E fece Storia: la poesia “If I Must Die” del poeta palestinese Refaat Alareer di Gaza

Refaat Alareer (23 settembre 1979-6 dicembre 2023) era un poeta, scrittore, accademico e attivista palestinese che fu ucciso in un attacco mirato israeliano insieme ad altre nove persone della sua famiglia: i tre figli maschi, un fratello, una sorella e quattro nipoti. La strage avvenne la sera del sessantunesimo giorno della guerra genocidaria che Israele sta ancora conducendo nella Striscia di Gaza. Solo dopo l’uccisione del poeta palestinese la poesia If I Must Die (Se devo morire), che aveva scritto e postato nel proprio blog, nel 2011, poi ripubblicato altre tre volte su altrettante riviste anglofone diverse, e infine appuntato sul suo profilo di X, divenne virale in rete, diventando subito famosa a livello globale. Nel giro di sei mesi fu tradotta in oltre 100 lingue, mentre veniva recitata in manifestazioni pro-Palestina organizzate in varie parti del mondo per fermare il genocidio a Gaza.

Secondo un rapporto pubblicato l’8 dicembre 2023 da Euro-Med Human Rights Monitor, Alareer fu ucciso deliberatamente da Israele. All’inizio della guerra, l’autore aveva infatti ricevuto minacce di morte telefonicamente e sui social in tutti i casi da utenti israeliani. Forse perciò appuntò If I Must Die sul suo profilo di X; nel gennaio del 2024 era già diventata una delle poesie del XXI secolo più lette e tradotte in tempi rapidissimi. 

In un editoriale uscito su Literary Hub, il 7 dicembre 2023, lo scrittore irlandese Dan Sheehan ricorda che Alareer, al quale erano sopravvissute le tre figlie e la moglie Nusayba, insegnava letteratura comparata e scrittura creativa presso l’ormai distrutta Università Islamica di Gaza. Era particolarmente appassionato di Shakespeare e, durante la carriera, iniziata nello stesso ateneo nel 2007, aveva anche insegnato traduzione dall’arabo all’inglese, e viceversa. L’obiettivo massimo che voleva raggiungere con la sua attività didattica era di evidenziare le analogie tra le esperienze degli ebrei, specialmente in Europa, e quelle del popolo palestinese.

Alareer subì un grave lutto familiare, quando suo fratello Muhammad, al quale era molto affezionato, fu ucciso nell’estate del 2014 in un bombardamento israeliano, che distrusse completamente la loro villa multipla di famiglia. Nato nel 1983, il giovane trentunenne, noto con il diminutivo Hamada, che aveva un diploma in relazioni pubbliche e faceva l’animatore per l’infanzia, lasciò la figlia Raneem di quattro anni e il figlio Hamza di appena un anno. 

Durante la stessa operazione Margine protettivo che Israele condusse a Gaza dall’8 luglio al 26 agosto del 2014, uccidendo oltre 2000 civili palestinesi, tra cui circa 500 bambine e bambini, Alareer stava scrivendo un articolo per un numero speciale, intitolato Life in Occupied Palestine, della rivista Biography, edita dall’Università delle Hawaii. Nel 2015, l’intellettuale palestinese divenne uno dei fondatori di We Are Not Numbers, un’associazione no-profit che coordina un programma di tutoraggio volto a dare a giovani autori e autrici gazawi la possibilità di entrare in contatto con mentori di madrelingua inglese che vivono all’estero e si dedicano alla letteratura o al giornalismo. Alareer era convinto che la scrittura fosse un mezzo necessario per contrastare la disinformazione operata dai media mainstream occidentali anglofoni, influenzati dalla hasbara, cioè la propaganda israeliana, responsabili della disumanizzazione del suo popolo e della diffusione di narrazioni mistificanti sulla Palestina. Lui stesso curò, infatti, due libri di testi scritti da palestinesi in risposta alle multi-miliardarie campagne disinformative condotte da Israele: la raccolta di racconti, Gaza Writes Back (2014), e il volume Gaza Unsilenced (2015).  

Nella sua poesia If I Must Die, si coglie un rinvio intertestuale a un verso del Sonetto 18 di Shakespeare: “Talvolta troppo caldo l’occhio del cielo splende”, riferimento allo splendore del sole, alla bellezza, in questo poema shakespeariano metafora del potere dell’arte di conferire l’immortalità a una persona commemorata dall’artista. Il breve componimento altamente evocativo, davvero magico, ricco di immagini gioiose richiamanti l’infanzia e la volontà di vivere in Palestina, contrapposte al tema della morte, risulta però tragicamente profetico. La poesia è spesso considerata come il simbolo del genocidio a Gaza, solo perché divenne famosa in quel contesto storico. 

