Monsieur Tour

E’ partita la centesima edizione della più importante gara ciclistica del mondo. Tra un grande passato e un futuro incerto, per le ombre che si porta dietro, lotta per non perdere la speranza

di Christian Elia

Quando nasce una leggenda, uno pretende eventi straordinari. Non è dato sapere se il 1 luglio 1903, all’incrocio delle vie Melun e Corbeil, nel villaggio di Montgeron, alle 15.16, si siano verificati eventi sovrannaturali e inspiegabili.

L’unica certezza è che il signor Georges Abran sparò con una pistola a salve, dando il via alla prima di cento edizioni del Tour de France, la più importante gara ciclistica del mondo. Ci resta la cronaca del giornale l’Auto: “Gli uomini sventolarono i loro cappelli, le signore i loro ombrelli. Uno disse che a loro sarebbe piaciuto toccare i muscoli d’acciaio dei campioni più coraggiosi dall’antichità. Chi porterà via il primo premio, entrando nel pantheon dove solamente superuomini possono andare?”.

Tour de France 1905

Dopo cento anni, si parte dalla Corsica. Le tappe saranno 21, per 3404 chilometri complessivi, 7 tappe pianeggianti, 5 collinari, 6 di montagna di cui 4 con arrivo in salita, 2 crono individuali ed una crono a squadre con 2 giorni di riposo. Si arriva come sempre a Parigi, sui Campi Elisi, il 21 luglio prossimo. Ma limitare ai numeri il Tour, anche nel centenario, è un errore. Dentro quello sbuffo che disegna il tracciato, che è valso alla corsa il nomignolo di  Grand Boucle, c’è un mondo intero, fatto di persone, storie, luoghi. Una sorta di specchio della storia contemporanea dell’Europa.

Un vecchio signore, il Tour, che va rispettato. Come la fatica dei ciclisti, senza nessuna pietà per chi bara, proprio perché il più faticoso degli sport si merita l’onestà più cristallina. Un dovere che Lance Armstrong ha violato. Non tanto e non solo con i suoi sette tour vinti, dal 1999 al 2005, ma per l’intervista che – senza pudore – ha rilasciato a pochi giorni dalla partenza del Tour.

“Senza doping non si vince”, ha dichiarato il cowboy imbroglione. Atto ancora più odioso perché non arriva nel mentre, quando la sua carriera è all’apice, in forma di lotta e di denuncia. Arriva adesso, quando la giustizia fa il suo corso, ma spara a quel vecchio signore, dritto al cuore: la sua credibilità. Il ciclismo, epopea e leggenda di un’Europa che si apriva all’industrializzazione prima e resuscitava dalle guerre poi, nutrendosi del rapporto di sopravvivenza che legava i cittadini e le biciclette. Tutto questo non c’è più da tempo, gli eroi dei ragazzi sono i calciatori e i loro miliardi, mica la fatica bestia del ciclista.

Il doping, però, ha ferito il ciclismo come non è capitato con nessun altro sport. Eppure nelle discipline sportive nessuno è esente da scandali e imbrogli, ma il ciclismo ha visto – uno dopo l’altro – tutti i suoi grandi campioni dagli anni Novanta in poi, impigliarsi in nomi improbabili di farmaci. Armstrong, come a vendicarsi, in una frase uccide la speranza. Quella che ha ogni appassionato, quando pedala per chilometri nel fine settimana di provincia.

Ha ragione? Fosse così, meglio fermare tutto. Gli esami, i controlli, ci sono. Bisogna aver fiducia, perché questo signore centenario merita rispetto. Come il Giro di Italia, la Vuelta spagnola e le grandi classiche. Fino a prova contraria, ma merita rispetto. La storia di questo sport, rappresentata al meglio dal Tour, merita rispetto.

La parola doping fa il suo ingresso nel 1967, quando il ciclista statunitense Tom Simpson morì per un malore sulla cima del Ventoux. Il Tour è sopravvissuto, a due guerre mondiali e a molto altro. La maglia gialla, che identifica il capoclassifica, resta un simbolo mondiale. E allora diamo fiducia ai campioni di oggi, eredi di Mercks, Indurain, Anquetil e Hinault, che cancellato Armstrong dall’albo d’oro, sono gli eroi di questa corsa con cinque vittorie a testa. Eredi di Coppi e Bartali, di Pantani e Greg Lemond.

Perché non sarà più uno sport di massa, non accenderà più i cuori dei piccoli, sarà pieno di problemi, ma questo sport resta la massima espressione del concetto di un uomo che prova a superare i suoi limiti. Come la maratona.

Buon Tour, allora. Buon compleanno, vecchio signore. Perché nell’estrema severità che si chiede a un simbolo, in primo luogo verso sé stesso, deve sopravvivere la speranza. Quell’idea che se tutto è sporco, opaco, limaccioso, si perde la voglia di cambiare le cose. Come in una corsa, che nessuno correrebbe per davvero se credesse già deciso il vincitore. Perché sarebbe come vivere, conoscendo già come va a finire.



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