Haimane, vittima dimenticata

Per i media mainstrem tutto si riduce a un morto e tre feriti per una rissa al C.A.R.A. di Bari. Solo che dietro questa storia, ci sono precise responsabilità istituzionali. Il racconto di un mondo di sommersi e salvati

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/371_57180074528_3901_n-2.jpg[/author_image] [author_info]di Gianpietro Occhiofino, da Bari. Iscritto all’ordine dei giornalisti della Puglia. Si occupa di immigrazione da diversi anni, con particolare attenzione ai rifugiati politici e richiedenti asilo. Ha frequentato il corso di laurea in Scienze politiche presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2005 al 2013 ha svolto il lavoro di operatore socio-legale alla frontiera aeroportuale di Bari ( Porto e Aeroporto), prestando assistenza ai richiedenti asilo. Servizio effettuato, per conto della Prefettura di Bari- Ministero dell’Interno-Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, con diverse ONG come il C.I.R. ( Consiglio italiano per i rifugiati), Rete Iside onlus, Sportello dei Diritti. Nel corso di questi anni ha raccolto decine di richieste di protezione internazionale presentate da cittadini extracomunitari rintracciati dalla polizia di frontiera durante le operazioni di sbarco dei traghetti provenienti dalla Grecia. Ha collaborato con il Ciscai ( Centro Internazionale Scambi culturali Accoglienza Immigrati), associazione di volontariato collegata alla Caritas diocesana. Autore di una guida per l’inserimento lavorativo dei migranti. Ha realizzato diverse inchieste sul mondo dei migranti pubblicate da quotidiani e riviste quali “Barilive.it”, Il Quotidiano Italiano, “Palascia-l’informazione migrante”, “Intra Jus”. [/author_info] [/author]

Haimane, il 3 luglio scorso, non è morto a causa di uno scontro tra diverse etnie. E neppure perché i ragazzi irakeni erano alticci l’altra sera. Tantomeno, come sostengono gli inquirenti, per uno sfottò. Risulta essere molto più facile creare nell’immaginario collettivo l’idea di una rissa scoppiata tra fazioni di nazionalità opposte. Le ragioni, invece, molto più profonde, risiedono nell’inadeguatezza del sistema di accoglienza predisposto dal governo italiano.

A fronte di una capienza massima di 700 persone il C. A. R. A. (centri di accoglienza per richiedenti asilo) di Bari-Palese “ospita”,  attualmente, 1304 richiedenti asilo. I riflettori, oggi, sono tutti puntati sulla struttura perché c’è il macabro fascino del morto ammazzato. Anche fornire un’analisi sociologica sulle caratteristiche legate al flusso migratorio in terra di Puglia risulterebbe essere inopportuna. Un ragazzo kurdo-iracheno, di appena 25 anni, è stato ucciso con un fendente al cuore infertogli da un immigrato afghano appena ventenne.

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Le motivazioni, però, sono strettamente connesse ad alcune dinamiche di natura politico-istituzionale. Non è umanamente accettabile tenere rinchiusi  7-8 richiedenti asilo in un prefabbricato, munito di un piccolo bagno, di 12 mq che in estate raggiunge i 45-50 gradi di temperatura.

Le condizioni igienico-sanitarie non vengono adeguatamente garantite. Nei moduli, infatti, ci sono scarafaggi che dimorano accanto ai migranti. Al momento, però, questo risulta essere l’ultimo dei problemi. I pasti che vengono somministrati quotidianamente lasciano a desiderare, anzi “fanno schifo”, come ci confessano alcuni ospiti. Gli spazzolini, lo shampoo, il sapone possono essere acquistati all’interno della struttura. Ad averci i soldi.

Se a tutto questo si aggiunge l’attesa di mesi, in alcuni casi anche di anni, per ottenere la protezione internazionale il dramma è servito. Tutto ciò porta, ovviamente, all’esasperazione, se non, come è successo più di una volta, a vere e proprie manifestazioni di stress e tensioni mentali. È ormai un fatto noto che diverse persone ricorrono all’utilizzo di psicofarmaci per convivere con questa situazione di grande disagio. Così come non è un segreto che decine di ragazzi si prostituiscono nelle vie adiacenti al campo per pagarsi le spese legali legate al ricorso al diniego ricevuto alla loro domanda di protezione internazionale.

Lo scorso  23 maggio centinaia di richiedenti asilo scesero in piazza a Bari per denunciare le vergognose condizioni in cui sono costretti a vivere. Afghani, iracheni, pakistani, nord-africani in quella circostanza manifestarono tutti insieme pacificamente. Rivendicarono i loro diritti di esseri umani oltre che di potenziali richiedenti asilo. In modo del tutto democratico e senza alcuna “tensione etnica”, formarono una delegazione rappresentativa di tutte le nazionalità presenti nella struttura e consegnarono le loro richieste nelle mani del vice-prefetto.

Chiedevano poche cose, ma fondamentali. Che il permesso di soggiorno temporaneo per chi riceve il primo diniego dalle commissioni territoriali sia della durata non di sei mesi, come avviene attualmente, ma di un anno. Questo perché molto spesso il permesso di soggiorno scade prima che il tribunale si esprima sul primo ricorso. E in secondo luogo, una residenza (anche virtuale, pratica consolidata in altre città come Roma o Venezia) che possa facilitare la ricerca di un lavoro regolare. Appelli caduti nel vuoto e ovviamente di quelle richieste si è fatto carta straccia.

Nel frattempo le condizioni di vita sono peggiorate. Per non parlare dell’assenza di un supporto socio-legale da parte dell’associazionismo di base. Eccezion fatta per il Coordinamento Antirazzista di Bari e per il Gruppo Lavoro Rifugiati che cercano, da diversi anni, di aiutare  i richiedenti asilo nel difficile percorso di integrazione.

Insomma la situazione nel capoluogo pugliese è molto difficile. A differenza di qualche anno fa, però, si è venuto a creare anche un nuovo sodalizio tra interessi criminali e manovalanza immigrata. Gli emissari dei clan li adescano per strada e in cambio di pochi euro loro li utilizzano per lo spaccio. Tra questi vi sono anche alcuni ospiti del C. A. R. A.. È lì dove c’è disperazione ed emarginazione sociale che si annidano gli speculatori. Non era certamente questo il sogno che animava i migranti quando hanno lasciato le loro terre. Pensavano alla libertà, al pane, al lavoro, alla pace, diritti primari degli esseri umani, negati loro con violenza e disprezzo dai governanti dei paesi di provenienza. Per conseguirli si sono staccati con dolore dai loro cari, hanno affrontato grandi sacrifici e disumane privazioni.

Sono giunti, finalmente, in una città del tanto agognato Paese, dal dolce nome Italia. Il sogno è svanito brutalmente. Anche nel tanto desiderato paese, di fatto, non c’è posto per i loro diritti. Una miope legislazione li nega costantemente. Purtroppo la violenza esercitata dalle istituzioni non è da meno rispetto a quella prodotta dai delinquenti. La città di Bari non può essere “finestra aperta sul mediterraneo”, disponibile all’incontro e al dialogo con tutte le persone e le genti, costruttrice di pace e multiculture, se porta in seno violenze di tale portata. Ci vuole altro perché sia una bella, armonica terra, dal volto umano.



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