In questi lunghi mesi, di guerra, di genocidio, su Q Code abbiamo pubblicate tante poesie di scrittori e scrittrici, attiviste e attivisti, poetesse e poeti da Gaza, grazie a Sana Darghoumi e Patrizia Zanelli. E grazie a quelle voci che hanno deciso di parlare, di raccontarlo, di farlo attraverso il linguaggio della poesia. Testimonianze di quello che è accaduto e sta accadendo in Palestina, storie di vite distrutte, di una normalità che non esiste più, da tempo. Oggi, a due anni dal 7 ottobre, lasciamo parlare loro.
Ni’ma Hassan è una scrittrice, poetessa e assistente sociale originaria di Rafah (Gaza), attualmente sfollata a Mawasi Khan Younis. Con l’arte e la scrittura, cura bambini vittime di traumi di guerra. I suoi Diari di guerra documentano il profondo impatto del genocidio compiuto da Israele sui palestinesi di Gaza e i dettagli della vita quotidiana, evidenziando al contempo ciò che permane nonostante la distruzione.
1
Il dolore moltiplicò i suoi passi
e per bilanciare l’umore della terra fu creata la donna:
divenne, ad esempio, la pertica che sostiene la tenda,
la fila che distribuisce il pane,
forse la boccetta di profumo
o l’ampolla di vino
invisibile alle guardie dei valichi.
2
Una donna che riempie di sabbia le tasche
per ancorare il piolo
e rattoppare i pertugi della patria,
una donna che raccoglie quanto sale basta per rimarginare le ferite,
solo lei conosce il fremito del gelo,
il tepore della malinconia
e la delusione del pane.
Non ho un muro per far accomodare la guerra,
da sole io e la tenda
e un mondo che muore ogni giorno
in uno spettacolo di danza.
Lascia che riposiamo, amica mia, prima che arrivi l’inverno.
3
Angusta è la vita,
un pesce decapitato
tenta la fuga,
una scatola sigillata di sardine
avvolta da tetra malinconia
e una cupa ombra si stende sul mercato.
4
Mi sveglio per riordinare la città
ma il fuoco dei fornelli si è guastato,
il venditore di caffè è stato ucciso in un agguato.
Nessuna linfa per un caffè
sciupato dal gelo,
mi abbandono nuovamente al sonno
e sogno un giardino,
una scuola
e una finestra da lustrare.
5
Una madre che dei cani ha paura
dà al mondo randagio
una pacca sulla spalla
e ricerca i brandelli di corpo del suo bambino
nelle celle frigorifere dell’ebbrezza,
sopra i banchetti imbanditi,
nel frammento di una canzone
e nel lutto omesso dai notiziari.
6
Una funzionaria dell’anagrafe registra nomi
e case,
annota il numero delle vie
poi depone il foglio in un angolo di tomba
e si addormenta.
Haidar al Ghazali, 20 anni, poeta di Gaza. Scrive, pubblica e recita le sue poesie su Instagram – @haidar.ghazali – e in Italia alcune sue poesie sono state pubblicate nel libro “Il loro grido è la mia voce“. Finché gli è stato possibile, ha studiato Letteratura inglese e traduzione a Gaza, dove è finora intrappolato sotto i bombardamenti, ma oggi la sua università è rasa al suolo.
1
Se il paradiso è il mio fato, insolite saranno le mie aspirazioni:
rivivrò l’intero film
e crescerò tra gli stolti che mi fisseranno il volto
tendendomi trappole,
dove calzanti sarebbero le mie cadute.
Mi laureerò all’università che amo
e nel paradiso danzerò poiché si schiuderà una porta radiosa.
Che infine sia squarciato l’incanto di questa visione.
Desidero che ogni cosa sia ardua.
Queste mani sono state forgiate per amare
ma anche per frantumare rocce.
Desidero il peso della fatica
mentre edifico la mia prima casa,
la stanza dei miei figli e il giardino.
Desidero che ogni pietra, mio rifugio nel torpore,
abbia una storia di dolore.
Che sublime sia il riposo!
Mentre gli altri si crogioleranno nel piacere,
io sarò caduto nelle trappole degli stolti,
mi sarò laureato all’università che amo
e con la fatica avrò edificato una casa piena di finestre e figli.
E quando di sudore sarò madido, potrò esclamare:
Oh, ho assolto il mio compito,
ho vissuto la vita.
2
Voglio vivere,
il che significa non saper riparare gli interruttori
o cambiare la maniglia delle porte,
essere assalito dalla noia delle lezioni e della marea di appunti,
ingaggiare una battaglia contro un topo indiscreto che invade la stanza,
e dopo la preghiera dell’alba ascoltare Umm Kulthum alla finestra.
