Microeconomia e Coronavirus: di mascherine e storia delle idee

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25 Marzo 2020

In questi giorni difficili si è aperto un dibattito quasi surreale sul prezzo delle mascherine. Da un lato gli iper-liberisti (l’Istituto Bruno Leoni, il Foglio e tanti blogger ansiosi di mostrarci di aver capito l’arcano delle curve di domanda e di offerta), dall’altro il presidente Macron che avoca a sé, allo Stato, la distribuzione delle mascherine.

Mercato versus Stato, un dibattito serio, importante e di lunga data. Surreale, però, se applicato alla questione delle mascherine. Per due ragioni.

Primo: questo dibattito non avrebbe neppure dovuto incominciare perché, vedremo, vede i protagonisti accapigliarsi su un problema che è già stato risolto. Secondo, perché distoglie l’attenzione da ciò che davvero si dovrebbe discutere: dove e come reperire le ingenti risorse necessarie a gestire l’emergenza e favorire la ripresa di un livello almeno decente di attività economica, specialmente in un paese, il nostro, stremato da una crisi infinita (il reddito reale medio degli italiani è ancora oggi inferiore ai livelli pre-2008).

Il problema lo risolsero molto tempo fa tre economisti, due britannici (Henry Sidgwick e Arthur C. Pigou) e uno italiano, Luigi Einaudi. Sidgwick e Pigou, a cavallo fra ‘800 e ‘900 del secolo scorso, elaborarono la nozione di “esternalità”; Einaudi è invece noto per aver espresso la convinzione secondo cui il mercato sia un meccanismo efficiente per soddisfare domande, ma che esso non sia in grado di soddisfare bisogni.

In linea di principio, ha senso ritenere che l’acquisto di un maglione in un negozio di abbigliamento sia destinato ad influenzare il benessere del consumatore che lo compera e dei produttori (proprietari e lavoratori del negozio) che lo vendono.

Nessun’altro, nessun soggetto esterno a questo scambio vedrà invece mutare direttamente le proprie condizioni in seguito ad esso. Quello scambio è un affare di chi compera e di chi vende, punto e basta. Lo scambio che intercorre tra chi compera una mascherina in tempi di coronavirus e chi la vende influenza invece, eccome, il benessere di coloro che a quello scambio sono esterni. Se acquisto una mascherina, riduco la probabilità che altri vengano contagiati (la OMS raccomanda infatti di indossare la mascherina quando si sospetta di aver contratto il coronavirus).

Se acquisto un maglione, pago io e sto meglio io. Se acquisto una mascherina, pago io e stanno meglio gli altri. Se l’uomo è homo oeconomicus (cioè essenzialmente egoista), e un po’ lo siamo tutti, non avrà un incentivo sufficientemente forte ad acquistare mascherine (chi le acquista, infatti, le acquista per proteggere sé stesso).

Insomma, economicamente parlando un maglione e una mascherina non sono la stessa cosa. Le leggi che regolano lo scambio dell’uno non possono perciò essere le stesse che presiedono allo scambio dell’altra. Mercato per l’uno, Stato per l’altra.

Per la categoria è stato particolarmente avvilente in questi giorni leggere sui social le parole di economisti che confondevano un maglione con una mascherina; che, introiettato lo schemetto domanda-offerta del capitolo 1, avevano invece scordato le esternalità trattate qualche capitolo più in là.

Einaudi, poi. Egli conosceva e amava (giustamente) Adam Smith il quale, in un famosissimo passaggio della Ricchezza delle Nazioni (1776), troppo spesso citato fuori contesto, scriveva che “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo la cena, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse. Ci indirizziamo non alla loro umanità ma al loro amore di se stessi, e a loro non parliamo delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”.

Qui, Smith difendeva il mercato come meccanismo efficiente di allocazione e razionamento delle risorse. Se per qualche ragione crescesse la domanda di birra (Smith era scozzese) e il prezzo, fissato da qualche autorità statuale, non potesse anch’esso crescere in conseguenza, occorrerebbe inventarsi qualche meccanismo di razionamento, qualche “tessera”: una sterlina al litro, due litri a testa ogni settimana e tutti a casa.

E la polizia annonaria a controllare che nessuno sgarri, che all’angolo della strada e al riparo dai suoi sguardi indiscreti non sorga e fiorisca un mercato nero. Nero, ma pur sempre mercato. Una specie di economia di guerra. Meglio il mercato, diceva Smith: che, a fronte dell’aumento di domanda, il prezzo della birra sia libero di crescere. A una sterlina e mezzo al litro, i birrai saranno incentivati a produrne di più e disporranno delle risorse per farlo, necessarie ad assumere più lavoratori e ad acquistare più orzo.

Certo, qualcuno che riusciva a pagare una sterlina al litro non riuscirà a sborsarne una e mezzo e rimarrà senza birra: il mercato soddisfa domande, non bisogni. Che fare? La soluzione che oggi va di moda sta nel non fare assolutamente niente. Se non ce la fai, la birra non te la compri e tanti saluti. Se invece fossimo mossi da un minimo senso della polis dovremmo, di nuovo, affidarci ad Arthur Pigou, o leggere un capitolo ancora un po’ più in là del manuale di microeconomia: il “secondo teorema dell’economia del benessere”.

A recitarlo rigorosamente, il teorema sembra incomprensibile, dice che “per una opportuna distribuzione delle dotazioni iniziali, qualsiasi allocazione ritenuta desiderabile può emergere come equilibrio spontaneo di mercato”. A tradurlo, significa imposta patrimoniale e/o tassa di successione e/o tassazione fortemente progressiva sul reddito utilizzate per fare in modo che chiunque, senza intervento della polizia annonaria, possa acquistare la birra. Saranno d’accordo quelli del Foglio o del Bruno Leoni? E ricorderanno che Adam Smith, che capiva bene la differenza fra birra e istruzione, fra maglioni e mascherine, diceva “istruzione gratuita per tutti i fanciulli”?

Alessandro Roncaglia, grande studioso di Adam Smith, ci ricorda ne La Ricchezza delle Idee. Storia del pensiero economico (2003, Laterza), che lo Smith della Teoria dei Sentimenti Morali (1759) ci metteva in guardia dal ritenere che un mercato senza morale, senza simpatia (immedesimazione nei sentimenti altrui) e senza giustizia avrebbe prodotto benessere e crescita. Tutt’altro: avrebbe distrutto se stesso e la società.

Ve lo immaginate infatti cosa accadrebbe se i commercianti continuassero a vendere prodotti adulterati o cercassero di guadagnare rendite speculative dalla vendita di mascherine o qualunque altra merce? Ciascuno potrebbe cominciare a farsi da sé le mascherine, aumenterebbe la produzione per autoconsumo con un regresso della divisione del lavoro e perciò della causa prima e fondamentale della crescita della ricchezza delle nazioni.

Capiranno mai, questi sciagurati “liberisti”, che sta proprio lì, nel riflettere dei grandi pensatori liberali (Smith, Einaudi) e del socialismo liberale (Pigou, Sidgwick), il seme di una società meno indecente? E riusciranno mai gli economisti a dare della propria categoria un’immagine minimamente più sofisticata e meno volgare del bigino di microeconomia?

C’è poi la questione del dove e come reperire le risorse per fronteggiare l’emergenza e riattivare l’economia. È una grande questione, che merita una riflessione a parte: “Macroeconomia e coronavirus: un’occasione da non perdere”?