportazioni di tecnologie eco-compatibili (di cui la Germania è leader mondiale indiscusso), ma non si tratta ancora (purtroppo) di una voce particolarmente importante del commercio mondiale, non certo paragonabile alle automobili.

L’impressione, anche qui, è allora che la qualità del made in Germany non basti da sola a spiegare il boom così esplosivo delle esportazioni totali.

Una ulteriore osservazione sul neo-mercantilismo tedesco. Esso non si manifesta solamente in esportazioni elevate, ma anche in basse importazioni. Non c’è niente da fare: da inizio millennio, dai tempi della stretta salariale di cui abbiamo detto, i tedeschi spendono poco.

La quota dei consumi sul totale del PIL tedesco (54%) è molto più bassa della medesima quota in tutte le altre economie avanzate (69% negli USA, 65% in Gran Bretagna, eccetera).

E se spendi poco, importi anche poco. Se non comperi le tue automobili, non comperi neppure quelle degli altri. C’è di più. A spendere poco non sono soltanto le famiglie tedesche ma, negli ultimi anni, anche il governo tedesco: dal 2012 in poi il bilancio del governo tedesco è in surplus – prende in tasse di più di quel che poi rimette in circolazione in forma di spesa pubblica.

Naturalmente se la spesa tedesca, pubblica e privata, langue, necessariamente languono anche le importazioni (che costituiscono pur sempre spesa; spesa per beni prodotti altrove).

In sintesi. Da una parte – Germania e, in misura decrescente, Cina – ci sono quelli che producono molto e spendono poco, vendendo all’estero quel che altrimenti si accumulerebbe nei magazzini; dall’altra coloro che, pur essendosi anch’essi impegnati in una strategia di contenimento salariale, non hanno saputo farlo con la stessa efficienza tedesca e dunque hanno perso competitività: comprano merci tedesche e di proprie non ne producono più molte. Un mondo squilibrato.

 

 

Un mondo nel quale di conseguenza la tentazione dei nazionalismi cresce con ogni evidenza. Non ci dobbiamo cascare: il problema non sono “i tedeschi” o “i cinesi”, ma le élite che negli ultimi 30 anni hanno duramente marginalizzato i ceti popolari ovunque, in tutto l’universo cosiddetto per semplicità “neo-liberista”.

Perché non facciamo anche noi (“gli altri”) come i tedeschi? Perché non si può e perché, quand’anche si potesse, non avrebbe senso.

Non si può: le mie esportazioni, infatti, sono le importazioni di qualcun altro. Pertanto, a un Paese in surplus commerciale (ossia che esporta più di quel che importa), deve necessariamente corrispondere un Paese in deficit commerciale (per il quale le importazioni eccedono le esportazioni).

E’ logicamente impossibile che tutti i Paesi del mondo siano, come Cina e Germania, esportatori netti. La guerra non si può vincere in due. Se tu “vinci”, io “perdo”. E’ però certamente possibile che tutti comunque provino ad attuare una strategia tedesca, sperando poi di essere loro, questa volta, a vincere la guerra. La tentazione è forte ed è un mantra che conosciamo bene, che insiste sulla necessità di migliorare la competitività internazionale per incrementare le esportazioni, a cominciare dal costo del lavoro.

Capite bene che se tutti ragionassimo in questo modo – se tu riduci i tuoi costi (pensate alle riforme adottate in Italia dalla fine degli anni Novanta, dalla legge Treu alla legge Biagi, fino al Jobs Act) di 2 allora io li riduco di 3, e se poi rispondi abbassandoli di 4 io scendo a 5, ecc. – il solo risultato consisterebbe, nuovamente, in una ulteriore riduzione della quota salari sul PIL e dunque in un aggravamento della crisi da domanda nella quale l’Europa sprofonda da più di 10 anni. I debiti delle famiglie dovrebbero crescere nuovamente, sino ad un nuovo 2007.

Anche la strategia neo-mercantilista produce debito.

E’ bensì vero che tale strategia non richiede di concedere prestiti ai propri lavoratori, visto che non sono loro a dover acquistare l’abbondanza di merci, ma come fanno gli stranieri dai quali acquistiamo poco o niente a continuare a comperare le nostre? I prestiti bisogna farli a loro…agli spagnoli, agli italiani, ai greci…

Nella prossima puntata parleremo proprio di debito estero in epoca di neo-mercantilismo. Una deviazione che molto ci farà scoprire sul significato della moneta e sulle relazioni economiche internazionali contemporanee.