Significa indovinare la vita delle ragazze dal tratto di kajal preciso e affilato,
commettere peccati che richiedono perdono divino e incappare in fallimenti culinari.
Significa nutrire un amore cronico per gli odori delle case,
i muri imbiancati
e il dialogo con le rose del balcone.
Voglio vivere,
voglio scrivere lettere a un’amata reale, non come faccio ora ogni giorno,
donarle un taccuino per annotare le onde che sulla riva si inchinano ai piedi di due amanti,
e i baci desiderati mai consumati, divenuti erba e rose lungo le vie.
Un taccuino per annotare i nomi dei nostri figli, scelti da lei,
a condizione che nel grembo canti loro
della rivoluzione
e della Palestina che ci vuole vivi.
Voglio la vita,
ma prima di tutto
voglio una casa.
3
Sapete forse il significato di una lesione che si apre quanto basta
da poter affermare che il cuore stesso è una ferita?
Sapete forse cosa accade quando una persona porge l’ultimo addio agli amici
esaurendo la propria quota di greve dolore
e di lutto?
Nulla.
Perisce poco dopo la loro dipartita.
Najia Mahmoud Abu-Rus è una ragazza di Gaza laureata in matematica e appassionata alla scrittura: scrive poesie. Attualmente sfollata a Khan Yunis, con il cuore a Rafah e gli occhi su Gerusalemme. Il suo sogno è avvolto dall’esilio, ma ripiegato su una speranza…su un sogno.
«Mi manca quel profumo di gelsomino che sgorga da me, non l’odore del fuoco.
Che a stremare la mia giornata sia una passeggiata tra le vetrine,
o una ostinata caccia a un rossetto che mi assomigli,
e non quell’essere stati trascinati verso l’età dell’ignoranza¹.
Mi manca ammirare le mie mani come le ho sempre amate:
adornate di unghie rosate,
e non imbrattate di cenere,
senza i graffi delle macerie con cui si alimentano i roghi.
Magari la mia unica preoccupazione fosse un’unghia spezzata,
non un cuore in frantumi ogni volta che un razzo colpisce un quartiere familiare.
Mi manca indugiare davanti allo specchio,
non per cercare ciò che resta di me,
ma per raddrizzare la linea del kajal.
Mi manca faticare con l’addestratrice Iman per sollevare pesi,
non essere la prima del campo profughi a trasportare acqua.
Contare con precisione i miei pasti salutari,
non lasciarli ad altri, sperando che qualcuno possa saziarsi.
Magari potessi terminare la mia presentazione davanti a un laptop,
e non consumarmi nel raccontare la mia sofferenza davanti a una tenda.
Mi manca la mia tazza di caffè forte al mattino,
non quella della “forza” che si beve prima di affrontare un altro giorno di sopravvivenza.
Quando il kajal diventa uno scudo, la vita diventa una battaglia,
e io, io sono ancora in piedi.
Combatto con ostinata bellezza… e l’aspetto²».
- Jahiliyya ovvero epoca preislamica.
- Il riferimento è alla poesia “Aspettala” di Mahmud Darwish.
Refaat Alareer (23 settembre 1979-6 dicembre 2023) era un poeta, scrittore, accademico e attivista palestinese che fu ucciso in un attacco mirato israeliano insieme ad altre nove persone della sua famiglia: i tre figli maschi, un fratello, una sorella e quattro nipoti. La strage avvenne la sera del sessantunesimo giorno della guerra genocidaria che Israele sta ancora conducendo nella Striscia di Gaza. Solo dopo l’uccisione del poeta palestinese la poesia If I Must Die (Se devo morire), che aveva scritto e postato nel proprio blog, nel 2011, poi ripubblicato altre tre volte su altrettante riviste anglofone diverse, e infine appuntato sul suo profilo di X, divenne virale in rete, diventando subito famosa a livello globale. Nel giro di sei mesi fu tradotta in oltre 100 lingue, mentre veniva recitata in manifestazioni pro-Palestina organizzate in varie parti del mondo per fermare il genocidio a Gaza.
Se io devo morire,
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
vendere le mie cose
comprare un pezzo di tessuto
e dei ritagli di corda,
(fa’ che sia bianco con una lunga coda)
perché un bimbo, da qualche parte a Gaza
mentre guarda il cielo negli occhi
aspettando suo padre che se n’è andato in un lampo—
senza dire addio a nessuno
neppure alla sua carne
né a se stesso—
veda l’aquilone,
il mio aquilone che tu hai creato, volare alto
e pensi per un attimo che un angelo sia lì
a riportare l’amore
Se io devo morire
fa’ che porti speranza
fa’ che sia una storia con capo e coda.