Lezioni di piano

Questa storia ha come protagonisti una suora, un bambino e un pianoforte. È successa tanti anni fa in una zona di Milano, a poche centinaia di metri da una piazza dedicata a un grande musicista, Wagner, e di fronte alla statua di Giuseppe Verdi, che se ci passate la sera, quando l’illuminazione artificiale accende i lampioni, proietta la sua ombra mani in tasca sulla parete di un palazzo.

di Angelo Miotto

piano

La suora si chiamava Rosaria, la sua pelle era incartapecorita, nessuno ricorda i suoi anni, nessuno ricorda se si muovesse o se fosse sempre seduta là sulla sua sedia di legno, chiusa dentro quella camicia di forza nera, con la cuffia.
Il bambino andava dalla suora una volta alla settimana, per imparare a suonare il piano. Prima, un paio di anni prima, aveva suonato una barcarola ripetitiva, un due tre/ un due tre per la mano di basso e una melodia che non rimane nella memoria a casa di una cantante in pensione. Aveva i denti lunghi e i capelli bianchi cotonati, la faccia da coniglio avvizzito, le unghie rosse picchiettavano sui tasti avorio consunto. Ma torniamo alla suora.
Rosaria non parla molto, giudica. Rosaria muove il capo e lo scuote, quasi sempre, per dire che no, non va bene. Rosaria ha una bacchetta di legno che usa per indicare le note sullo spartito. Perché non si muove, lei. Ma quella bacchetta sì e si scaglia con forza sui dorsi delle mani che incespicano in un diesis, o saltano una ditteggiatura.

Il bambino non va volentieri a lezione. E come potrebbe.
Le spalle a spiovente prende i libri e si avvia verso quella struttura, entra, portineria, scavalca la prima suora e si inoltra nel sotterraneo, seconda porta a sinistra e suor Rosaria è già lì.
Tutto, in quella stanza, puzza di vecchio. La suora. La carta, il pianoforte. I vestiti che emanano zaffate di naftalina. E quando il bambino risale le scale avverte un senso di liberazione compiuto, appena scavalca nuovamente la suora guardiana e ritorna nel rumore del traffico della piazza, il Peppino mani in tasca che lo guarda impettito.

Uno si potrebbe chiedere come è andata a finire questa storia sbagliata, dove la musica è stata piegata alle fredde monete da cento lire, che non dovevano cadere dal dorso della mano mentre correva fra gli ottantotto tasti. Come ha reagito a un sopruso, anche violento in fondo, a un’autorità che non veniva da una passione, ma dalla freddezza di una sottana rigida religiosa. Solfeggi obbligati, ripetuti in maniera meccanica, lettura di note senza una dinamica, come la mancanza di carnale passione sotto quegli abiti, in un’altra età, se Rosaria fosse mai stata giovane, se la sua pelle non avesse conosciuto che rughe, se i suoi capelli non fossero stati sempre tagliati sotto una cuffia, punizione di sé come dono, dono al buon Dio da dare con gioia, dove non c’era che accettazione di un dolore.
Eppure tutti gli angeli che cantano, i salmi che ripercorrono gli strumenti, la musica che pervade le Scritture e quel senso di gotico internazionale che emana dal repertorio bachiano, uomo da chiesa e di gran godimento terreno. Ma torniamo alla storia. Com è andata a finire?

Comunque, è andata a finire bene.
Il bambino un bel giorno se ne andò, la mummia orante rimase seduta in quell’aula del sotterraneo e forse, chissà, è ancora lì. Il pianoforte ha continuato a suonare, ma questa volta con con forte e piano, puntati e sospiri grazie a una nuova maestra, Maria.  È una storia vera. Di rapporti di forza e di potere. Non tutto finisce bene, come nei film. E qui difatti quel che rimase fu un’allergia conclamata verso gli aspetti più rigidi dell’arte dei suoni.
Ma la gioia della musica, ecco quella è rimasta.



Lascia un commento