A come Ascolto – aka “quando il gioco si fa duro”

Parafrasando Thich Nhath Hanh, padre della mindfulness, rifugiato politico e attivista per la pace e per l’ambiente, se vuoi cambiare il mondo devi prima cambiare te stessə. Ma forse in questo ci siamo persə per strada. Per cui mettiamo un punto e voltiamo pagina: ricominciamo dall’ABC. La via d’uscita è quella d’ingresso.

C’è una vignetta di Mauro Biani che ormai più di 15 anni fa ritagliai da un calendario di Emergency e appesi sopra la mia scrivania per farmi forza quando tutto sembra un po’ più insormontabile del solito. Raffigura una colomba che col becco trasporta un intero albero di ulivo. Ad accompagnarla, una frase: “Quando il gioco si fa duro…”

E siccome ultimamente il gioco si sta facendo ogni giorno più duro – al punto da rasentare il distopico – per inaugurare questa nuova rubrica partirò subito da quello che, secondo me, è uno degli “ulivi” della mindfulness: l’ascolto.

Quante volte ti capita (o forse dovrei dire “fai capitare”) di ascoltare davvero chi hai di fronte?
Quante, invece, stai lì già a pensare a cosa rispondere, o magari addirittura interrompi perché “tanto già so dove va a parare”, o perché ti senti di doverti difendere?
Quante volte sapresti riconoscere l’emozione che stai provando?
Quante volte sapresti dire con esattezza di cosa hai bisogno, o perché hai comprato/mangiato/consumato/bevuto quella cosa che in realtà non ti serviva – e ora stai solo peggio?

Che sia ben chiaro…

Qui nessunə è sbagliatə e nessunə nasce imparatə: è una questione di allenamento.

Ma soprattutto, nessunə è immune a quell’enorme quantità di stimoli esterni che (quasi letteralmente) ci bombardano da ogni parte, costantemente. Social, notifiche, pubblicità, aspettative sociali, notizie, deadline. In questo limbo intriso di distrazione, insicurezze e bisogni indotti, ascoltarsi e ascoltare è difficilissimo. Ti dirò di più: è forse il primo vero atto rivoluzionario che possiamo compiere. Perché questa “distrazione di massa”, come viene spesso chiamata, è estremamente funzionale (se non intenzionale) per tenere le persone belle incastrate in un modello sociale basato su sfruttamento, violenza, guerra, rabbia, frustrazione e Sua Maestà il potentissimo Senso d’Inadeguatezza. Un popolo “sordo”, distratto e inconsapevole, è un popolo facilmente manipolabile.

Cosa vuol dire ascoltare?

Il primo step, un po’ socratico, è quello di sapere di non saper ascoltare, e non perché sei limitatə, ma perché nessuno te l’ha mai insegnato. Sin da piccoli manca completamente quell’educazione psico-emotiva necessaria per imparare a vivere, nel senso più umano del termine: diventare esseri viventi in ascolto, consapevoli, in primis dell’interconnessione che scorre tra tutte le cose.

Da qui la prima vera domanda: cosa significa Ascoltare? [Prenditi un momento per dare una risposta a questa domanda]

Io ci ho messo un po’ a trovare la mia risposta e devo dire che, ad oggi, ancora sto in fase di ricerca. Al momento, ho imparato che ascoltare vuol dire fare spazio a quello che c’è davanti a me, indipendente da cosa sia, indipendentemente da quanto spiacevole lo possa reputare. E questa cosa la faccio non perché io sia d’accordo con quella cosa spiacevole x, perché mi piaccia, o perché pensi sia giusta, ma perché è l’unico modo per avere conoscenza di ciò con cui mi sto rapportando e, quindi, poter scegliere la mia risposta (e non reazione) con consapevolezza, secondo i miei valori.

In soldoni, quando ci riesco, mi permette di non rispondere violentemente alla violenza, o rabbiosamente alla rabbia, perpetrandone gli effetti.

Nel trovare questa consapevolezza, mi sono accorta che spesso un grande ostacolo è la paura di ascoltare. Non so te, ma a me ogni tanto fa paura quello a cui mi ritrovo a dover fare spazio: opinioni cariche d’odio, azioni con cui non sono per niente d’accordo, emozioni dolorosissime, persone che mi stanno ferendo nel profondo.
Ho paura che prendano il sopravvento, che diventino più forti, che trovino una giustificazione che gli dia un po’ ragione, o che io le stia implicitamente condividendo.

Invece, significa solamente poterle osservare con distacco, prendere atto che ci sono e, soprattutto, capire da dove vengono. Capire perché chi ho davanti (o io stessə) è portato a pensare/agire in determinati modi. Ho imparato che dietro certi errori ci sono delle domande da porsi che sono le stesse per tuttə (perché siamo tuttə essere umani e funzioniamo tuttə allo stesso modo):
Qual è la paura?
Qual è il bisogno?
Qual è la mancanza?
Da cosa si stanno proteggendo?

Nella mia ricerca di una risposta alla domanda iniziale, ho anche capito che, se sto giudicando, non sto ascoltando: “questa cosa è inaccettabile”. “Questa cosa è stupida”. “Questa cosa è assurda”. Brutta. Cattiva. Intollerabile. Dolorosa.
Il giudizio è chiusura. E spesso, nel caso dell’assenza di ascolto, è addirittura pre-giudizio, cioè una nostra personale idea di quello che sarà, che non lascia possibilità alla vita di essere diversa.
Ma quando chiudo, non posso fare spazio a nulla. Sto alzando un muro. E paradossalmente, 90 volte su 100, sto perpetrando proprio ciò con cui non sono d’accordo: conflitti, oppressioni e muri.

