Nove luoghi comuni su giovani e lavoro

Il binomio giovani-lavoro ha la capacità di scatenare la bufera intergenerazionale perfetta in tutte le occasioni in cui si decide di nominarlo. Dalla cena di Natale al compleanno dello zio Giuseppe con tutto il parentado, è un argomento che non delude mai.

Se non appena viene nominato decidete di rispondere e di non lasciar cadere l’argomento, ecco una breve guida con un po’ di dati e un po’ di ironia per aiutarvi a sopravvivere e a smontare alcuni dei luoghi comuni.

1. “Se unə lo vuole davvero, il lavoro lo trova” 

Questa frase è la naturale evoluzione del “se vuoi puoi”, applicata all’ambito lavorativo. Il non-detto di questa frase implica che se non hai ancora trovato lavoro è perché non l’hai cercato o voluto abbastanza. E quindi la colpa è tua e non del sistema socio-economico in cui sei inserito. Questa deresponsabilizzazione della società a favore di una maggiore responsabilità dell’individuo è iniziata negli anni Settanta, con il neoliberismo. In questi anni viene adottata una politica più austera, il ruolo e gli aiuti dello Stato vengono ridotti per lasciare più libertà all’individuo e al mercato. David Harvey, in Breve storia del neoliberalismo scrive che “[Nel neoliberalismo] il successo personale o il fallimento vanno interpretati in termini di virtù imprenditoriali o fallimenti personali”. Spiegata questa teoria all’interlocutore potete andare direttamente al punto 3.

2. “Ah, io alla tua età avevo già…”

Non poteva mancare la nostalgia per i tempi che furono, servita con una buona dose di non accorgersi delle cose che cambiano. A dire questa frase di solito è una persona che ha beneficiato del boom economico e che ha iniziato a lavorare prima di una serie di crisi (lo shock petrolifero degli anni Settanta e la Grande Depressione, solo per citarne alcune) da cui poi non ci si è più ripresi. Al momento Italia è l’unico paese d’Europa in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni sono diminuiti invece che aumentare (dati Ocse) e dove “il mercato occupazionale è caratterizzato dalla crescita dei contratti a termine e del lavoro dequalificato”, come scrive Francesca Coin nella sua inchiesta Il nuovo rifiuto del lavoro. Non un clima in cui è facile emulare i successi del passato.

3. I giovani d’oggi non hanno più voglia di lavorare / I giovani d’oggi vanno tutti all’estero

Non sappiamo se lo zio Giuseppe abbia personalmente fatto delle inchieste sociali sulla voglia di lavorare dei giovani ma queste due frasi vanno spesso a braccetto. Mettiamo subito in chiaro una cosa: non è tanto la mancanza di voglia di lavorare quanto una questione salariale e contrattuale. Tant’è che a un certo punto si è preso il fatto che in Italia le figure professionali fossero pagate meno e si è provato a farne un vanto. Per invertire la tendenza della cosiddetta fuga di cervelli nel 2016 l’Istituto per il Commercio Estero ha lanciato il documento Invest in Italy all’interno del quale, ci racconta l’economista Clara Capelli, “si invita ad investire in Italia perché la forza lavoro italiana è di alto livello ma costa meno rispetto ad altrove”. I giovani vanno all’estero in cerca di condizioni migliori e nemmeno la pandemia ha invertito questa tendenza. Nel 2020 i giovani tra i 25 e 34 anni espatriati sono stati 40mila, di essi due su cinque – 18mila – sono in possesso di almeno la laurea (dati Istat 2022).

4. È tutta colpa del reddito di cittadinanza

Secondo l’ultimo rapporto Istat i due terzi dei percettori di reddito di cittadinanza sono persone con disabilità, pensionati, minori e persone che non hanno mai potuto lavorare. Il restante un terzo è composto da soggetti abili che però devono rispettare parametri precisi: negli ultimi tra anni devono aver ricevuto uno stipendio inferiore alla media, lo stipendio deve essere decrescente e con orario ridotto. Quindi no, non è tutta colpa del reddito di cittadinanza. Casomai il reddito di cittadinanza nel 2020 ha permesso a un milione di individui di non trovarsi in condizioni di povertà assoluta (dati Istat 2022).