Un editoriale pubblicato da Black Agenda Report, il 13 dicembre 2023, dice infatti: “Il poeta palestinese Refaat Alareer, martire della violenza genocidaria dello Stato sionista ci lascia una storia di resistenza e speranza”. La rivista ricorda anzitutto la poesia radicale If we must die (Se dobbiamo morire), scritta in forma di un sonetto shakespeariano dall’autore giamaicano Claude McKay (1890-1948) in risposta ai crimini commessi da bande razziste bianche contro le comunità nere in tutti gli Stati Uniti durante la cosiddetta “Estate Rossa del 1919”. Dopo oltre un secolo, prosegue l’articolo, “stiamo assistendo a un’altra guerra razziale, a un altro pogrom: un genocidio. Questa volta è per mano dell’entità terroristica sionista suprematista bianca intenzionata ad annientare la totalità dell’esistenza palestinese. Ancora una volta, un poeta ha catturato sia la terribile violenza dell’epoca sia l’indomabile spirito di sopravvivenza, resistenza e rivolta”. Questo editoriale suggerisce infine che il poema in verso libero di Alareer è una rivisitazione di quello scritto in forma di un sonetto shakespeariano da McKay. Più utenti social hanno ugualmente collegato, nei loro commenti, If I Must Die ad altre poesie di resistenza non solo afroamericane e palestinesi ma anche dell’Europa centrale.

In un articolo uscito il 21 giugno del 2024 sulla rivista online Arablit Quarterly, invece, il poeta e accademico iracheno Salih Jawad Altoma (n. 1929) spiega che, durante l’operazione Piombo fuso condotta da Israele tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 nella Striscia di Gaza, Alareer cominciò a scrivere testi in inglese per far conoscere all’opinione pubblica mondiale la verità sulla Palestina.  Era sopravvissuto a quella prima devastante guerra genocidaria avvenuta nell’enclave, dove le forze armate israeliane avevano usato bombe altamente letali e munizioni al fosforo bianco (vietate dal diritto internazionale), uccidendo centinaia di civili palestinesi tra cui circa 300 bambine e bambini. Terminata l’operazione, Israele richiuse Gaza in una morsa, tagliando tutti i rifornimenti: cibo, combustibile e aiuti umanitari. L’enclave sembrava un campo di concentramento pieno di macerie, e la popolazione visse in condizioni estremamente difficili per molto tempo. 

Il 29 luglio 2011, infatti, sulla spiaggia di Al-Waha circa 8000 bambine e bambini gazawi stabilirono un record Guinness mondiale, facendo volare simultaneamente 12.350 aquiloni nel cielo sopra questo strettissimo lembo del territorio della Palestina affacciato al Mediterraneo, per chiedere la fine dell’assedio israeliano che durava dal 2007. L’UNRWA aveva organizzato l’evento nell’ambito del suo programma di campi estivi per la gioventù. L’Agenzia dell’Onu aveva progettato questa protesta spettacolare sia per celebrare la resilienza delle bambine e dei bambini, che sopportavano la crudeltà dell’occupazione israeliana, sia per denunciare le politiche di Israele che bloccava gli aiuti umanitari a Gaza, violando i diritti umani in generale e dell’infanzia in particolare. Il 27 novembre di quell’anno, Alareer postò per la prima volta nel proprio blog If I Must Die; leggendo la strofa finale della poesia, si evince che il poeta voleva che la sua morte divenisse una storia, perché desse un senso al suo martirio, nonché alla sua stessa esistenza, e tale è diventata, continua a essere raccontata nel globo intero. Pur essendo breve, il componimento è descrivibile come un testamento, un atto di resistenza, una testimonianza della volontà di vivere in libertà a Gaza e nel resto della Palestina, simboleggiata da un aquilone librato in cielo, una celebrazione dei diritti dell’infanzia e un inno alla vita. 

