Il sorriso di Carnera

Ottanta anni fa Primo Carnera diventava campione del mondo dei pesi massimi. Il primo italiano a riuscirci. Resterà in carica poco meno di un anno, periodo d’oro in mezzo a una vita difficile 

di Christian Elia

Ci sono corpi come prigioni. Ci sono storie che sembrano non offrire scelte, non prevedere finali differenti. La vita di Primo Carnera è come scritta da uno sceneggiatore crudele che, per rendere più pesante il destino del protagonista, gli regala un momento di gloria, utile solo a rendere più pensante il tonfo per tornare nella polvere. Una pausa, un momento per tirare il fiato. Poggiare per terra un peso enorme, stirarsi la schiena prima di cominciare ancora a tirare.

Quel momento dura poco meno di un anno, dal 29 giugno 1933 al 14 giugno 1934. Il tempo che lo vede re del mondo, campione dei pesi massimi, tra la vittoria contro Jack Sharkey al Madison Square Garden di New York e la sconfitta contro Max Baer. Più o meno ottanta anni fa. Tutto attorno, tutto il resto, è dolore. La vita di Primo Carnera è come un calvario, attraversato con un sorriso dolce e ingenuo, con una rassegnazione stoica e ancestrale. “Se i filosofi marxisti vogliono farsi un’idea concreta dello sfruttamento, nulla è più degno di attenzione della giovinezza di Primo Carnera”, scrive Alexis Philonenko nella sua splendida Storia della boxe.

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Questa vita inizia in uno sperduto villaggio in Friuli, Sequals, il 25 ottobre 1906. Descrivere come povera quella parte di Italia significherebbe fare un torno alla realtà: si pativa la fame. Primo, chiamato così con criterio numerico, profetico della lunga sequela di bocche da sfamare messe al mondo dai suoi genitori, è subito un fenomeno. A sedici anni è alto 1,78, per i suoi piedi immensi scarpe non ci sono. Veste di stracci, patisce una fame smisurata, sempre non appagata. A poco più di quattordici anni lascia la famiglia, per cavarsela da solo.

Raggiunge gli zii in Francia, presso Le Mans, dove lavora nei cantieri edili come un mulo da soma. In cambio di cibo e di una branda dove dormire la notte. Guadagnava qualche soldo esibendosi come fenomeno da baraccone nelle fiere che giravano il Paese. Sempre sorridendo, incapace di far male a una mosca. Quasi intimorito dalla sua stessa potenza. In una di queste fiere, nel 1925, passa Paul Journée, ex pugile di buon livello. Lo guarda, Carnera sorride. Paul intuisce la miniera d’oro, offrendola su un piatto d’argento al manager Léon See.

La carriera di Carnera è ideata, preparata e realizzata in vitro. Un cammino doloroso, per renderlo presentabile sul ring, liberandolo per quanto possibile di un’innata incapacità di coordinare quel corpo immenso (alto 2,05 metri) nello spazio che lo circonda. E che non capisce, perché See è uno squalo in un mondo di barracuda, e il confine tra i match truccati e quelli onesti è una nebbia fitta. Nella quale Carnera non è capace di muoversi.

Primo, però, ha una potenza devastante. Per lui, nella boxe, venne introdotta la conchiglia para colpi al basso ventre. In qualche modo, tra mille polemiche, la sua carriera avanza. L’Italia, strangolata dal fascismo, ne vede un’icona da sfruttare. Lui sorride sempre, anche se tutti gli guardano il corpo, i piedi, le mani. In pochi guardano gli occhi.

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Perché nella sua vita Carnera ha incontrato solo persone pronte a sfruttarlo, spremerlo, avidi del denaro che quel fenomeno della natura poteva dare loro. Non vi è differenza alcuna dal capocantiere che lo fa lavorare venti ore al giorno per un tozzo di pane, al manager che lo manda allo sbaraglio su un ring, al capocomico che lo esibisce nel circo. Fino al fascismo, che ne vuole fare il simbolo dell’uomo nuovo del regime, icona dell’invincibile italiano. Farlocco, come tutto il fascismo, il mito di Carnera è studiato ad arte dai media di Mussolini. E lui, sempre sorridendo, fa il saluto romano perché gli dicono di farlo, dice di essere ariano, anche se non sa neanche che significa, esprimendosi in italiano (e non in friulano) da poco e a fatica. In realtà era davvero l’italiano che sognava il fascismo, forte come una quercia per le sue guerre, ma incapace di pensare.

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Tutti usano Carnera e lui, quasi senza rendersene conto, si ritrova una sera di giugno al Madison Square Garden, il tempio newyorchese della boxe. Di fronte Jack Sharkey, che lo aveva battuto anni prima a Miami. Carnera, però, impegnandosi ed essendo nato per soffrire, ora era molto più pronto. Restando, comunque, quel gigante buono che è sempre stato. I suoi pugni, nel 1933, avevano ucciso Ernie Schaaf. Carnera è distrutto, saranno due donne a salvarlo. Perché in una vita di dolore, solo tre persone hanno teso una mano a Primo, vedendo l’anima e non il contenitore. Sua madre, che nonostante la lontananza e l’abbandono sarà sempre un riferimento per Carnera, la madre di Schaaf, che invece di odiare l’uomo che le ha ucciso il figlio lo aiuterà, facendogli da madre, fino al matrimonio con la Pina, al secolo Giuseppina Kovacic, nel 1937, che gli diede tre figli. Il resto è solo dolore.

Ma quella sera, quella pausa, Carnera se la merita. Massacra Sharkey, lo coplisce così forte da costringere gli arbitri a controllare che non abbia pezzi di metallo nei guantoni. E’ campione del mondo dei pesi massimi, il primo italiano. Gli immigrati impazziscono di gioia, rivedendosi in lui, il fascismo è in visibilio, potendo sfruttare tale pubblicità. Tutti si nutrono di Carnera, lo usano. E lo scaricano, poco più di un anno dopo, quando il mondiale lo prende Max Baer.

Seguiranno trenta anni lunghi e dolorosi, tentando di riemergere nella boxe, ma finendo a esibirsi nei circhi di mezzo mondo, dove alla donna cannone e all’uomo peloso avevano sostituito la farsa del wrestling. E i film, poi, con Chaplin e Totò. Ma dove Carnera finisce sempre per essere la caricatura di se stesso. Un calvario, dopo la pausa, che aveva regalato soldi e prime pagine dei giornali. Ma i soldi, Carnera, li ha fatti guadagnare agli altri, a chi lo sfruttava. Lui torna a morire a Sequals, nel 1967, malato e stanco. Si spegne il 29 giugno, il giorno in cui era diventato campione. Sorridendo, magari. Campione del mondo per sempre, degli ultimi della terra, di tutti i portatori i pesi.



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