5. Nessuno di voi vuole più fare i lavori umili, è per questo lo fanno gli immigrati

Cosa la gente intenda con lavori umili non è sempre chiaro e viene naturale pensare che si faccia riferimento ai lavori stagionali nel settore agroalimentare, nella ristorazione o nel turismo. Nel V rapporto agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto emerge come il ricorso al lavoro irregolare, eludendo la normativa fiscale e contributiva, è un connotato strutturale del mercato del lavoro nazionale, in particolare nell’agricoltura. Anche i lavoratori stagionali del turismo sono sfruttati, con turni di lavoro massacranti, contratti fittizi e una previdenza sociale inesistente.

6. Ma hai visto quellə che in cinque anni ha preso tre lauree e ora ha un indeterminato?

Questo è un buon esempio di produttività tossica, la cui definizione si avvicina a quella di workaholism; la prima indica un’ossessione o una dipendenza del proprio livello di valore personale dall’essere molto produttivi, mentre il secondo descrive una condotta di lavoro atipica che si esprime con un eccessivo impegno, sforzo e coinvolgimento della persona nelle attività lavorative (Sarchielli, Fraccaroli, 2017). Studi come quelli degli psicologi L. H. W. McMillan e M. P. O’Driscoll del 2001 mettono in evidenza come il workaholism sia un vero e proprio modo di vivere la relazione con il proprio lavoro che risponde all’imperativo di arrivare a un risultato. È una questione di maggiore efficienza, produttività e soprattutto competizione. Di fare l’extra mile. La conseguenza è che chiunque non riesca a reggere i tempi e obiettivi da workaholic non si sente abbastanza competitivo ed è spinto a fare di più, ottenere di più per arrivare anche ləi allo stesso livello in un circolo vizio perfetto.

7. “Eh, però dovete accontentarvi”

Perché una volta che hai avuto la fortuna di trovare lavoro non vorrai mica lamentarti. Il mercato occupazionale è peggiorato al punto che bisognerebbe ritenersi fortunati solo di averlo trovato il lavoro, lasciamo stare le condizioni a cui bisogna adattarsi. Qui purtroppo non ci sono dati e statistiche che tengano, continuare a lamentarsi e a denunciare le condizioni a cui viene chiesto di adeguarsi è l’unico modo per cambiare la narrativa dei giovani che non hanno voglia di lavorare e vorrebbero prendere lo stipendio stando solo sul divano.

8. La gavetta l’abbiamo fatta tuttə

Di solito chi dice questa frase la gavetta l’ha fatta quando ancora la gavetta permetteva di arrivare da qualche parte. Nessunə mette in dubbio il valore del fare esperienza partendo da mansioni più semplici o di base per poi arrivare più in alto. Negli ultimi anni però il mercato occupazionale è peggiorato. Secondo il report della Fondazione Di Vittorio di novembre 2020 “c’è stato un addensamento dell’occupazione nelle qualifiche medio-basse più elevato rispetto alla media dell’eurozona, in progressivo peggioramento negli ultimi anni”. A questo si aggiunge che i contratti a tempo determinato con discontinuità e i part-time involontari sono retribuiti meno rispetto al resto dell’eurozona. Cosa significa? Che negli anni si è scelto di incentivare la competitività attraverso la moderazione salariale che però ha prodotto bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione

9. Sei mattə a dimetterti

Eccerto, perché una volta che hai trovato il posto fisso perché dovresti mai abbandonarlo? Stipendi bassi, incapacità di conciliare lavoro e vita personale, mansioni in eccesso rispetto al contratto o addirittura un contratto che non rispecchia le effettive mansioni svolte sono alcune delle motivazioni che hanno spinto molti lavoratori e molte lavoratrici a cambiare rotta. La pandemia ha messo in luce quanto il mercato del lavoro sia insostenibile in Italia e nel mondo. Per molto tempo lavorare in questo modo è stata la normalità ma è il momento giusto per iniziare a dire, sì, anche alla cena di compleanno dello zio Giuseppe, che è ora che le cose cambino.