Usa-Cina, la disfida del clima

Obama lancia in pompa magna la sfida Usa al global warming e intanto a Pechino che fanno? Anche il clima, in Cina, si inserisce in un più ampio tentativo di riconvertire tutta l’economia (e la politica).

di Gabriele Battaglia

Con sedici anni e tre amministrazioni di ritardo rispetto al protocollo di Kyoto, gli Usa annunciano di voler entrare nel club della lotta al cambiamento climatico proprio nei giorni in cui l’indice di gradimento globale verso Washington tocca il punto più basso a seguito dell’affare Prism/Snowden.

Obama snocciola un pacchetto unilaterale di misure con la consueta retorica sul “Paese leader” e il “rimboccarsi le maniche” nel tentativo di scongiurare il global warming che – bontà sua ammetterlo – è riconosciuto ormai “dal 97 per cento degli scienziati”.

 

Immagini tratte da Beijing Weather Daily /北京天気日報, pagina FaceBook in cui la stessa foto, ripetuta quotidianamente, dà un'idea di che cosa si respiri a Pechino

Immagini tratte da Beijing Weather Daily /北京天気日報, pagina FaceBook in cui la stessa foto, ripetuta quotidianamente, dà un’idea di che cosa si respiri a Pechino

 

Sarà forse per il fatto che uragani, incendi, desertificazione e inondazioni sono costati agli Usa oltre 100 miliardi di dollari negli ultimi quindici anni, sarà anche perché nello stesso periodo un terzo della popolazione statunitense ha dovuto abituarsi a sopportare almeno dieci giorni all’anno di temperature oltre i 41 gradi, ma un pacchetto di misure è davvero arrivato.

Riassumendo: la Environmental Protection Agency stabilirà delle norme anti-emissioni entro il 2015 a cui le aziende energetiche dovranno adeguarsi; fondi pubblici per 8 miliardi di dollari sosterranno lo sviluppo di tecnologie sostenibili; i terreni dello stato federale ospiteranno progetti eolici e solari per fornire energia a sei milioni di famiglie entro il 2020; gli impianti per la produzione di energia fossile nei Paesi poveri non saranno più finanziati, a meno che non esistano alternative. Continuerà invece la costruzione dell’oleodotto destinato portare a il petrolio prodotto dalle sabbie bituminose canadesi fino al golfo del Messico – progetto che solleva tante polemiche da parte degli ecologisti – a patto che “non peggiori in modo significativo il problema del clima”.

Le misure così esposte, a onor del vero, indicano più “procedure” che decisioni concrete. Il che potrebbe dipendere anche dall’abituale opposizione repubblicana a tutto ciò che puzzi di intervento statale nelle “libere leggi di mercato”. L’impressione è che azioni concrete siano di fatto rimandate a dopo le elezioni di midterm del 2014.

Tuttavia ora si aspetta la Cina, l’altro grande assente al tavolo del clima e l’altro grande inquinatore: primo Paese davanti agli Usa per emissioni in termini assoluti, ma di parecchie spanne indietro in quanto a emissioni procapite (e da queste due diverse letture passano le schermaglie tra Pechino e Washington). Stando ai numeri diffusi dall’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2012 le emissioni Usa sono diminuite di 200 milioni di tonnellate, quelle europee di 50 e invece quelle cinesi sono aumentate di 300 milioni.

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Che fa dunque la Cina?

Qui il limite temporale è il 2017, il che rivela una certa urgenza. Il 14 giugno, il Consiglio di Stato ha infatti diffuso dieci nuove misure che puntano a migliorare la qualità dell’aria e a ridurre le emissioni del 30 per cento entro quella data.

La leadership deve fare infatti i conti con un’opinione pubblica interna ormai esasperata per la devastazione ambientale: il prezzo (troppo) caro per trent’anni di boom economico.

Le nuove regole sembrano innovative perché si basano su un’inedita presa di coscienza: alla radice del problema – si dice – c’è la sovraccapacità delle industrie pesanti. Basta sussidiarle “a prescindere”. La novità non è da poco, perché sembra proprio che questa volta si vada a colpire il mondo delle grandi imprese di Stato e relative sacche di interessi costituiti.

La strategia di avvicinamento consiste nel “nominare e svergognare” gli inquinatori, cioè essenzialmente sei tipi di industrie, responsabili per il 70 per cento delle emissioni: energia, ferro e acciaio, petrolchimica, cemento, metalli non ferrosi, prodotti chimici.

In genere, vengono comminate multe più o meno salate e lo si fa sapere urbi et orbi attraverso i media di Stato. È questo per esempio il caso di una raffineria Sinopec (il gigante petrolifero di Stato) dell’Anhui, multata a giugno per 90mila yuan (poco più di 11mila euro) ma soprattutto – e da queste parti non è poco – esposta alla pubblica vergogna.

Tuttavia è difficile applicare le nuove norme per via della particolare struttura politico-amministrativa dello Stato. In un Paese formalmente centralizzato come la Cina (partito unico, funzionari locali nominati dall’alto), la struttura amministrativa è in realtà parecchio decentralizzata e i poteri locali gestiscono una grande quantità di risorse e processi decisionali: oggi, forse, il vero conflitto in Cina è quello centro (Pechino)-periferia (governi locali).

Ora, come far sì che l’amministratore della lontana provincia la smetta di dare permessi a nuove industrie inquinanti falsificando poi i dati che arrivano a Pechino?

Il problema risiede nel fatto che le sue possibilità di carriera dipendono da “performance indicators” basati esclusivamente sul Pil. È l’eredità avvelenata del “modello Deng”: trent’anni fa, Deng Xiaoping cercò di riconvertire una massa di funzionari “politici” – scelti cioè in base alla loro fedeltà alla linea tracciata da Mao Zedong – in manager funzionali all’economia di mercato, stabilendo un criterio puramente economicista per decidere la loro scalata all’interno della nomenklatura: se il tuo villaggio, città, contea, provincia esibisce dei bei numeri in termini di Pil, hai buone probabilità di arrivare a Pechino.

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Ma il Pil è quel criterio di misurazione che mette alla voce “crescita” sia il fatturato della fabbrica chimica che inquina un lago, sia quello della azienda di disinfestazione chiamata poi a ripulire il lago stesso: un gioco a somma zero (se va bene) che invece, nella logica economicista, diventa somma di ricchezza.

Oggi, un criterio del genere non è più sostenibile.

Ecco perché il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato pochi giorni fa che i funzionari pubblici non saranno più valutati in base a quanto Pil portano a casa, bensì analizzando in termini più complessivi e qualitativi il loro operato. È un piccolo passo da cui possono discendere grandi cose.

“Non dovremmo mai giudicare un quadro semplicemente dalla crescita del prodotto interno lordo”, ha detto Xi durante le celebrazioni per il 92esimo anniversario della nascita del Partito comunista. Da oggi, bisogna prendere in considerazione diversi aspetti, tra cui “il miglioramento della vita delle persone, lo sviluppo della società locale e la qualità dell’ambiente”. E non solo: nella valutazione, l’integrità morale dei funzionari verrà prima della “capacità”.

È comunque presto per gridare vittoria. La Cina è grande e l’imperatore non sempre ha occhi e orecchie che arrivano fino alle lontane province.

 



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