Thich Nhath Hanh diceva: “Non è l’uomo il vero nemico dell’uomo. Il vero nemico è l’ignoranza, la discriminazione, la paura, l’avidità, e la violenza”. Il vero nemico è l’odio.

E se l’odio è il virus più potente che c’è, per guarirlo bisogna scoprirne la causa. Non basta un po’ d’aspirina che ti toglie i sintomi. Quello resta lì, cova e, appena ha una nuova occasione, riciccia. E si propaga.

L’odio istiga all’odio, l’intolleranza genera intolleranza, la violenza porta alla violenza – non importa quando pensiamo sia legittimo il nostro comportamento. L’unica vera verità è che per fare la pace serve fare la pace. Serve portare pace. Serve riconoscere la dignità e la vita che c’è dietro ogni singola cosa su questa Terra. E serve che questo venga applicato a tuttə, indistintamente.

Volevo iniziare questa rubrica con la A di Amore e di Accoglienza, ma poi, pensandoci, mi sono accorta che Amore e Accoglienza sono possibili solo grazie all’Ascolto. È lo step prima, necessario e imprescindibile. Un ascolto più profondo, che ci ricorda che siamo tuttə profondamente connessə; che il dolore di uno è il dolore di tuttə, la guerra di uno è la guerra di tuttə, l’oppressione di uno è l’oppressione di tuttə. Antoine de Saint-Exupéry diceva che non si vede bene che col cuore. E lo stesso vale per l’ascolto.

The way out is in

Come scrivo nella premessa di questa rubrica, non possiamo aspettarci un cambiamento fuori se non siamo prima di tutto disposti a cambiare noi dentro. Perché il fuori è lo specchio di quello che coltiviamo dentro. Il nostro dharma dipende da noi.
E questo un po’ significa anche che, se vediamo un “fuori” con determinate caratteristiche, è perché evidentemente accadono “dentro”. Personalmente, quand’anche dovessi pensare (o dovrei dire “raccontarmela”?) che nel mio dentro non ci sono, mi alleno comunque a continuare a coltivare in me quello di cui penso il mondo abbia bisogno. Insomma, parafrasando, che nessunə si senta assoltə, perché siamo comunque tuttə coinvoltə.

Il modo migliore per allenare l’ascolto è quello di imparare a stare con quello che c’è. Come? Con la mindfulness (che no, non significa per forza stare sedutə, fermə immobile, a occhi chiusi).

Dunque, entriamo nel pratico:
Per fare l’esercizio che ti propongo oggi puoi metterti sedutə per terra o su una sedia, oppure puoi decidere di camminare (magari, per iniziare, ti consiglio di evitare di camminare per strada, dove comunque non puoi distogliere del tutto l’attenzione da quello che ti succede intorno tra macchine, semafori e altre persone. Meglio un parco, dentro casa o ovunque tu possa essere al sicuro da eventuali “pericoli” esterni).

E siccome abbiamo detto che ripartiamo dalle basi, alla base c’è sempre e solo una cosa: il respiro, il più potente alleato che abbiamo. Anche se è una delle cose più trascurate della nostra vita, in realtà è attraverso il respiro che tutto avviene. Ed è il respiro che può aiutarti a rimanere nel presente, invece che fuggire nel passato, nel futuro o in altri luoghi, per trovare riparo da quello che il presente ti propone. Il respiro è il tuo più grande strumento per stare con quello che c’è.

Dunque iniziamo dal singolo respiro consapevole, cioè dal singolo respiro con cui stai dall’inizio alla fine. Per insegnare a stare con il respiro (e di conseguenza con tutto quello che c’è) un paio d’anni fa ho creato l’esercizio dei 108 Rifugi, che puoi trovare qui. È un esercizio modulabile, composto sia da meditazioni guidate che da parti che puoi svolgere in autonomia. Come ti dicevo, puoi farlo sia stando sedutə, sia camminando.

Se invece vuoi un qualcosa di un po’ più avanzato, allora ti propongo questa meditazione guidata, che serve proprio a stare con quello che c’è, soprattutto quando risulta particolarmente spiacevole.

Perché questi due esercizi ti aiutano a saper ascoltare meglio?
Perché impari a stare in contatto con il presente, invece che distaccarti, rifugiandoti magari nel lavoro, negli acquisti, nei social, nelle sigarette, nell’alcol, etc. Impari a fare spazio a ciò che incontri, senza giudicarlo, e, soprattutto, impari a liberarti dal pregiudizio di come andrà, mantenendoti più apertə all’ascolto, in primis di te stessə. Impari a capire cosa c’è dietro a tutto quel “negativo” che vedi e che senti. E impari come fare a creare quello spazio necessario per rispondere in linea con i tuoi valori, invece che farti trasportare via dalla rabbia, dall’indignazione, dalla frustrazione, dall’ansia o dalla paura. Impari a riconoscere l’odio e a non sceglierlo.

Impari ad essere quel cambiamento che vorresti vedere nel mondo.

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