Gezi Parki, il futuro è adesso

Abbiamo imparato, e tutto il Paese ha imparato. Ha capito che non si deve avere più paura, dicono i ragazzi nel parco di Istanbul, attaccati a sorpresa dalla polizia

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-09-alle-20.48.03.png[/author_image] [author_info] di Sara Chiodaroli, da Istanbul. Milanese, dopo un Dottorato di ricerca sulla letteratura dell’immigrazione in Spagna e in Italia, dal 2012 è docente di Lingua Italiana e Spagnola a Istanbul[/author_info] [/author]

Tayfun studia biologia all’università. Per due settimane, giorno e notte, da quando l’occupazione di Gezi Park è cominciata, è rimasto con i suoi compagni. Il suo collettivo porta il nome di Özgür Eğitim Platformu, piattaforma per l’educazione libera. Ha ventidue anni e due occhi azzurri che si emozionano quando parla del presente.

“Con l’unione delle nostre forze abbiamo dimostrato che, ciò che sarebbe stato impensabile fino a un mese, era invece fattibile”. Le idee di un singolo uomo non possono cambiare il mondo, ma se un uomo si unisce ai suoi simili, allora sì, tutto è possibile, spiega. Cerco di manifestargli tutta la mia stima: una generazione di giovanissimi che scelgono di abbandonare le comodità della loro vita di ventenni per dedicarsi anima e corpo a una causa civile è qualcosa di profondamente significativo. Ma con grande umiltà mi ferma “Guarda, noi non stiamo facendo tutto questo solo per noi stessi, per la nostra generazione, ma anche per i nostri padri e le nostre madri”. Mi racconta che un giorno, un signore pensionato gli disse: “ state facendo una cosa che noi non abbiamo avuto il coraggio di fare”. In realtà non si stratta di avere coraggio, bensì di avere la capacità di immaginare un futuro diverso.

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“Assembramenti, gruppi di persone riunite, manifestazioni collettive, hanno sempre fatto paura”. La tensione e l’instabilità politica che ha caratterizzato la Turchia a partire dalla seconda metà del secolo scorso hanno generato nel tempo lo spettro della cospirazione nell’animo delle istituzioni politiche. Le riunioni in luogo pubblico sono diventate sinonimo di pericolo per la stabilità del potere. Niente di nuovo, dopotutto questa è una sindrome riscontrabile in altri luoghi del mondo. Ma in questo Paese ciò si è trasformato in un conseguente impalpabile timore nel manifestare le proprio opinioni. Non pochi i casi di studenti universitari che negli ultimi anni a seguito di proteste a sfondo politico sono finiti in manette.

Tayfun spiega molto bene, ha un ottimo inglese, ma è facile comprendere la profondità di questo momento solo ascoltando il suo tono di voce. Sa di essere stato uno dei protagonisti di una lotta popolare dal basso, che ha scelto la piazza, per la prima volta, per gridare la propria opinione. “Abbiamo imparato, e tutto il Paese ha imparato. Ha capito che non si deve avere più paura”. “Abbiamo aperto le nostre menti, abbiamo imparato a guardare noi stessi come attori della nostra vita”.

Tayfun aveva partecipato anche alle proteste del 1° maggio di questo anno. Le autorità governative di Istanbul avevano proibito i cortei a Taksim per motivi di sicurezza a causa del cantiere aperto che ha squarciato la piazza. Tuttavia gruppi di manifestanti sono accorsi in centro. Quel giorno le autorità, per arginare la zona del centro, hanno ordinato il sollevamento del ponte di Galata in modo da chiudere completamente il passaggio e il traffico, una misura di sicurezza non molto usuale che, ricorda Tayfun, era stata adoperata nel lontano 16 giugno del 1970 in occasione di una grossa protesta operaia. “Con questa mossa, io e i miei compagni abbiamo capito che qualcosa di nuovo stava succedendo. Se sono arrivati a chiudere il ponte forse stavano iniziando ad avere paura della nostra parola?”.

Chiedo cosa pensasse del referendum proposto dal Governo: “Noi non crediamo che ci sia bisogno di un referendum. Quello che vedi è la manifestazione della nostra opinione. Basterebbe che parlassero con le persone per la strada. E qui ce n’è una buona rappresentanza. Difficile prevedere che cosa succederà, ma probabilmente andremo avanti. Ankara è con noi.”

Gezi era un’utopia, un micromondo capace di accogliere tutti, e sarebbe andato avanti a oltranza, perché proprio ieri i movimenti di Occupy Gezi, dopo una lunga assemblea, avevano deciso per il non abbandono del parco, nonostante le precedenti consultazioni con il governo. La condizione sine qua non per l’attuazione del referendum, ovvero lo sgombero del parco, non era stato accettato: “Noi continuiamo la nostra resistenza perché non possiamo accettare nessuna delle ingiustizie che si stanno compiendo nel nostro Paese”. Queste le parole del movimento Taksim Dayanışma.

Ieri sera, dopo l’ennesimo ultimatum del primo ministro Erdogan in merito allo sgombero immediato di Gezi, la polizia, dopo essersi annunciata dall’ingresso è entrata nel parco. Dalle immagini di un videoreporter, visibile su YouTube, si vedono ancora le tende montate, gli striscioni al loro posto. Una calma inquietante in uno spazio ridottissimo che per due settimane è stato crocevia di migliaia di persone. Le forze dell’ordine strattonano alcune tende, evidentemente già abbandonate, strappano i volantini appesi ai fili. Intanto gli abitanti di Gezi sono fuori, scappati nelle zone attigue, perché la polizia li stava ancora cercando una volta sgomberato il parco.

Gezi è libero, ma Tayfun continuerà altrove, non c’è dubbio. La strada è stata battuta, non resta che continuare.



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