Altoma spiega che, nel 2012, Alareer pubblicò If I Must Die sul sito della testata indipendente statunitense Mondoweiss e poi nella rivista londinese Global Poetry. Incluse, inoltre, la stessa poesia alla fine di un articolo intitolato “Gaza Writes Back: Narrating Palestine”, uscito nel succitato numero speciale di Biography del 2014, dedicato dai curatori alla memora di suo fratello Muhammad da poco martirizzato da Israele. Alareer aveva scritto questo saggio biografico per esprimere la propria visione altamente idealistica di una coesistenza pacifica tra palestinesi ed ebrei. Voleva che i suoi figli e le sue figlie “progettassero il loro futuro, anziché preoccuparsene, e disegnassero spiagge o prati sotto il cielo azzurro con un sole in un angolo, non navi da guerra, colonne di fumo, aerei militari e armi”. Alareer era un accademico molto stimato e amato nell’università in cui insegnava, ed era un punto di riferimento importante per le studentesse e gli studenti dei suoi corsi. L’autore scrisse in inglese poesie e racconti, pensando spesso alla figlia maggiore Shaimaa, che aveva 5 anni quando le dedicò If I Must Die. Avrebbe voluto che Israele non avesse privato centinaia di migliaia di bambine e bambini palestinesi del loro diritto di vivere una vita dignitosa. Sapeva che erano il principale bersaglio dei leader israeliani ossessionati dalla cosiddetta “minaccia demografica”. Durante un soggiorno ad Atlanta, era stato ospite di una coppia americana di religione ebraica la cui figlioletta di cinque anni, Viola, continuava a chiedergli cosa fossero le illusioni ottiche. Non le aveva mai dato una risposta a quella domanda, perché ogni volta che gliela poneva, lui pensava a Shaimaa. Lei a Gaza viveva una realtà completamente diversa, anomala. Nello stesso articolo, Alareer dice, infatti:

“A volte penso che un giorno potremmo trovare nel nostro cuore la forza di perdonare i leader israeliani (quando, tra le altre cose, l’occupazione finirà, l’apartheid sarà abolita, la giustizia trionferà, saranno garantiti pari diritti a tutti, i profughi torneranno e saranno risarciti), ma non credo che li perdoneremo mai per non aver permesso ai nostri figli di vivere una vita normale, di fare domande sulle illusioni ottiche, invece di chiedere chi è stato ucciso e perché, e se quel rumore fosse una bomba israeliana o un razzo della resistenza. Spero che i racconti di Gaza Writes Back aiutino mia figlia Shaimaa e Viola a riunirsi e a dare loro consolazione e conforto per continuare la lotta finché la Palestina non sarà libera. Fino a quel momento io continuerò a raccontarle storie”.

Da padre premuroso e persona creativa, usava l’immaginazione, per aiutare sua figlia a vivere un’infanzia spensierata e ad affrontare la vita difficile nel loro paese. 

Alareer era noto soprattutto in quanto accademico e scrittore, e solo dopo la sua prematura scomparsa la parola “poeta” divenne il suo principale titolo identificativo, spesso associato alla sua famosa poesia, If I Must Die, che nel giugno del 2024 aveva già ricevuto 33 milioni di visualizzazioni su X. E fece Storia insieme a lui. Come già detto, l’aveva scritta per la figlia Shaimaa, quando aveva cinque anni; una volta diplomata, era diventata un’illustratrice di successo e si era sposata con Muhammad Siyam, un ingegnere. Il 27 aprile 2024, purtroppo, fu uccisa insieme al marito e al loro primogenito di appena tre mesi Abdul Rahman in un raid israeliano a Gaza City. Ennesima strage avvenuta durante il genocidio che Israele continua tuttora a commettere contro la popolazione palestinese dell’enclave. 

In If I Must Die, che Refaat Alareer scrisse per la primogenita Shaimaa, una bambina, nel 2011, il poeta stesso si rivolge a lei, pensando alle nuove generazioni e sperando in una Palestina libera. Questa bellissima poesia – forse la più famosa in assoluto del XXI secolo –, che continua a emozionare milioni di persone d’ogni parte del globo, è il simbolo della speranza del popolo palestinese di vincere la lotta per la propria causa, nonché una manifestazione del potere dell’arte: 

Se io devo morire,
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
vendere le mie cose
comprare un pezzo di tessuto
e dei ritagli di corda,
(fa’ che sia bianco con una lunga coda)
perché un bimbo, da qualche parte a Gaza
mentre guarda il cielo negli occhi
aspettando suo padre che se n’è andato in un lampo—
senza dire addio a nessuno
neppure alla sua carne
né a se stesso—
veda l’aquilone,
il mio aquilone che tu hai creato, volare alto
e pensi per un attimo che un angelo sia lì
a riportare l’amore
Se io devo morire
fa’ che porti speranza
fa’ che sia una storia con capo e coda

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