Il costo della vita

L’ultimo libro di Angelo Ferracuti, viaggio nelle sentine buie dello sviluppo economico italiano

di Christian Elia

Il senso di una storia, quello che la rende grande, è la possibilità di vedere nel piccolo, un respiro profondo. L’ultimo libro di Angelo Ferracuti, cacciatore di storie, è Il costo della vita, pubblicato da Einaudi, ha questo tocco, questo raschio sull’anima. Racconta la storia dei tredici operai che il 13 marzo 1987 morirono asfissiati nella stiva della gasiera Elisabetta Montanari, in manutenzione nel porto di Ravenna.

Ferracuti, però, racconta molto di più. Racconta una città, che disconosce il suo porto e tutto quello che vi accadeva dentro. Racconta una società, quella italiana, che dopo la sbornia del dopo guerra e i primi scricchiolii degli anni Settanta, correva a casa a guardare la televisione che le raccontava a sua volta di un mondo ricco e felice, dove tutto aveva un prezzo, come in un gioco di specchi distorti.

Mecnavi_elisabetta_montanari

Un mondo che non voleva più vedere, non voleva sapere che quel benessere si reggeva, allora come oggi e come cento anni prima, sullo sfruttamento di uomini e donne. Persone che lavoravano, che morivano come ‘topi’ – come vennero definiti nella vibrante omelia del cardinale Tonini ai funerali – per tenere alti i profitti di quelli che nessuno avrebbe più chiamato padroni, perché non era in linea con i tempi. Un mondo dove gli operai, frammentati e resi soli, non riuscivano più a organizzarsi contro lo sfruttamento, un mondo dove il lavoro nero era percepito come parte dell’abbassamento dei costi, dove i controllori non fanno il loro dovere, dove i sindacati si sono smarriti.

Racconta di vecchi operai, sfruttati, che si fanno padroni e invece di cambiare le cose – che hanno vissuto sulla loro pelle – diventano peggio dei padroni veri, scimmiottandone le bassezze, imitandone lo stile di vita, pronti a tutto per mantenerlo. Quella tragedia, il cui senso Ferracuti coglie come un esame di coscienza collettivo, risvegliò di botto un Paese che voleva raccontarsi diverso.

Un sussulto che, però, durò poco. Un moto di sdegno che si affievolì presto, come la memoria che con questo lavoro Ferracuti vuole invece tenere vivo. Perché le cose non sono cambiate. Facciamo finta di non sapere da dove vengono i pomodori che mangiamo, quali mani li hanno raccolti per una paga da fame in condizioni di schiavitù. Facciamo finta di non vedere che si muore di lavoro, che la sicurezza dei lavoratori è diventata argomento per i bilanci, non tema di civiltà.

Storia di una tragedia operaia, prima di tutto, ma anche storia di una rimozione collettiva. Nel sistema economico dove per il profitto la tutela dei lavoratori, le regole, le leggi e le persone stesse si ritrovano a essere solo un freno nella corsa all’oro, questa storia invita a reagire. Partendo dal presupposto che nell’attacco alle conquiste dei lavoratori, raccontato da Luciano Gallino con libri e articoli, si torna indietro di cento anni, quello che ferisce è che le vittime sono divise, accecate dagli stessi miti che chi li sfrutta ha creato. Questo libro è una sirena, che bisogna ascoltare.



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